RISPARMIO E INVESTIMENTO.
– Equivalenza in equilibrio. Conseguenze di un disallineamento. Bibliografia
Non si ha vero risparmio senza investimento. Il risparmio senza investimento è illusorio. L’investimento senza risparmio è destinato a fallire. Occorre che procedano di pari passo per assicurare all’economia una crescita equilibrata. «La sola cosa che fa aumentare la ricchezza effettiva del mondo è l’investimento effettivo [...] Quando la gente chiede più risparmi ciò che dovrebbe fare è chiedere più investimenti. Gli uomini diventano ricchi non per i loro risparmi, ma perché hanno più ferrovie, strade e investimenti simili. Non c’è altro modo per diventare ricchi» (J.M. Keynes, Risparmio e investimento, a cura di L. Fantacci, 2010, pp. 55-57).
Equivalenza in equilibrio. – A distanza di quasi un secolo dagli ammonimenti di John Maynard Keynes, la mancanza di chiarezza riguardo ai rapporti fra r. e i. perdura (Cardim de Carvalho 2012). Ancora oggi è radicata l’idea che il risparmio sia di per sé favorevole alla crescita o che sia sufficiente aumentare la quantità di moneta per sostenere gli investimenti: lo testimoniano le politiche di austerità fiscale e di espansione monetaria con cui si cerca, senza successo, di contrastare la crisi. Soprattutto a partire dal 2008, una parte consistente e crescente dei risparmi globali non si trasforma in investimenti effettivi: ne sono sintomi le riserve valutarie dei Paesi in surplus, come Cina e Germania; le riserve eccedentarie delle banche europee che sono cresciute di pari passo con la creazione di nuova moneta da parte della BCE; la liquidità accumulata negli ultimi anni dalle imprese americane. Si tratta di migliaia di miliardi che, accumulati in forma liquida, sono sottratti a ogni impiego produttivo e che alimentano un divario crescente fra risparmio e investimento di cui la teoria economica fatica a dar conto. Lo testimonia, per es., il dibattito in corso fra l’ex segretario al Tesoro americano, Larry Summers, che pone l’enfasi sul difetto cronico di investimenti («secular stagnation») e l’ex governatore della Federal Reserve (v.), Ben Bernanke, che denuncia l’eccesso di risparmio («global savings glut»; cfr. Sandbu 2015).
È opportuno, dunque, provare a chiarire in che cosa si differenziano r. e i., perché è bene che si equivalgano e perché tale equivalenza non può essere data per scontata. Il risparmio corrisponde alla quota di reddito che non è spesa, ma accantonata in vista di un aumento della possibilità di spendere in futuro. L’investimento consiste nella messa in opera di nuovi mezzi di produzione, in vista dell’aumento della capacità di produrre in futuro. Attraverso il risparmio e l’investimento la vita economica si dispiega nel tempo e prepara il domani.
Risparmiare e investire sono attività fondamentali per un sistema economico quale il capitalismo, che si vuole orientato alla crescita continua. Il connubio fra r. e i. ne costituisce la forza propulsiva. Tale connubio sembra riconciliare principi morali e interessi economici: quanto più gli individui esercitano la virtù privata della previdenza, tanto più la collettività ne trae i benefici pubblici del progresso e della prosperità. Sull’assunto della necessaria equivalenza fra r. e i. si è costruito negli ultimi tre secoli il supporto ideologico e dottrinale a favore del capitalismo.
Per un verso, tale equivalenza non è altro che un’identità contabile: la parte di reddito che non è spesa per consumi correnti è, per definizione, risparmiata; la parte di produzione che non è acquistata dai consumatori è trattenuta dai produttori e quindi costituisce investimento. Poiché, nella contabilità nazionale, il reddito equivale al valore della produzione, il risparmio risulta identicamente uguale all’investimento. Tuttavia, quest’ultimo, nella sua definizione statistica, include anche le scorte involontarie di beni invenduti e, perciò, non corrisponde necessariamente a una decisione degli imprenditori di incrementare la produzione futura, ma può riflettere, al contrario, la loro difficoltà a vendere la produzione corrente.
Ciononostante, l’equivalenza fra r. e i. ha costituito a lungo un assunto indiscusso della teoria economica. Tale equivalenza è un corollario della cosiddetta legge degli sbocchi, enunciata da Jean-Baptiste Say all’inizio dell’Ottocento. Secondo la legge di Say, l’offerta crea la propria domanda, poiché tutta la produzione genera reddito e tutto il reddito, prima o poi, è speso e si traduce in consumo. In tale prospettiva, r. e i. aggregati non sono altro che una dilazione temporanea rispettivamente del consumo e della produzione di beni di consumo, e dunque non pregiudicano l’equilibrio di lungo periodo fra domanda e offerta, ma gli consentono semmai di raggiungere livelli sempre crescenti.
L’idea che il sistema economico sia regolato da un meccanismo di equilibrio automatico si scontrò, nel 1929, con l’insorgere della prima crisi generale di sovrapproduzione, ossia della situazione in cui l’offerta aggregata risulta sistematicamente superiore alla domanda aggregata. Confutando la legge di Say e la sua ricezione acritica da parte degli economisti classici, Keynes identificò le cause della crisi in un cronico squilibrio fra r. e i.: «se il totale dei nostri investimenti è inferiore all’ammontare dei nostri risparmi correnti, allora – a mio parere – è assolutamente certo che dovranno conseguirne perdite per le imprese e disoccupazione» (Risparmio e investimento, a cura di L. Fantacci, 2010, p. 8).
Conseguenze di un disallineamento. – Com’è possibile che il risparmio risulti sistematicamente superiore all’investimento? E perché mai un eccesso di risparmio dovrebbe produrre non crescita, bensì crisi e disoccupazione? In effetti, r. e i. non sono necessariamente equivalenti, poiché risultano da scelte distinte, che rispondono a motivazioni differenti.
Decidere di risparmiare oggi non significa decidere di consumare domani. Propriamente, il risparmio indica la rinuncia a consumare una parte del reddito corrente indipendentemente dall’uso che ne intenda fare il risparmiatore. Di per sé, dunque, il risparmio da parte di un soggetto non comporta né che quello stesso soggetto acquisti beni di investimento con la parte di reddito che non spende in beni di consumo, né che qualche altro soggetto sia incentivato a investire nell’aspettativa di un incremento dei consumi futuri. Pertanto, il risparmio può risultare superiore all’investimento. La differenza è resa possibile, e plasticamente visibile, dal tesoreggiamento, ossia dalla facoltà di accumulare denaro senza spenderlo né prestarlo (v. moneta).
Ben lungi dal contribuire alla crescita del sistema economico, il risparmio in assenza di investimento è causa di depressione. Infatti, per il sistema delle imprese, minori consumi, se non compensati da maggiori acquisti di beni di investimento, si traducono in minori ricavi, e potenzialmente in perdite. Ciò comporta, a sua volta, una compressione dei salari e degli altri costi da parte delle imprese, nel tentativo di contenere le perdite, e quindi un’ulteriore riduzione della domanda. È il cosiddetto paradosso del risparmio: quanto più si risparmia, tanto più si aggrava la depressione. Il circolo vizioso continua finché il divario fra r. e i. non sia colmato da una riduzione del primo o da un incremento del secondo.
Viceversa, si può dare anche investimento senza risparmio. Investire è l’attività propria dell’imprenditore, inteso letteralmente come chi dà inizio a qualcosa di nuovo combinando in modo inedito i fattori della produzione. L’investimento è la scelta economica più importante, che infonde dinamismo al sistema produttivo.
In quanto avvio di una nuova attività, l’investimento dipende in maniera vitale da un’anticipazione. L’imprenditore sostiene i costi prima di realizzare i ricavi e, perciò, nel frattempo, deve potersi avvalere di una qualche forma di finanziamento. Dunque, dal punto di vista del singolo, l’investimento presuppone il risparmio, proprio o altrui. Tuttavia, dal punto di vista aggregato, avviene il contrario: l’investimento produce il risparmio. Per investire, infatti, non servono soldi, ma cose (e conoscenze, idee e forza d’animo per realizzarle). Per procurarsi le cose non occorre moneta: basta avere credito. Il credito, a sua volta, è fornito dalle banche non soltanto attraverso il trasferimento di denaro preventivamente depositato da altri, ma anche, anzi soprattutto, attraverso la creazione di nuova moneta bancaria mediante il meccanismo del moltiplicatore monetario. Dal punto di vista del sistema economico nel suo complesso, dunque, loans make deposits: sono i prestiti a creare la nuova moneta che, messa in circolazione dalle imprese, si tradurrà in redditi e, in ultima istanza, in depositi (Bank of England 2014). Proprio in virtù della loro capacità di rendere possibili gli investimenti attraverso la creazione di nuova moneta, Joseph Alois Schumpeter definì le banche gli «efori del capitalismo».
In quanto atto creativo, l’investimento non può essere ridotto a un calcolo di costi e benefici e non può essere descritto nei termini di un semplice scambio – se non di uno scambio del certo per l’incerto. L’incertezza riguardo all’esito è una caratteristica intrinseca dell’investimento e del finanziamento che lo rende possibile (v. credito). Tuttavia, per preservare l’equilibrio del sistema economico, e in particolare l’equivalenza tendenziale fra r. e i., occorre che il credito erogato alle imprese sia commisurato alla loro ragionevole capacità di ripagarlo. Se tale limite non è rispettato, e l’anticipazione è concessa senza riguardo alle concrete prospettive di redditività delle imprese, si crea una ‘bolla creditizia’ in cui gli investimenti risultano sistematicamente superiori al risparmio. Anche in questo caso si genera un circolo, solo apparentemente virtuoso, che è destinato a interrompersi in maniera improvvisa e violenta quando l’insostenibilità dei debiti diventa manifesta. Così è avvenuto negli Stati Uniti, quando nel 2007-08 è scoppiata la bolla dei mutui subprime, cioè dei prestiti che grazie alla cartolarizzazione erano stati concessi a soggetti incapaci di restituirli. Così pure è accaduto in Europa dove, a partire dal 2010, sono emerse le difficoltà dei Paesi periferici ai quali, nel decennio precedente, grazie all’integrazione monetaria e finanziaria europea, erano stati accordati prestiti eccessivi.
Dunque, l’equivalenza fra r. e i. non può essere affatto data per scontata. La sua realizzazione dipende dall’intermediazione della finanza, cui è affidato il compito di raccogliere il denaro risparmiato e di metterlo a disposizione dei progetti di investimento più promettenti. Tuttavia, l’attuale configurazione della moneta e del credito, benché fondata sull’assunto dell’equivalenza fra r. e i., è tale da mettere quest’ultima continuamente a repentaglio. La moneta, in quanto riserva di valore, può essere indefinitamente tesoreggiata senza essere né spesa né prestata. D’altro canto, data la loro capacità di creare liquidità, le banche e le borse finanziano gli investimenti attraverso debiti il cui pagamento può essere indefinitamente procrastinato (v. finanza).
Pertanto, oscillando fra la possibilità che la moneta non venga mai spesa e che i debiti non siano mai pagati, il sistema finanziario diventa fonte sia di una crescita potenzialmente illimitata, sia di uno squilibrio altrettanto strutturale, il quale si manifesta in una cronica alternanza di espansione e crisi, di euforia e depressione.
Vivendo negli anni fra le due guerre, funestati da violente fluttuazioni dell’economia, Keynes dedicò tutte le sue energie a identificarne le cause più profonde e a escogitare possibili soluzioni. La sua diagnosi resta attuale: oggi, come allora, facciamo i conti con un cronico eccesso dell’offerta sulla domanda e dei risparmi sugli investimenti. Ma, dopo che per oltre mezzo secolo si è cercato di colmare il divario con la spesa pubblica, attendono ancora di essere adeguatamente riconosciuti e implementati i rimedi più radicali propugnati da Keynes: non politiche espansive, bensì riforme istituzionali, con l’obiettivo di togliere alla moneta la funzione di riserva di valore e di legare il finanziamento dell’impresa alle prospettive di rendimento reali dell’investimento sottostante.
Bibliografia: J.G. Lambsdorff, Savings and investments. An old debate in times of trouble, «Journal of post Keynesian economics», 2011, 33, 4, pp. 645-66; Macroeconomic policy after the conservative era. Studies in investment, saving and finance, ed. G.A. Epstein, H.M. Gintis, Cambridge 2011; F.J. Cardim de Carvalho, Aggregate savings, finance and investment, «Europeanjournal of economics and economic policies: intervention», 2012,9, 2, pp. 197-214; C. Sardoni, Say’s law, in Elgar companion to post Keynesian economics, ed. J.E. King, Cheltenham 2012; Bank of England, Money creation in the modern economy, «Quarterly bulletin», 2014, Q1, pp. 14-27; M. Sandbu, The great and the good on secular stagnation, «Financial times», 8 aprile 2015.