RIVELAZIONE
. È la comunicazione agli uomini di realtà o verità soprasensibili e per essenza recondite, anzi inaccessibili alla mente umana ridotta alle sole sue forze, ma resa capace di conoscerle da un intervento diretto della volontà divina. Il termine designa anche tali verità, particolarmente quando siano contenute in un libro che si professa ispirato e che costituisce pertanto il libro sacro di una religione.
Nell'uso corrente, si restringe volentieri l'appellativo di "religioni rivelate" a quelle che si fondano su un libro sacro, cioè, all'ingrosso, alle grandi religioni di cultura progredita, in contrasto, da una parte, alle religioni dei primitivi, e dall'altra, a quella che i filosofi chiamarono "religione naturale" e che trae le sue verità fondamentali dalla sola ragione, né ammette altra rivelazione che quella che ogni uomo può scoprire nella propria coscienza. Ma, benché la rivelazione scritta sia di fatto la più importante, non conviene trascurare forme più semplici riscontrabili in ogni fase dello sviluppo religioso. A rigore, non esiste religione, per quanto umile, in cui non vi sia luogo per il concetto di rivelazione, poiché non ve n'ha una che non pretenda per lo meno di registrare manifestazioni della divinità. Nella sua forma più primitiva la rivelazione, ancora vuota di ogni contenuto, consiste in un semplice fatto: i fenomeni della natura e tutto ciò ch'egli considera come prodigio, rivelano al primitivo la potenza e le disposizioni, buone o cattive, del suo dio. Allo stesso modo, può essere rivelata, con manifestazioni misteriose, la presenza del dio in un luogo od oggetto (albero, pietra, ecc.) che diventa pertanto luogo od oggetto di culto, tabu o feticcio. Una forma più complessa di questa rivelazione essenzialmente concreta e sensibile è data dalle visioni, sogni e teofanie, che hanno tanta parte nel maggior numero delle religioni. Cosi i fedeli di Asclepio, dormenti nel tempio di Epidauro, avevano nel sonno la rivelazione visuale del dio e insieme quella dei rimedî appropriati ai loro mali: prima forma d'una rivelazione della parola mediante un oracolo.
Realizzata mediante un contatto diretto e personale con la divinità, la rivelazione così interiorizzata diventa, a questo stadio, essenzialmente un'esperienza, di carattere mistico, e di cui l'estasi (v.) costituisce la forma più notevole. Spesso, un'esperienza di questo ordine è alla base della rivelazione scritta. Sia che l'ispirato scriva direttamente sotto la dettatura di una "voce interiore", sia che debba trasporre ideologicamente e, per così dire, trascrivere in linguaggio umano le realtà, per loro essenza ineffabili, da lui contemplate in visione, la rivelazione, ormai definita dal suo contenuto che è la parola divina, è resa accessibile a tutti. Il passaggio dal sensibile all'intellettuale è in pari tempo passaggio dal soggettivo all'oggettivo, dall'interiore all'esteriore. Il contatto diretto con la divinità resta privilegio d'uno solo, o di pochi, ma il beneficio della rivelazione è esteso alla comunità dei fedeli per opera del libro. Così, l'esperienza religiosa di Maometto è alla base del Corano; e la religione dell'Avesta è nata dall'esperienza religiosa di Zarathustra. Allo stesso modo, profeti, riformatori e fondatori di religioni o di sette sono sempre gli agenti d'una rivelazione, che poi si fissa e viene tramandata in un libro.
Quando a una religione fa difetto la personalità storica di un fondatore ispirato, o la sua figura appare troppo lontana o imprecisa, il fatto della rivelazione si attacca, con forza, al solo libro. In tal caso, esso è presentato come di origine divina immediata, che d'altra parte è rappresentata in maniere assai diverse.
Talvolta il libro è presentato come dettato da un dio a un uomo, spesso anonimo, il cui ufficio è quello di un semplice registratore e la cui personalità importa poco: così, gli scritti dell'ermetismo greco si rifanno al dio Thot, detto anche Ermete Trismegisto, e conservano l'insegnamento da lui impartito, in un passato favoloso, durante un suo soggiorno tra i mortali. In altri casi il libro stesso, in senso materiale, come pergamena, papiro o tavolette, viene considerato d'origine divina e pervenuto agli uomini, bell'e scritto, per modi misteriosi, in un'epoca generalmente assai remota. In altri casi il libro sacro, divino anche nella lettera, è concepito come la espressione eterna e increata del pensiero divino: anche senza parlare del giudaismo rabbinico, una concezione del genere si trova nell'induismo, per cui ognuna delle lettere che compongono la letteratura dei Veda è una potenza divina, autentica emanazione ipostatizzata del dio supremo.
Risultato pratico di tali concezioni è spesso la cosiddetta "bibliolatria", il culto del testo scritto, vera e propria pedanteria religiosa, di cui si trovano esempî nella maggior parte dei sistemi religiosi, in epoche di decadenza o in ambienti dove l'esegesi è malsicura.
Nell'uno come nell'altro caso, la rivelazione anonima o apocrifa appare allo storico soprattutto come la codificazione di uno stato di fatto: essa registra le credenze, i riti e i costumi di una data religione in un dato momento della sua storia e, additandoli come l'eredità di generazioni lontane e, in ultima analisi, l'espressione stessa della volontà divina, conferisce loro un carattere imperativo. La rivelazione scritta, interpretata dall'autorità sacerdotale che ne ha il deposito, in servizio d'un'ortodossia conservatrice, diventa così un baluardo contro le insurrezioni nate dall'ispirazione individuale. Rivelazione e tradizione sono in tal caso praticamente sinonime; e questo è il caso delle grandi religioni di carattere sociale e gerarchizzate, quali, per es., quelle dell'Oriente antico.
L'altissima antichità di queste religioni e delle loro dottrine ha spesso portato, già i Greci stessi, a invocarne l'autorità, in cerca di una certezza. Sensibile già nella filosofia ionica, poi presso illustri rappresentanti del pensiero greco, questa tendenza si sviluppa soprattutto nei sistemi seriori di filosofia religiosa, neopitagorismo e neoplatonismo, che cercano in Oriente le proprie origini. Così si formò e si diffuse primamente la concezione filosofico-religiosa di una "rivelazione primitiva", data ai primi uomini, patrimonio comune dell'umanità, ma ben presto sfigurata e oscurata, e per conseguenza perduta per la massa dei mortali; ma misteriosamente conservata e trasmessa di generazione in generazione dai sacerdoti e dai sapienti dell'Egitto e della Caldea, e finalmente rifiorita appunto nella filosofia ellenica, erede lontana ma fedele di questa stessa tradizione.
Bibl.: N. Söderblom, Offenbarung, in Internationale Wochenschrift, dicembre 1906; P. Tillich, Die Idee der Offenbarung, in Zeitschrift für Theologie und Kirche, N. F., VIII (1927), p. 403 segg.; E. Brunner, Philosophie und Offenbarung, Tubinga 1925; Die Religion in Geschichte und Gegenwart, IV, ivi 1930, coll. 654-657, s. v. Offenbarung.
Teologia cattolica. - Rivelazione in senso generico è qualsiasi manifestazione che Dio faccia alla creatura anche mediante il naturale lume della ragione; in questo senso si confonde con la semplice cognizione della verità e si designa come "rivelazione naturale". Ma in senso proprio - che è quello comunemente inteso nel linguaggio cattolico - è una speciale manifestazione positiva di ordine soprannaturale, un atto cioè soprannaturale, per cui Dio comunica alla creatura, o immediatamente o per via di un intermediario divino, i suoi insegnamenti e voleri. Può essere privata se fatta a una sola persona, o a un certo numero di persone, e questa non è mai imposta alla fede universale; ma quando si parla di rivelazione senz'altro, s'intende quella pubblica, che va diretta a tutto il genere umano. Solo di questa trattano le definizioni della Chiesa, riepilogate dall'ultimo Concilio Vaticano. Il Concilio riafferma tutta la dottrina cattolica in questi punti: 1. il fatto certo di una tale rivelazione: "è piaciuto alla sapienza e bontà di Dio rivelarsi a noi e scoprirci gli eterni decreti della sua volontà per via soprannaturale"; 2. le due parti o periodi storici: rivelazione giudaica o dell'Antico Testamento, ed evangelica, o del Nuovo Testamento (Ebrei, I, 1-2); 3. l'oggetto o il doppio ordine di verità rivelate: quelle a cui la ragione può giungere anche da sé, ma non Vi giunge che raramente, in lungo tempo, non senza incertezze né senza frammischianza di errori; le altre affatto inaccessibili, o misteri propriamente detti, come i "profunda Dei" di cui parla l'Apostolo (I Cor., II, 10), le profondità cioè della vita divina, quale il mistero della Trinità, ecc.; 4. la necessità, che è morale, per il primo ordine della verità, ma quanto all'altro è assoluta; "perché Iddio nella sua infinita bontà ha ordinato l'uomo a un fine soprannaturale, alla partecipazione cioè dei beni divini, i quali trascendono ogni intelligenza umana" (I Cor., II, 9); 5. l'organo della rivelazione: la Scrittura e la Tradizione, derivata dall'insegnamento orale di Cristo o dall'ispirazione dello Spirito Santo e trasmessa fino a noi dagli Apostoli e dai loro successori (Constitut., De Fide cathol., c. II).
Le definizioni positive della verità sono riconfermate dal Concilio Vaticano nella recisa condanna degli opposti errori, come di chi afferma l'impossibilità, l'inutilità o la sconvenienza della rivelazione, di chi a essa vuole sostituita l'evoluzione o il progresso indefinito della ragione umana e suppone che questa possa e debba arrivare da sé al pieno possesso di qualsiasi vero e di qualsiasi bene; di chi, infine, nega che la rivelazione sia contenuta nei libri sacri, rigettandoli come non canonici e non ispirati (l. c., can. 1-4). Alla rivelazione, essendo locuzione di Dio, per l'infalli- bilità e veracità divina non può andare congiunto l'errore, e perciò non si può negare l'assenso indubitato della ragione. Ma perché questo sia "ossequio conforme alla ragione", deve constare il fatto della rivelazione stessa: e questo avviene, oltreché per le interne illustrazioni, per gli argomenti esterni della rivelazione, i fatti cioè divini che l'accompagnano e sono da S. Agostino paragonati alle inflessioni o al timbro proprio che manifesta la voce divina: i miracoli particolarmente e le profezie; onde i "motivi di credibilità", col loro seguito di prove storiche e documenti quali pochi altri fatti possono vantare, ove siano bene considerati, nel loro complesso soprattutto - se non dànno l'evidenza della verità" che necessiti l'assenso o tolga il merito della fede - portano all'"evidenza della credibilità"; mostrano cioè evidente sia l'imprudenza del non credere, sia la prudenza, e perciò il dovere, del credere alla rivelazione, e ciò per l'autorità di chi ci parla in essa, che è Dio.
Bibl.: H. Denzinger e Cl. Bannwart, Enchiridion Symbolorum definitionum, ecc., Friburgo in B. 1928 (per le definizioni dogmatiche: specialmente nn. 1781-1823, Conc. Vat.; nn. 2074-2091, Enciclica Pascendi); J.-M.-A. Vacant, Études théologiques sur les constitutions du Conc. du Vatican, Parigi 1895; F. Franzelin, De Scriptura et Traditione, Roma 1870; I. Bainvel, De magisterio vivo et traditione, Parigi 1905; id., De Scriptura sacra, ivi 1910; I. Ottiger, Theol. fundamentalis, Friburgo in B. 1897; H. van Laak, De theol. gener., Roma 1911: id., Institutionum theologiae fundamentalis repetitorium, ivi 1921.