Ritratto delle cose della Magna e altri scritti sulla Germania
«Nella Magna non si è fatta conclusione veruna», recitano alcune righe (poi cassate) di una lettera dei Dieci indirizzata, nel febbraio 1508, a Giovan Battista Ridolfi, oratore fiorentino in Francia (LCSG, 6° t., p. 158). E questo potrebbe essere il più realistico consuntivo della legazione di Francesco Vettori, accompagnato da M., presso la corte imperiale di Massimiliano I (→) nel Tirolo nei primi mesi del 1508. Al principio dell’estate 1507, Piero Soderini aveva fatto eleggere M. quale «mandatario» per la missione tedesca, ma sul Segretario pesavano, anche aggravate, le ire che covavano contro il gonfaloniere. L’elezione incontrò l’opposizione degli ottimati e M. si vide sostituito il 27 giugno 1507 con Vettori, solo per ricevere, pochi mesi più tardi, l’incarico di raggiungere l’inviato ufficiale a Bolzano e coadiuvarne l’azione politica: la situazione si faceva delicata, venendo in discussione la misura del tributo fiorentino da offrirsi all’imperatore. Il viaggio nel dicembre 1507 fu particolarmente difficile, sia per la stagione, sia per essere la via diretta (attraverso la Lombardia) impedita dagli eserciti francesi e veneziani. Intanto la concentrazione di truppe imperiali ai confini settentrionali della Repubblica veneziana già costituiva un tentativo estremo per salvare un ambizioso progetto di lì a poco coronato dal completo insuccesso. M. dovette attraversare quindi la Savoia e la Svizzera, e non perse occasione tra Ginevra e Friburgo per raccogliere informazioni politico-militari sui cantoni elvetici e indagare i legami tra gli Asburgo e i banchieri Fugger. Il Segretario raggiunse Vettori nel gennaio 1508, e forse non casualmente alla medesima data si ferma la cronaca di quella stessa missione che Vettori consegnò, diversi anni più tardi, alle pagine del suo Viaggio in Alemagna.
Il compito dei due diplomatici era piuttosto ambiguo: cercare di guadagnare l’appoggio di Massimiliano, che progettava un’impresa in Italia e un’incoronazione imperiale a Roma, senza però perdere il favore della Francia che sosteneva la campagna per la riconquista di Pisa. Nel confermare la propria fiducia a Vettori, i Dieci, all’inizio di febbraio del 1508, non mancavano di avvertire:
questa città non può spendere sì grossamente [l’offerta fiorentina a Massimiliano era giunta a quarantamila ducati] né inimicarsi con due potenze sì grandi sanza iustificarsi con il populo [...], perché le qualità nostre non comportano metterci in paragone di chi può più di noi (LCSG, 6° t., p. 74).
Le condizioni operative dei due fiorentini – che consolidarono in quei mesi un’amicizia destinata a durare al di là dei rivolgimenti politici e cominciarono a condividere un medesimo pungente stile epistolare – erano rese ancor più ardue dalle difficoltà dei corrieri, che spesso giungevano a destinazione con grande ritardo e con istruzioni rese illeggibili dal viaggio.
Un’analisi politica disincantata dell’esperienza diplomatica presso l’imperatore è consegnata da M. a caldo, nel Rapporto di cose della Magna, presentato dopo il rientro in patria nel giugno del 1508 (una prima redazione è nell’Apografo di Giuliano de’ Ricci, BNCF, Palatino E.B. 15.10, cc. 37v-39v; la seconda nel ms. BNCF, Nuovi Acquisti 1229, inserto I). Durante la primavera del 1508, M. era stato afflitto da severi disturbi urinari e Vettori ne aveva informato i Dieci al termine di una lunga lettera da Trento, il 30 maggio (LCSG, 6° t., p. 252). Il Rapporto reca la data del 17 giugno 1508 (all’indomani del rientro di M.): una prima stesura, di cui è perduto l’autografo, fu trascritta a fine Cinquecento da Giuliano de’ Ricci e dal canonico Niccolò, entrambi nipoti di Machiavelli. Questa prima versione è accompagnata da una ricetta medica a base di semi di ginestra per favorire la diuresi: potrebbe derivare pertanto da una minuta preparata da M. nell’imminenza del rientro in patria o durante il viaggio di ritorno. La seconda redazione ha i caratteri di una stesura definitiva ed è conservata in redazione idiografa a cura di Agostino Vespucci da Terranova, coadiutore di M. in cancelleria, con integrazioni autografe.
Il Rapporto rivela subito che l’impresa imperiale in Italia, avviata nel giugno 1507 dalla Dieta di Costanza, non ha sviluppi positivi per Massimiliano. La Dieta ha assicurato all’imperatore solo diciannovemila uomini (e per un periodo determinato; per di più alcune comunità hanno preferito sostituire l’impegno militare con un contributo economico di gran lunga inferiore al bisogno): Massimiliano non ne ha voluti (o potuti avere) di più anche per non dover dividere il comando, e perché ai soldati suoi propri pensava di poter aggiungere appoggi militari ed economici da Venezia e da altri Stati italiani; infine anche i cinquemila mercenari svizzeri, assoldati con centoventimila fiorini stanziati dalla Dieta, furono impegnati per soli sei mesi. I dati militari e la correlativa analisi politico-finanziaria erano del resto già presenti nel primo rapporto di M. ai Dieci, il 17 gennaio 1508, all’indomani del suo arrivo a Bolzano: «Con tutto questo» – scriveva M. ai Signori – «el tempo passa: dove è un acquisto, è una perdita, perché dall’un canto ne viene l’estate, dall’altro le paghe de’ soldati, che lo Imperio debbe pagare, secondo la dieta, si consumono». L’imperatore sperava, entro l’autunno del 1507, di assicurarsi il sostegno veneziano, del papa e di altri potentati italiani, e di avere a disposizione gli svizzeri. E tuttavia, alla scadenza stabilita (il giorno di san Gallo, 16 ottobre), «delle tre [cose] non ne aveva condutte nissuna» (Rapporto, in SPM, p. 497). Da questo primo ragguaglio emerge subito l’impressione che il tentativo di concentrare le poche milizie raccolte a Trento, per cercare di forzare la mano a Venezia, si configura come una risorsa estrema: ultimum de potentia (p. 498). Tanto più che i veneziani, nonostante le importanti trattative diplomatiche (condotte da Girolamo da Landriano, da Luca Rinaldi vescovo di Trieste e dal governatore della Morea),
quanto più [Massimiliano] si gittava loro dreto, tanto più lo scoprivono debole, e più ne fuggiva lor la voglia, né ci conoscevon dentro alcuna di quelle cose per che le compagnie di stato si fanno, che sono: o per esser difeso, o per paura di non essere offeso, o per guadagno; ma vedeano d’entrare in una compagnia dove la spesa e il pericolo era loro, e il guadagno d’altri (p. 498).
Emerge qui la tendenza tipica della prosa machiavelliana a salire, in ogni occasione propizia, dal caso specifico alla considerazione generale: i veneziani non temevano l’imperatore, riconoscendolo debole, e non erano né attratti da una simile alleanza, né intimoriti dalla sua inimicizia, ma solo attenti a non dilapidare i propri mezzi economico-militari. A M. danno ragione i fatti: raccolte poche truppe locali attraverso una Dieta del contado tirolese, Massimiliano cerca di forzare i veneziani, attaccando Rovereto, Vicenza e le valli del Cadore. Concisamente M. informa del fallimento di simili imprese, della mancanza di aiuti dalla Germania e infine della tregua piuttosto ignominiosa per l’impero, siglata con Venezia il 6 giugno 1508 a opera di Rinaldi.
M. esamina quindi nel merito le ragioni della debolezza imperiale, offrendo al governo fiorentino un saggio di analisi sociologica:
Io, sendo stato in sul luogo, e avendone udito ragionare molte volte a molti, né avendo auto altra faccenda che questa, referirò tutte le cose di che io ho fatto capitale: le quali, se non distintamente, tutte insieme alla mescolata, risponderanno ai quesiti di sopra [circa le incerte opinioni relative alla debolezza e agli errori di Massimiliano]; né le dico come vere e ragionevoli, ma come cose udite, parendomi che lo ufizio d’uno servitore sia porre innanzi al signor suo quanto egli intende, acioché di quello vi sia di buono e’ possi far capitale (p. 500).
Meritano di essere sottolineati qui, in un testo del 1508, alcuni caratteri che saranno fondanti nell’elaborazione teorica machiavelliana post res perditas: il primato dell’autopsia («sendo stato in sul luogo», secondo una consolidata tradizione storiografica classicistica di impianto tucidideo); l’importanza del «far capitale», per il Segretario-diplomatico come per i suoi mandanti, delle esperienze politiche acquisite, un tema questo che tornerà con tutta evidenza nella dedica del Principe; l’esigenza di fondare l’interpretazione politica su una molteplicità di fattori che «alla mescolata» (espressione mutuata dal lessico cancelleresco) possono dar ragione di particolari eventi, rinunciando a distinguere quale tra i fattori abbia maggiore o minore peso.
Le ragioni della debolezza imperiale appaiono due: il carattere incerto e mutevole di Massimiliano e l’assenza di un pieno appoggio da parte della Germania. Per il primo aspetto, M. stigmatizza un sovrano inconcludente, incapace di una valida gestione economica dei suoi pur elevati introiti, vago nei progetti e ambiguo nei rapporti con i propri consiglieri.È significativo che il giudizio negativo sia affidato a parole, riferite testualmente, di Luca Rinaldi, cioè uno dei diplomatici più esperti e fidati a servizio dell’impero.
Il secondo rilevante motivo della inefficace politica imperiale è il mancato appoggio da parte delle comunità tedesche. Già all’interno del ritratto di Massimiliano, M. anticipa alcuni temi: all’imperatore occorrono più denari che agli altri sovrani per mettere un esercito in campo, perché le città della Magna sono ricche e non combattono se non lautamente pagate: «se in capo di XXX dì i danari non vengono, subito si partono, né gli può ritenere prieghi, o speranza o minacci, mancandoli denari»; la ricchezza di tali comunità si fonda in primo luogo sulla loro vita parsimoniosa e frugale: «godono di questa lor vita rozza e libera, e non vogliono ire alla guerra se tu non gli soprapaghi» (p. 503).
Nella seconda e conclusiva parte del Rapporto, emerge con ulteriori dettagli la «potenza della Magna», ma affiorano anche i fattori di disunione nella sua compagine sociale e dunque l’impossibilità per l’imperatore di valersi pienamente di una tale abbondanza di mezzi e armi. Il primo elemento a suscitare l’interesse del Segretario è la ricchezza monetaria delle comunità tedesche: i loro conti pubblici sono sempre in attivo, talora anche per milioni di fiorini, come nel caso della ricca Strasburgo. Tale florida situazione economica è determinata dalla quasi assenza di spese pubbliche: l’unica pesante voce in uscita consiste nel mantenere le città sempre rifornite di viveri per un anno, spesa che, sostenuta all’inizio, risulta poi assai più modesta in fase di mantenimento. Si tratta di un aspetto, con risvolti in pari tempo economici e militari, che dovette colpire particolarmente M.: egli vi insiste poi, con una ripresa letterale, al principio del Ritratto delle cose della Magna (completato nel 1512), e infine nel cap. x del Principe, con echi ancora in Discorsi I lv 9-17. È interessante confrontare le diverse stesure per tale argomento, come campione delle tecniche di reimpiego adottate dal Segretario nella sua prassi scrittoria:
hanno in questo un ordine bellissimo: perché hanno sempre in publico da mangiare, bere e ardere per uno anno, e così per uno anno da lavorare le industrie loro, per potere in una ossidione pascere la plebe e quelli che vivono delle braccia, per un anno intiero senza perdita. In soldati non spendono perché tengono gli uomini loro armati ed esercitati (Rapporto, cit., p. 504 e Ritratto, in SPM, pp. 570-71).
Le città della Magna [...] tengono sempre nelle canove publiche da bere e da mangiare e da ardere per uno anno; e oltre a questo, per potere tenere la plebe pasciuta e senza perdita del publico, hanno sempre in comune da potere per uno anno dare da lavorare loro, in quelli esercizi che sieno el nerbo e la vita di quella città e delle industrie de’ quali la plebe si pasca; tengono ancora gli esercizi militari in reputazione, e sopra questo hanno molti ordini a mantenergli (Principe x 7-9).
Accanto alla vita frugale, merito delle comunità tedesche è la capacità di mantenere addestrata una milizia propria – il che evita il dispendioso reclutamento di truppe mercenarie – e la previdenza con cui tengono le città rifornite di viveri ed eventualmente preparate ad affrontare un assedio anche per la durata di un anno.
Nonostante la ricchezza di mezzi e uomini, il territorio tedesco non offre un valido fondamento alla politica imperiale, perché esso appare segnato da una grave disunione, dai «molti umori contrari che sono in quella provincia» (Rapporto, cit., p. 504). In particolare gli svizzeri sono avversi a tutta la Germania, e nel territorio tedesco vero e proprio le comunità e i principi sono in conflitto tra loro e questi ultimi sono spesso in disaccordo con l’imperatore. Il primo elemento – il disaccordo con gli svizzeri – merita un chiarimento supplementare: gli svizzeri, infatti, non solo sono avversi ai principi (nobiltà feudale), come lo sono per natura anche le comunità tedesche, ma sono anche nemici dei «gentiluomini», cioè delle aristocrazie che governano le altre città tedesche. Nelle città svizzere «godonsi, senza distinzione veruna di uomini, fuori di quelli che seggono nei magistrati, una libera libertà» (p. 505, annominazione quanto mai significativa). Per di più anche gli svizzeri sono malvisti dalle comunità tedesche, a causa della loro fama militare che oscura quella delle altre regioni. Non ha invece bisogno di spiegazioni l’inimicizia fra principi e comunità e fra principi e imperatore, connaturata com’è alla instabile gestione del potere autocratico in regime feudale (il tema sarà ripreso più volte nel Principe, in particolare nel cap. iv 13-15). Il risultato di una così frammentata compagine sociale, minata anche da conflitti interni fra i differenti signori e delle varie comunità tra di loro, è che, al di là dei tentativi dell’imperatore di controllare i grandi feudatari con l’appoggio delle città e degli svizzeri, appare difficilmente realizzabile «questa unione di che lo imperadore avrebbe bisogno» (p. 505).
Ad animare le speranze di riuscita per l’ambiziosa impresa italiana di Massimiliano era stata l’assenza di validi avversari dell’imperatore tra i principi: e tuttavia l’accorto diplomatico fiorentino osserva che per ostacolare i piani dell’imperatore non occorre opporsi apertamente, ma basta non offrirgli l’aiuto necessario; e perfino quelle comunità che non osano negarglielo, non è detto poi mantengano le promesse o che le mantengano al momento opportuno. Perciò, dei diciannovemila uomini promessi dalla Dieta di Costanza non se ne raccolsero mai più di cinquemila (come già detto, Massimiliano aveva anche dovuto accettare, e spesso in termini svantaggiosi, somme di denaro in luogo di soldati).
A completare l’analisi, M. osserva poi che la nobiltà feudale, sia laica sia ecclesiastica, è ormai assai indebolita in Germania «talmente che sono inutili amici e poco formidabili nimici»; mentre le «comunità franche e imperiali [...] sono il nervo di quella provincia, dove è denari e ordine» (p. 506). Il Rapporto volge al termine con un’ultima notazione storica: obiettivo delle comunità è conservare la propria libertà, non agevolare le conquiste imperiali. A dimostrazione di questo sostanziale disinteresse delle città tedesche per la politica dell’impero, M. rievoca la guerra dell’estate 1499 fra Massimiliano e gli svizzeri. Neppure in quel caso, pur trattandosi di un’impresa direttamente rilevante per il proprio territorio, le comunità tedesche poterono efficacemente giovare all’imperatore; al punto che, dopo alcune gravi sconfitte, il 22 settembre 1499 Massimiliano stipulò la pace di Basilea, riconoscendo di fatto l’indipendenza svizzera. E M. commenta: «Or se nell’imprese proprie egli hanno usati questi termini, pensate quello faranno nell’imprese di altri!» (p. 507).
Proprio i veneziani, in ragione dei frequenti rapporti commerciali con le città tedesche, avevano ben chiari i limiti della potenza imperiale, «meglio che verun altro d’Italia», e questa corretta valutazione politica ha reso la Repubblica di Venezia coraggiosa nel fronteggiare l’imperatore. M. chiude il Rapporto con un’indicazione politica operativa: benché i diplomatici italiani presenti alla corte di Massimiliano vagheggino un’unione della Germania che possa favorire un’impresa imperiale in Italia, questa ipotesi appare al Segretario fiorentino utopica, anche per il sostanziale disinteresse delle città tedesche in acquisti territoriali dell’impero in Italia.
A fronte di questi ragionamenti, basati su dati di fatto raccolti attraverso la diretta osservazione degli eventi, altre materie vengono, invece, da M. lasciate fuori dal Rapporto, «per esser tutte fondate in su conietture» (p. 508).
Ad appena un anno di distanza, il governo fiorentino chiese al responsabile della seconda cancelleria di tornare sulla materia tedesca, e M. compose, nella tarda estate del 1509, un Discorso sopra le cose della Magna e sopra l’imperatore (Apografo Ricci, ms. BNCF, Palatino E.B. 15.10, c. 36v), nel cui avvio egli stesso ammette: «Per aver scritto, alla giunta mia, anno qui delle cose dello imperatore e della Magna, io non so che me ne dire di più» (Discorso, in SPM, p. 519). Ma se le idee di M. non erano cambiate, a mutare (e profondamente) erano stati lo scenario politico e le alleanze: Giulio II aveva infatti animato la lega di Cambrai (→), un’alleanza antiveneziana con la partecipazione sia della Francia sia dell’impero, le cui attività militari culminarono nella disfatta veneziana di Agnadello (→ Agnadello, battaglia di). Firenze non aveva preso parte alla lega ma, anche su insistenza di Luigi XII, aveva accettato di erogare un tributo a Massimiliano: quarantamila fiorini in quattro rate. Il primo versamento fu eseguito dagli ambasciatori fiorentini in ottobre a Verona; al secondo provvide M. recandosi in commissione a Mantova e a Verona tra metà novembre e metà dicembre 1509. Intanto Vicenza si ribellava alla guarnigione imperiale e Venezia cominciava a recuperare alcuni dei domini perduti in terraferma e tornava a impadronirsi di Padova. Il Discorso machiavelliano – noto attraverso la trascrizione di Giuliano de’ Ricci – costituisce un memorandum per i due inviati fiorentini Gianvittorio Soderini e Piero Guicciardini che, nell’ottobre 1509, si trovarono a operare in un contesto più facile rispetto a M. e Vettori: infatti, poiché anche Luigi XII aveva partecipato alla lega di Cambrai, non c’era ora il rischio di inimicarsi la Francia.
Il Discorso riprende e amplifica nel tono il ritratto ambivalente (e in gran parte negativo) di Massimiliano, ma soprattutto, dalle difficoltà nel trattare una legazione presso un imperatore di siffatto carattere, M. trae spunto per un conciso manualetto di tecnica diplomatica:
la più importante parte che abbia uno oratore che sia fuori per un principe o republica, si è coniecturare bene le cose future, così delle pratiche come de’ fatti: perché chi le coniettura saviamente et le fa intendere bene al suo superiore, è cagione che il suo superiore si possa avanzare sempre con le cose sue et provvedersi ne’ tempi debiti. Questa parte, quando la è fatta bene, onora chi è fuora et benefica chi è in casa, et il contrario fa quando la è fatta male (p. 518).
In primo luogo giova notare la distinzione fra «pratiche» (trattative diplomatiche) e «fatti» (eventi significativi in ambito civile e militare), che richiama la ben nota distinzione tucididea fra lògoi ed erga nei capitoli proemiali e metodologici della guerra peloponnesiaca (Tucidide I xxi-xxiii). Una distinzione che, nel seguito dell’istruzione diplomatica machiavelliana, viene ulteriormente articolata:
voi sarete in luogo dove si maneggierà due cose: guerra et pratica; a volere fare bene l’offitio vostro, voi avete a dire che oppenione s’abbia dell’una cosa et dell’altra; la guerra si ha a misurare con le genti, con il danaio, con il governo et con la fortuna [...]. Le pratiche fieno di più sorte (p. 518).
I «fatti» appaiono dunque, in primo luogo e quasi esclusivamente, gli avvenimenti di ordine militare, e M. indica quattro parametri di giudizio: le truppe, i mezzi economici, la capacità politica, la fortuna nelle operazioni. Le «pratiche» sono invece le trattative, e il buon ambasciatore dovrà tener conto di quelle aperte fra tutte le forze in gioco, e badare soprattutto «che fine sia quello dello imperatore con voi, quello che voglia, dove sia volto l’animo suo» (p. 518), e cercare di dirigere i suoi intenti per ottenere il massimo vantaggio dello Stato.
Agli anni 1511-12 può ascriversi la composizione del Ritratto delle cose della Magna, un breve opuscolo che recupera alla lettera cospicui nuclei tematici dal Rapporto del 1508, integrando il quadro diplomatico-militare con i più recenti avvenimenti anche nell’intento di offrire una rappresentazione politica d’insieme della realtà tedesca. Confluiscono nel Ritratto, forse in momenti redazionali diversi, le considerazioni maturate da M. in occasione dell’assedio di Padova nel 1509, della seconda legazione imperiale, nei pressi di Mantova, nel novembre-dicembre 1509, e in generale l’evolvere della politica europea fino alla primavera-estate del 1512. Si legge in una copia manoscritta (BNCF, CM VI 83, cc. 9r-12r; nel medesimo testimone è il Ritratto di cose di Francia, un fascicoletto di 6 bifoli, non autografo e databile alla prima metà del 16° sec.). La prima edizione a stampa è nella giuntina delle opere machiavelliane del 1532; esiste inoltre un compendio, allestito dal notaio Antonio Maria Bonanni di San Gimignano ai primi del Cinquecento e reso noto da Nicolai Rubinstein, con estratti dal Rapporto, dal Ritratto e dal Viaggio di Vettori.
Nell’esordio il Ritratto ricalca le considerazioni sulla ricchezza pubblica e privata delle comunità tedesche: la loro capacità di resistere a prolungati assedi, la vita frugale dei cittadini; parimenti M. riprende l’analisi dedicata ai fattori di disunione sociale fra imperatore, grandi feudatari, comunità, e in particolare l’inimicizia con gli svizzeri. In questo contesto tornano ancora gli argomenti conclusivi del Rapporto intorno alla non credibile riuscita di un’impresa imperiale in Italia. Ora, a distanza dagli eventi, il giudizio machiavelliano risulta però definitivo: «e per questa e per l’altre ragioni le genti non raccozzavano e l’impresa andò male» (Ritratto, cit., p. 574).
M. prosegue, sempre sulla scia del Rapporto, con la distinzione tra principi laici ed ecclesiastici, sottolinea come la vera forza risieda nelle libere città e richiama ancora la sconfitta subita dalle comunità svizzere e infine la precisa cognizione veneziana delle debolezze imperiali sul piano politico-militare.
Nella parte conclusiva il Ritratto offre materiali nuovi, soprattutto in ambito strategico-militare, presumibile frutto di osservazione diretta in occasione della campagna di Padova. L’esercito tedesco è fornito di una cospicua cavalleria, ma i cavalli non sono protetti da armatura e le selle sono piccole e senza arcione; parimenti non corazzati sono i cavalieri al di sotto del busto: tutti fattori che ne limitano l’efficacia contro truppe italiane o francesi. Le fanterie sono coraggiose e composte da uomini vigorosi: armati in modo leggero per essere più agili, i fanti tedeschi sostengono con tracotanza di non conoscere altro nemico che l’artiglieria, contro la quale anche un’armatura sarebbe difesa inefficace. Fanno grande affidamento sul proprio schieramento tattico, e risultano milizie valide in battaglia campale, ma inefficaci nell’espugnare luoghi fortificati o nel difenderli, e in generale laddove non possano mantenere appunto lo schieramento. L’autore richiama come esempio l’assedio di Padova, che durò ben diciassette giorni nel settembre 1509, e in generale le occasioni in cui le milizie tedesche hanno dato buona prova in campo aperto e non buona nelle espugnazioni. Nelle ultime righe del Ritratto, M. aggiunge due riferimenti militari alla primavera del 1512: in occasione della battaglia di Ravenna (→) tra francesi e spagnoli (11 apr. 1512) le fanterie francesi sarebbero state sconfitte se non avessero avuto il soccorso di quelle tedesche; parimenti nella campagna militare condotta da Ferdinando il Cattolico in Guyenne, nel maggio 1512, le truppe spagnole temevano più lo scontro con un manipolo di mercenari tedeschi che non con tutto il resto delle fanterie francesi.
Come si è visto, l’elogio per le «liberissime città della Magna» dal Rapporto del 1508 confluirà quasi alla lettera nel cap. x del Principe, in una posizione estremamente significativa. Dopo aver discusso il principato civile (cap. ix), e prima di quella tipologia specialissima che è il principato ecclesiastico (cap. xi), M. si interroga sul modo di «esaminare la qualità» dei principati (x 1), valutarne cioè la consistenza politica. Il parametro di riferimento sarà costituito dall’autonomia militare: la capacità, per uomini e finanze, di tenere in campo un esercito contro ogni eventuale aggressore. In questo ambito l’esempio è offerto proprio dalle «città della Magna», fortificate, difese da una milizia cittadina ed economicamente capaci di resistere all’assedio anche per un anno (la parte conclusiva del capitolo, pur senza nominarla, sembra riferirsi alla strategia periclea nella guerra archidamica).
In Discorsi I lv 9-15 le comunità tedesche sono elogiate per l’onestà dei costumi (a confronto con la corruzione francese, spagnola e – sottinteso – italiana). In occasione di necessarie spese pubbliche, nelle città tedesche può attuarsi una forma di autotassazione: avendo i magistrati stabilito la riscossione di una percentuale del reddito, ognuno versa poi quanto ritiene dovuto in una cassa comune. Ne emerge, osserva Giorgio Inglese nel commento ad locum, un’immagine «stilizzata (non senza ricordi tacitiani)», dove l’integrità dei costumi è condizione per la libertà politica:
Vedesi bene nella provincia della Magna questa bontà e questa religione ancora in quelli popoli essere grande; la quale fa che molte republiche vi vivono libere, e in modo osservano le loro leggi che nessuno di fuori né di dentro ardisce occuparle (Discorsi I lv 9).
Una discussione storica dei presupposti che hanno determinato l’autonomia delle comunità tedesche è in Discorsi II xix 11-19. L’analisi politica ha condotto M. a sottolineare l’impossibilità «che a una republica riesca lo stare quieta e godersi la sua libertà» (§ 10): l’eccezionalità tedesca è determinata da «certe condizioni che sono in quel paese le quali non sono altrove». Le comunità tedesche più ricche, direttamente soggette all’imperatore, «cominciarono [...], secondo la viltà o necessità degl’imperadori, a farsi libere, ricomperandosi dallo Imperio con riservargli un piccol censo annuario» (§ 12). Ne è risultata una provincia «compartita in Svizzeri, republiche (che chiamano terre franche), principi e imperadore» (§ 14: torna qui l’analisi sociologica del Rapporto). All’imperatore, nell’ipotesi migliore, viene riservato un ruolo di arbitro preminente nelle controversie; e in tale contesto viene anche richiamato, in un quadro storico più esteso rispetto a quanto avveniva nel Rapporto, il conflitto della casa d’Asburgo con gli svizzeri, nel quale le comunità non offrirono sostegno efficace all’impero «perché le comunità non sanno offendere chi vuole vivere libero come loro» (§ 17).
Bibliografia: L’edizione critica degli scritti sulla Germania si deve a J.-J. Marchand, Niccolò Machiavelli. I primi scritti politici (1499-1512), Padova 1975, pp. 462-81, 485-86, 525-32; si veda anche: F. Vettori, N. Machiavelli, Viaggio in Germania, a cura di M. Simonetta, Palermo 2003 (contiene il Ritratto machiavelliano e il Viaggio in Alemagna di Vettori; quest’ultimo è attestato dai mss. BAV, Patetta 386, autografo – una ‘trascrizione in bella copia’ eseguita forse al principio del 1524 – e BNCF, Capponi 98, copia di Girolamo Rofia).
Per gli studi critici si vedano: R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787, pp. 149-60 e 166-70; N. Rubinstein, Firenze e il problema della politica imperiale ai tempi di Massimiliano I, «Archivio storico italiano», 1958, 116, pp. 5-35; R. Devonshire Jones, Some observations on the relations between Francesco Vettori and Niccolò Machiavelli during the embassy to Maximilian I, «Italian studies», 1968, 23, pp. 99-113; A. Mauriello, Due modi di guardare l’Alemagna: Machiavelli e Vettori, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ott. 1997, Roma 1998, pp. 523-35; N. Rubinstein, An unknown version of Machiavelli’s Ritratto delle cose della Magna, «Rinascimento», 1998, 38, pp. 227-46; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005, pp. 123-25; G. Inglese, Per Machiavelli, Roma 2006, pp. 24-27; F. Grazzini, Per le strade di Alemagna con e senza Machiavelli, in Id., Tre occasioni machiavelliane, Viterbo 2012, pp. 75-98.