riuso
s. m. – Il r., il riciclo, la rielaborazione di oggetti, materiali e indumenti, sono pratiche sociali ed estetiche che si manifestano entro una pluralità di ambiti espressivi: design, arredamento, moda. L’ambito della moda, in particolare, rappresenta una complessità di tensioni, di significati e di valori, non solo relativi alla dimensione vestimentaria, che può fungere da modello per comprendere stili di vita e di consumo più generali. L’idea del r. si fonda sulla possibilità di conferire nuovi sensi e nuove composizioni a partire dai sensi residuali rinvenibili in 'oggetti trovati', che siano avanzi, ritagli o rifiuti veri e propri. Queste pratiche hanno assunto un significato particolare nel primo decennio del 21° sec., in quanto contrastano con l’immaginario e gli stili di vita prevalenti in Occidente, nelle sfilate di moda, nelle vetrine delle boutique e nelle pubblicità, dove si moltiplicano invece le immagini collegate con l’idea del lusso e dello spreco. Tipico di momenti della storia come il primo decennio di questo secolo, in cui si divaricano in modo estremo i contrasti, primo tra tutti quello tra ricchezza e povertà, è il presentarsi allo stesso tempo e nelle medesime situazioni di due tendenze completamente opposte: il lusso estremo convive nella realtà sociale con pratiche ed esperienze quotidiane di nuova 'frugalità'. Le classi sociali che hanno potuto permettersi di seguire le mode in questo decennio e le cui giovani generazioni hanno costituito un serbatoio quasi inesauribile di vendite per l’industria del casual e dello sport, oggi riducono le spese e cercano di inventarsi nuove formule di 'sopravvivenza simbolica'. Riprende così piede una moda 'fatta in casa': maglioni ai ferri, vestiti confezionati da sarte a buon mercato, cura del corpo, del maquillage e dei capelli in economia domestica, insomma tutte le forme di creatività e manualità, soprattutto femminile, che negli anni Ottanta e Novanta del Novecento erano state abbandonate a favore di un consumismo standardizzato. Il che non significa che si smetta di comperare: nei consumi per l’abbigliamento si preferiscono però magari quei negozi che fanno una politica dei prezzi contenuta, siano essi centri di pronto moda multinazionali (da H&M a Zara), o negozi preferiti dalle comunità di consumatori solidali, siano outlet che vendono stock di merci. Oltre a questi, vivono nuova vita i mercati, luoghi canonici dello scambio che diventano nuovi protagonisti, dove si riescono spesso a trovare indumenti di buona fattura che saltano alcuni passaggi della distribuzione e quindi mantengono prezzi accessibili. Molte sono le bancarelle dove gli oggetti in vendita – dai bijou ai vestiti di fattura 'esotica' ai falsi marchi – sono ormai divenuti dei classici del consumo di moda. Favorito dalla diffusione del vintage (v.), anche l’usato ha piena cittadinanza nei mercati, sebbene gli abiti di seconda mano siano stati sempre la grande risorsa vestimentaria di masse ingenti di popolazione che vivono ai limiti della sopravvivenza anche nel cuore dell’opulento Occidente. Oltre ai mercati classici, si moltiplicano nelle periferie quelli che potremmo definire di seconda classe, dove si trovano vecchi oggetti di ogni tipo: dai soprammobili alle apparecchiature hi-fi degli anni Settanta, ai telefoni cellulari della prima generazione, agli strumenti di precisione, alle scarpe. A frequentarli, oltre ai cercatori di curiosità, un’umanità ancora più varia e per certi aspetti più disperata di quella dei mercati tradizionali: immigrati, rom, nuovi e vecchi poveri 'residenti', tutti coloro che sopravvivono a stento nel nostro 'deserto del reale'. La moda 'stracciona' sdrucita e strappata che ha imperversato all’inizio del decennio non è stata solo un simulacro di questo reale, ma una sua diretta espressione: il risparmio, il r. del vecchio, la riduzione dello spreco, il rattoppo, sono pratiche di cui i segni della moda quotidiana si appropriano e a cui danno nuova dignità. Il r. conosce inedite frontiere: dal riciclo di plastica e vetro si producono nuovi materiali e fibre per l’abbigliamento, e, nell’economia ristretta dei tempi di crisi, la rielaborazione di vecchi capi, di avanzi di stoffa o di filati, genera composizioni da cui vengono a volte distillate mode di strada. Nell’ambito della trashy fashion, la Sanitary fill company di San Francisco ha promosso, a partire dal 2002, artisti e giovani stilisti che trasformano scarti e rifiuti in abiti e oggetti di arredamento. Anche in Italia l’idea di trasformare la 'spazzatura' in prodotto di moda è divenuto patrimonio culturale di scuole di creatività come l’Istituto europeo di design, che ha svolto tra il 2002 e il 2003 delle manifestazioni itineranti di moda chiamate proprio Riciclando. Rifare e rielaborare sono ambiti anche teoricamente affascinanti, allorché si applichi al prodotto di moda quell’intelligenza e quella capacità di pensare l’oggetto di vestiario in modo da farlo diventare una sorta di quintessenza dei tempi, di elisir del presente, in grado comunque di piacere. La cosa interessante è la visibilità, la trasparenza, in senso letterale ma anche concettuale, del processo di riutilizzazione e giustapposizione dei materiali: una trasparenza che si potrebbe definire, parafrasando un’espressione presa in prestito dal cinema, un montaggio innaturale alterato. Peraltro le tecniche del r. e del riciclo abbracciano altri settori della produzione di oggetti e della progettualità artistica: dalle istallazioni, che trovano luogo in spazi pubblici e musei, all’architettura, ove nel nostro secolo si sono moltiplicate le esperienze di case fabbricate artigianalmente ed edifici progettati da scuole di architettura e realizzati tutti con materiali riciclati ed ecosostenibili.