rischio
Teorie del rischio e dell’incertezza
Il concetto di rischio sta alla base della teoria economica e della pratica finanziaria ed è strettamente collegato, anche se talvolta contrapposto, a quello di incertezza. Questa è concordemente intesa come una situazione in cui non si è in grado di descrivere con sicurezza ciò che accadrà in futuro, o (per mancanza di informazioni) ciò che è accaduto in passato.
La relazione fra incertezza e rischio è stata ed è ancora oggetto di aspro dibattito. Secondo una visione prevalente, il rischio nasce quando da situazioni incerte derivano conseguenze negative in termini monetari o, più in generale, di utilità. Va sottolineato che questa non è una caratteristica oggettiva di un particolare stato di incertezza, ma può dipendere dal tipo di problema decisionale, connesso alla specifica situazione, che ci si trova ad affrontare. Per es., il gestore di un chiosco balneare si trova in una condizione di incertezza sul numero e i gusti dei clienti che il giorno di ferragosto frequenteranno il suo locale. A prima vista sembra che il rischio sia oggettivamente legato a un afflusso scarso al di sotto di una certa soglia; ma se il problema decisionale è quello della scelta, non modificabile, sul numero di tartine (o altro cibo deperibile) da predisporre per il consumo della clientela, il rischio può anche essere associato al mancato guadagno derivante da un afflusso in eccesso rispetto alle previsioni (e dal conseguente eccesso di domanda di tartine). In questa impostazione il concetto di rischio e la sua misurazione debbono essere necessariamente inquadrati in uno specifico problema decisionale con una triplice connotazione soggettiva. La prima riguarda la descrizione dell’incertezza specifica al problema, che dipende dallo stato di informazione del decisore. La seconda concerne la traduzione dell’incertezza in una misura analitica, tramite una funzione di perdita (loss function) che associ un risultato monetario a ogni coppia di scelte del decisore e della natura. La terza è una sintesi delle conseguenze di ogni decisione, in cui sarà determinante l’atteggiamento psicologico del decisore, per es. applicando la teoria dell’utilità attesa o la prospect theory (➔). Molto diverso, invece, è l’approccio che considera incertezza e rischio come due concetti nettamente contrapposti. Capostipite di questa impostazione fu F. Knight. Egli definì il rischio come associato a una situazione di incertezza oggettivamente probabilizzabile; ogni situazione non suscettibile di attribuzione oggettiva di probabilità sarebbe al contrario incertezza in senso proprio. Nella sua opinione, le situazioni di rischio possono essere affrontate con gli strumenti propri delle tecniche assicurative, ricorrendo in particolare all’applicazione della legge dei grandi numeri che consentirebbe la traslazione del rischio all’assicuratore mediante pagamento di un prezzo (premio dell’assicurazione). Questa traslazione non può avvenire nelle condizioni di incertezza, tipica delle attività economiche, ove al contrario è l’abilità dell’imprenditore l’unica risorsa in grado di fronteggiare il rischio d’impresa. Consegue da questa impostazione che il profitto è la ricompensa per la capacità dell’imprenditore di gestire il (non assicurabile) rischio d’impresa, dove il capitale di rischio è appunto la parte delle risorse investite da un’impresa soggetta al rischio e il profitto è la parte del risultato dell’attività d’impresa che residua dopo aver compensato tutti gli altri fattori produttivi, incluso il capitale di terzi. Anche quest’ultimo è soggetto al rischio di fallimento dell’impresa quando questa non è in grado di onorare, in tutto o in parte, i propri debiti. Peraltro, il rischio di fallimento è assicurabile, sia esplicitamente tramite i Credit Default Swap (➔ CDS), sia implicitamente, ovvero ricevendo un tasso di interesse superiore a quello vigente per prestiti privi di rischio, e dunque accettando, con l’assunzione di posizioni lunghe su strumenti di debito di un’impresa soggetta a rischio di fallimento, di agire da assicuratori.
Una visione alternativa delle motivazioni che collegano rischio d’impresa e profitto è stata proposta dalla teoria del Capital Asset Pricing Model (➔ CAPM), elaborata da W. Sharpe. Rispetto alla visione di Knight, essa prende in considerazione la possibilità per un investitore di attenuare il rischio legato all’investimento azionario mediante una diversificazione efficiente del proprio portafoglio; tale strategia può solo ridurlo, non eliminarlo; la componente non eliminabile è detta rischio sistematico, quella eliminabile mediante diversificazione rischio specifico o non sistematico. Il rischio sistematico di un titolo è riassunto dal suo coefficiente beta. Esso è il rapporto tra la covarianza fra rendimento del titolo e quello del (a numeratore) e la varianza del rendimento di mercato (a denominatore), e (essendo anche il coefficiente angolare della retta di regressione del rendimento del titolo sul rendimento del mercato) misura la sensibilità (attesa) del rendimento del titolo a variazioni di quello del mercato. Questa è appunto la componente ineludibile del rischio del titolo, mentre è eliminabile la parte derivante da scostamenti del rendimento effettivo da quello previsto sulla retta di regressione. La teoria CAPM spiega come viene rimunerato il rischio sistematico: l’eccesso di rendimento, cioè la differenza fra il tasso di rendimento atteso di un titolo azionario (rappresentativo di un’impresa) e quello privo di rischio, è il prodotto del coefficiente beta del titolo per l’eccesso di rendimento del portafoglio di mercato. Si ha quindi una scomposizione del rendimento atteso del capitale di rischio in una parte (detta prezzo del tempo) che riproduce il puro rendimento di titoli non rischiosi e in un’altra (detta prezzo del rischio) che remunera la componente sistematica del rischio del titolo. Il prezzo del rischio è, a sua volta, il prodotto del prezzo unitario del rischio per la parte sistematica presente in un titolo. Sovente si normalizza quest’ultima ponendola pari alla covarianza fra il rendimento del titolo e quello del mercato. Il prezzo unitario del rischio è allora dato dal rapporto fra eccesso di rendimento e varianza del portafoglio di mercato. Il suo valore di equilibrio sintetizza l’avversione al rischio d’impresa espresso dal mercato ed è positivo se il mercato, come normalmente accade, è avverso al rischio, ossia esige, per accettare posizioni rischiose, un compenso superiore a quello richiesto per un investimento privo di rischio.