Ripensando la Storia d’Italia
Le ragioni che, oggi, in una situazione difficile dell’Italia, dell’Europa e di tante altre parti del mondo, inducono a riprendere in considerazione la storia che, fra il 1927 e il 1928, Croce scrisse dell’Italia negli anni compresi fra il 1871 e il 1915 sono le stesse che hanno persuaso lo scrivente a rileggere, dopo ventisei anni, le pagine da lui dedicate a questo libro che, nel 1978, compiva cinquant’anni. A rileggerle per cercar di capire, non solo fino a che punto le condividesse ancora, ma anche se la riflessione che si torni a eseguire sull’interpretazione che Croce allora dette di quel quarantennio di storia italiana consenta di vedere cose prima non viste sia nel libro, sia nelle cose stesse. La Storia d’Italia sta per toccare il novantesimo anno di età. Non essendo un libro giovane, potrebbe ben essergli accaduto di mostrare più dei suoi non pochi anni, se si considera quel che, dal giorno della sua pubblicazione, è accaduto in Europa e nel mondo e, naturalmente, anche in Italia. Da anni non essendo più un soggetto attivo nella politica internazionale, quest’ultima è stata, ed è, necessariamente estranea alle decisioni che orientano la storia del mondo, e alle grandi responsabilità che ne conseguono. Per molte e complesse ragioni, che in parte sono intrinseche al modo in cui la sua storia si è svolta nel suo lungo tempo, in parte sono state determinate dalla sua attuale posizione nel ‘sistema del mondo’, è un fatto che, dal tempo della definitiva caduta del fascismo e dell’assunzione del suo nuovo assetto istituzionale, la sua vicenda ha conosciuto fasi diverse che, essendo per qualche anno sembrate di progresso economico e di forte vitalità, hanno poi rivelato, e rivelano oggi, l’estrema fragilità delle speranze che alcuni allora nutrirono circa i suoi ulteriori possibili progressi.
Di tutto questo, certo sarebbe assurdo se si pretendesse che nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 fossero state indicate le premesse, o fosse contenuta la previsione. Nella storiografia Croce vedeva la filosofia, ossia il pensato racconto dei fatti, non la profezia. Non per caso, il libro si fermava sulla soglia del 1915, che era altresì, per l’Italia, l’orlo di un possibile baratro, del quale, in quanto storico, Croce non si sentiva autorizzato a sondare la profondità. È vero che, quando lo scrisse, il fascismo aveva, da un paio d’anni, preso il potere assoluto, e che più che giustificata, in uno scrittore liberale, era la preoccupazione del futuro; che restava tuttavia un futuro e di storia non poteva essere oggetto. Si aggiunga che le nere nuvole che si vedevano all’orizzonte, e non poco turbavano i sonni di chi volgeva lo sguardo alla Repubblica di Weimar e alla Repubblica, come allora la si denominava, dei Soviet, non bastavano a infrangere, se non l’ottimismo di chi a ogni costo avesse voluto coltivarne la pianta, la fiducia nella forza intrinseca alla libertà e alla sua idea. Non che questo sentimento, e la connessa fiducia, fossero, in Europa, condivisi da tutti: basti ricordare che il dopoguerra fu anche il tempo in cui con più forza si era fatto sentire il messaggio pessimistico che proveniva da Der Untergang des Abendlandes di Oswald Spengler, e quello altresì in cui, a tacer d’altro, in Italia, nel giro di due anni (1921-1923) Francesco Saverio Nitti aveva pubblicato la trilogia costituita da La decadenza dell’Europa, L’Europa senza pace, La tragedia dell’Europa.
Per temperamento e abito filosofico, Croce non apprezzava i profeti e i vari cavalieri dell’Apocalisse. Riteneva che si dovessero interrogare non i tempi, ma la propria coscienza e, a seconda che quella dettava, prendere il proprio posto e mantenerlo. Accusato tante volte di aver dipinto con il tenue pastello di un diffuso ottimismo il quadro di quegli anni iniziali della vita unitaria, il libro di Croce non nasceva affatto da un sentimento di quella qualità. E come avrebbe potuto? Se si vietava di guardare la storia con gli occhi di un profeta apocalittico, era troppo intelligente per non vedere che, se la libertà non avesse ritrovate le sue forze, il futuro non sarebbe stato diverso dal presente, o lo sarebbe stato solo a causa della sua accentuata negatività. Convinto che la guerra che aveva avuto il suo inizio nel 1914 sarebbe forse stata fatale per la vita delle nazioni di più antica storia e più che mai, se vi si fosse fatta coinvolgere, per quella dell’Italia che solo da pochi decenni era uno Stato unito e nel suo seno aveva gravi problemi da risolvere, Croce aveva vissuto i mesi della neutralità e poi gli anni di guerra in un crescendo di varie angosce che niente era sul serio riuscito a rasserenare: nemmeno la vittoria che alla fine aveva arriso alle potenze dell’Intesa. Nei Taccuini di lavoro sotto la data del 3 novembre 1918 aveva scritto che i pensieri funesti, che avevano turbato i giorni di Caporetto, non solo non erano stati sul serio sconfitti, ma avevano dalla loro parte ragioni che ne facevano qualcosa di meglio di un semplice stato d’animo. Due giorni dopo aver annotato nei Taccuini le parole che si sono ricordate, Croce le argomentava in un articolo che ora può leggersi nelle Pagine sulla guerra:
La mente riconosce la grandezza dell’opera compiuta, il cuore l’approva, l’animo è soddisfatto; ma la gioia non prorompe con forza e agilità che sia pari al selvaggio uragano, che allora ci sconvolse il petto (L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, 1950, p. 288).
Si chiedeva se si dovesse perciò dar ragione ai filosofi pessimisti, convinti che «la gioia sia meno intensa del dolore»; e rispondeva di no, che con quel loro pensiero non si doveva consentire, perché non si trattava, in astratto, di gioia e di dolore, ma, se mai, della «pensosa sollecitudine per le nuove difficoltà, pei nuovi problemi che dalla nuova situazione germinano». Per il sentimento irresponsabile della gioia non poteva esserci posto nel petto di chi avvertisse la gravità del tempo che, pur uscita vittoriosa dalla guerra, l’Italia aveva davanti a sé. Si chiedeva:
far festa perché? La nostra Italia esce da questa guerra come da una grave e mortale malattia, con piaghe aperte, con debolezze pericolose nella sua carne, che solo lo spirito pronto, l’animo cresciuto, la mente ampliata rendono possibile sostenere e volgere, mercé duro lavoro, a incentivi di grandezza (p. 289).
Nata da e fra questi pensieri, la Storia d’Italia non poteva nel fondo essere un libro ottimistico, anche se il suo autore aveva chiuso le porte a un sentimento di opposto segno. La constatazione dolorosa della grave sconfitta che il partito delle libere istituzioni aveva subito per mano del fascismo non agiva in senso retroattivo sul recente passato della nazione che si era infine riconosciuta in uno Stato unitario. Non lasciava intendere, e anzi escludeva con forza, che quello fosse il suo esito necessario. Palesemente, il libro era animato dalla volontà di reagire alle accuse che, per giustificare sé stesso e le sue violenze, il fascismo rivolgeva alla storia dell’Italia unita. Ma nasceva tuttavia da un’esperienza tragica, e, accanto alla nota della positività, non poteva non rivelare in sé il segno di questa nascita dolorosa. Poteva e doveva essere la testimonianza, che si voleva razionale e non emotiva, della tenacia e anche della forza che, conseguita l’unità politica, l’Italia aveva trovata in sé per andare avanti sulla strada di un lento progresso. Ma il libro si arrestava al 1915, proprio come era accaduto al Contributo alla critica di me stesso che, scritto in quell’anno, Croce non aveva dato alle stampe se non nel 1918, a guerra finita, quasi che avesse voluto esser certo che il filo della storia italiana si sarebbe svolto oltre quel limite temporale, e non tutto si sarebbe bruciato nella grande fournaise. Dentro la quale, come ho detto, non aveva voluto guardare, la prima volta perché il suo fuoco bruciava ancora, la seconda perché spento del tutto esso non era. Nei confronti del fascismo e di quel che recava con sé, Croce sentiva che il dovere era di combatterlo cercando di capirne la natura, ma senza perciò provare a scriverne la storia. Lo disse con la massima nettezza in una conversazione tenuta fra il 1949 e il 1950, agli allievi dell’Istituto italiano per gli studi storici, da lui fondato nel 1947, a Napoli, avvertendoli che, se non aveva scritto la storia del fascismo, era perché il compito che allora sentiva come il suo era, non di studiarlo, ma di «aborrirlo», «con quel tanto di intelletto e di animo» che possedeva, e di indebolirlo «con la speranza che si dissolvesse prima che gli riuscisse di trascinare l’Italia nell’abisso» (L’obiezione contro le “storie dei propri tempi”, in Storiografia e idealità morale, 1950, p. 114). A questo punto, per altro, altre considerazioni si impongono.
Quando trent’anni fa, scrissi intorno alla Storia d’Italia, citai e misi in rilievo un passo che si trova nel Contributo alla critica di me stesso, nel quale Croce aveva confidato al suo lettore che, la sua riflessione filosofica volgendo ora essenzialmente nella direzione degli studi storici, egli aveva «in mente un disegno sullo svolgimento del secolo decimonono in quanto vive nelle condizioni presenti della nostra società, una storia che desse quasi mano alla praxis» (Contributo alla critica di me stesso, 1926, p. 75). Lo citai e ne trassi la conseguenza che c’era stato un momento nel quale Croce aveva pensato di scrivere unitariamente intorno alla civiltà europea del secolo decimonono fondendo, dunque, in un’unica storia quel che era accaduto nelle nazioni più importanti del continente e nella penisola italiana: un’unica Storia che essendosi a un certo punto determinata e specificata la necessità di anticipare quella relativa all’Italia, si era divisa in due storie, tanto che a quella italiana, scritta nel 1927 e pubblicata nel 1928, era seguita l’altra, dedicata, nel 1932, all’Europa.
L’osservazione che traevo da quel passo del Contributo che, senza dubbio, e comunque lo si voglia interpretare, colpisce, non fu accettata da tutti. Nella Nota del curatore che chiude la sua edizione della Storia d’Italia (1991, p. 450), Giuseppe Galasso escluse che Croce avesse mai pensato a una storia unitaria di quel tipo, ossia, in pratica, a una storia d’Italia inclusa come capitolo, o parte, in una storia d’Europa. Al contrario, nella Nota al testo della Storia d’Italia da lui curata per l’edizione nazionale (2004, pp. 238-39), Giuseppe Talamo sembrò accoglierla o, quanto meno, considerarla degna di attenzione. E, almeno in parte, non a torto perché, come si deduce dai Taccuini, alla data del 31 dicembre 1915 (dell’anno dunque in cui fu composto il Contributo), in un passo che nel 1978 non conoscevo, Croce aveva scritto che l’anno 1916 sarebbe stato «consacrato quasi tutto a letture svariate di preparazione ad alcuni studi che» intendeva «compiere sul secolo XIX» (1° vol., 1987, p. 478).
Che queste linee alludessero al «disegno sullo svolgimento del secolo decimonono» di cui si faceva cenno nel Contributo, può considerarsi, se non sicuro, più che probabile. Se non sono tali da poterne ricavare con certezza la conclusione che ne traevo nel 1978, confermano tuttavia che Croce intendeva scrivere un libro sul secolo decimonono, e che alla realizzazione di quel proposito avrebbe dedicato il 1916. D’altra parte, con l’eccezione di un appunto del 22 luglio, in cui diceva di aver scritto «altre postille (sulla storia d’Italia)», le annotazioni del 1916 contenevano bensì continui riferimenti a «letture storiche», ma non alludevano in senso specifico a una storia europea del secolo decimono nella quale quella dell’Italia fosse inclusa. Poiché, tuttavia, l’intenzione di scriverlo, quel libro, né sarebbe stata registrata nel Contributo se il relativo proposito non avesse avuto nella sua mente un grado sufficientemente elevato di concretezza, né lo sarebbe stata nel diario, sarebbe assurdo se, del libro poi non realizzato, si rinunciasse a cercare la traccia nei Taccuini di quegli anni. E se si cerca, qualcosa si trova. Si trova, per es., che, al secolo decimonono, Croce si era dedicato assiduamente, a partire dal 1917, scrivendo sui poeti e i letterati francesi, tedeschi e italiani saggi che, nel 1923, entrarono nel libro che intitolò Poesia e non poesia, e che come sottotitolo reca Note sulla letteratura europea del secolo decimonono. L’indicazione geografica avrebbe potuto anche esser considerata superflua, in quella sede, una volta che si fosse notato che, non essendo specificamente né italiana, né francese, né tedesca, la sua materia non poteva esser altro che comprensiva di tutte, e cioè europea. Ma potrebbe invece essere l’indizio che Croce aveva sul serio pensato a un libro che in modo esplicito riguardasse l’Europa, e una parte del quale era appunto costituita da quelle Note che avrebbero dovuto essere il punto in cui, almeno per allora, il tutto si era invece risolto contraendovisi. Vero è che a smentire, almeno parzialmente, questa ipotesi sta il fatto che, come si apprende dai Taccuini sotto la data del 2 agosto 1917, a quei saggi egli intendeva dare il titolo Storia della poesia nel secolo decimonono, un titolo che poi non fu confermato, essendo prevalso l’altro, assai più conforme al suo pensiero, di Poesia e non poesia. Ma, a confermarla, potrebbe invece valere la considerazione che in quel titolo, che non ha riscontri in altre sue opere, sopravvivesse l’altro che, con più ragione che a un libro concernente la poesia, sarebbe stato assegnato a uno che unitariamente avesse trattato dello spirito europeo nel secolo decimonono.
Fare congetture sui titoli dei libri, su quelli che furono proposti e poi abbandonati a favore di altri che, alla fine, prevalsero, può essere, non a torto, considerata impresa vana. È tuttavia un fatto, e non un’ipotesi, che, quando il 31 dicembre del precedente anno, aveva previsto letture e indagini da «compiere» sul secolo decimonono, l’argomento, come si deduce anche dal passo del Contributo, non era limitabile alla sola poesia. Il che rende legittima la supposizione che, in quel termine storia, fossero comprese più cose di quelle che la schietta analisi del fatto poetico avrebbe, secondo i canoni della sua estetica, comportato; e tanto più, direi, in quanto, come si conviene a un’opera sulla storia, e non si conviene invece a una concernente la poesia di un secolo, lì si parlava di una «storia che desse quasi mano alla praxis», di una storia, dunque, che poteva contenere in sé un capitolo, o una parte, dedicata alla poesia europea del secolo decimonono, e nella quale fossero entrati i relativi saggi, magari rifusi in una trattazione che, abbreviandoli, ne avesse dato una sorta di sintesi, ma che, per la ragione addotta, non poteva risolvervisi.
Insomma, il programma in parte era fallito, il che importava che in parte si era realizzato; e quel che ne rimaneva induce a pensare che Croce avesse avuto per qualche tempo in mente un libro simile, per struttura e articolazione, a quello che poi mise insieme nel 1915 e pubblicò nel 1929, sull’Età barocca, nel quale il sottotitolo reca Poesia, pensiero, letteratura e vita morale, e gli autori che vi sono compresi sono oggetto, non di speciali monografie, ma di rapide caratterizzazioni. Se per altro lo aveva in mente, perché non lo scrisse? Forse perché la materia che avrebbe dovuto esservi inclusa e trattata era tale da scoraggiare anche uno scrittore del suo talento? Forse perché l’Europa del secolo decimonono non era l’Italia quale si presentava fra Cinque e Seicento, e poneva problemi di più urgente e immediata attualità? Malgrado la cura con la quale, nei Taccuini di lavoro, registrava gli eventi letterari della sua giornata, per questo verso Croce mandò delusa una curiosità che appartiene all’ambito non soltanto degli aneddoti e dei titoli, ma di qualcosa di ben altrimenti sostanziale. Perché questo avvenisse, e il proposito si fosse via via modificato tanto che, invece che una storia, che non avrebbe potuto essere se non europea, del secolo decimonono, il libro si era ristretto a essere una raccolta di saggi su poeti (europei) di quel secolo, è difficile dire. Ma qui sta la questione, anche se, data la domanda, la risposta non possa essere se non congetturale. Se tuttavia, recando in campo cose che congetturali non sono, si provasse a riformularla, al cuore, o a uno dei cuori, della questione forse potrebbe giungersi se si riuscisse a specificarla nei due aspetti che vi si intrecciano e che, essendo diversi, sono tuttavia convergenti. Se ne parlerà qui di seguito. Ma perché fin da ora il lettore sappia a che cosa ci si riferisca, converrà avvertirlo che il primo riguarda l’inizio scelto da Croce per la sua Storia, e cioè il 1871 invece del 1860, il secondo riguarda, non tanto, in senso specifico, la questione dell’unificazione germanica e dell’idea che l’aveva guidata, quanto piuttosto le idealità che, in contrasto con quelle affermate nella grande stagione dell’idealismo classico tedesco e della cultura che l’aveva accompagnato, prevalsero nell’Europa di dopo il 1870. Il primo ha a che fare con il carattere che Croce impresse al suo libro. Il secondo con la difficoltà che egli incontrò nel pensare un libro unitario sul secolo decimonono, e, alla fine, lo dissuase dallo scriverlo come, appunto, un libro unitario.
Quando Croce, leggendo e riflettendo, si accinse, secondo il suo costume, a delineare un primo schema del libro che aveva in animo di scrivere sulla storia dell’Italia unita, il dubbio se convenisse iniziarla a partire dal 1860, o, invece, più drasticamente, dal 1871 dovette stargli per qualche tempo in testa. Alla data del 21 gennaio 1927, i Taccuini registrano la ripresa di letture e meditazioni «pei saggi sulla storia italiana dal 1861 al 1915» (3° vol., 1987, p. 4). La data di partenza, che certo non sarà stata messa lì a caso, dovette costituire, per Croce, un problema che non si esauriva nel suo estrinseco rilievo cronologico. Se, già dopo pochi giorni, la data dell’inizio era fissata al 1871, questa iniziale incertezza non deve esser considerata sotto il profilo della semplice convenienza pratica e didascalica. Includere o no, nello schema, quel primo decennio della storia unitaria implicava una scelta e un giudizio che si sarebbero fatti sentire entrambi nel corso della narrazione. Come, infatti, era impossibile che delle conseguenze non solo cronologiche che il diverso inizio implicava Croce non fosse consapevole, altrettanto, direi, dovrebbe esserlo il suo interprete. La scelta del 1860 invece che del 1871, o, viceversa, di questo in luogo di quello, importava come conseguenza che alla storia che egli aveva in animo di narrare si fosse dato un inizio più o meno drammatico, dal quale sarebbe dipesa l’intera intonazione del discorso.
Si arriva a capirlo se l’attenzione che merita sia concessa a uno scritto del 1916, che, in poche pagine, svolge considerazioni delle quali non si esagera se le si definisce fondamentali per intendere la genesi della Storia d’Italia. In questo scritto, che intitolò Epopea e storia e può ora leggersi nelle Pagine sulla guerra, nell’unità che si poteva riconoscervi, la storia italiana era, secondo Croce, «non antica e secolare, ma recente, non strepitosa ma modesta, non radiosa ma stentata» (L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, cit., p. 135). Era recente, e non antica e secolare, perché da essa chi avesse voluto intenderla sul serio e senza far ricorso alla retorica della sua, per usare l’espressione di Giambattista Vico, «sterminata antichità», proprio questa avrebbe dovuto mettere in questione, tagliandovi via, non solo la storia antica dei Romani, ma anche quella dei Comuni, anche quella del Rinascimento. Che erano state storie illustri e degne di ogni rispetto, salvo che a separarle da quella che ora gli italiani vivevano, e cercavano di far progredire, erano stati i tempi bui della loro decadenza, nel corso dei quali l’Italia era precipitata come in un baratro, da cui stentatamente aveva cominciato a uscire con le riforme del secolo decimottavo, con gli effetti che anche in essa si ebbero della Rivoluzione francese e con il Risorgimento. «Storia, dunque, di un secolo e mezzo, a farla lunga: storia recente» (p. 136). Ma se, a giudizio di Croce, quella italiana non poteva vantare un’antichità che sul serio le appartenesse, oltre che recente, era anche da definire «modesta». I suoi sforzi, nel secolo e mezzo che era trascorso dal suo vero inizio, erano stati diretti a rimettersi alla pari con quel che le più progredite nazioni d’Europa avevano, nel frattempo, realizzato; tanto che, se si fosse chiesto quale parte l’Italia avesse avuta nella formazione del nuovo spirito europeo, si sarebbe dovuto rispondere che la sua parte in essa poteva esser riconosciuta solo nello sforzo che aveva compiuto per averne una, ossia per essere accolta in un quadro che era stato dipinto da altri. Storia, dunque, oltre che recente, «modesta». E storia, infine, «stentata», e questo era forse il punto, meno paradossale, ma più critico della breve diagnosi crociana,
perché essa non prorompe dalla maturità delle forze di un popolo, ma è come un processo di guarigione nel quale le forze stesse si ricostituiscono lentamente, tra ricadute e debolezze e tracce molteplici dei mali passati, e altresì di nuovi, dovuti allo sforzo stesso del provare le proprie forze (pp. 137-38).
Non sono, quelle che si sono lette, considerazioni alle quali, a causa del loro carattere quasi estemporaneo, non si debba concedere importanza. Ne hanno, infatti, una assai grande se si considera, non solo e non tanto l’avvio che vi incontrò la sua successiva tesi relativa all’unità della storia d’Italia, ma, in relazione al terzo dei caratteri attribuiti a tale storia, il contrasto in cui questo, che era fatto consistere nella «stentatezza» ravvisabile nel procedere del giovane Stato unitario, si poneva, a guardar bene, con il primo, ossia con quello della sua antichità. Che, nel rivolgere le sue critiche a questa idea, che già nel 18° sec. aveva indotto qualcuno a polemizzare contro la «boria romana», Croce si muovesse proprio in questa direzione e intendesse far cadere in terra le foglie morte di glorie presunte, è ovvio, e non occorre ribadirlo. Ma se il cammino del giovane Stato unitario era stato così lento da meritare di essere giudicato «stentato», se il giovane organismo recava in sé il segno di malattie che gli stavano dentro e ne minavano lo slancio al punto che anche quel che si era ottenuto lo era stato, non per l’impeto di una forza creatrice di storia, ma «girando ostacoli o profittando delle vie che […] si aprivano innanzi» (p. 139), sembra difficile non ammettere che in questo punto fosse proprio l’antichità della storia italiana a far valere i suoi diritti con il peso che faceva gravare sulle iniziative e con il suggerimento che forniva dell’astuzia in luogo della generosità, dello spirito di compromesso in luogo del coraggio e della forza. Persino nella preferenza che gli italiani mostravano per la letteratura Croce vedeva il segno della loro debole disposizione alla vita civile e politica. Mentre, perciò, sembrava che, per un verso, egli riprendesse il discorso relativo al carattere dell’uomo italiano e, sia pure di lontano, alla sua pagina pervenissero alcuni dei temi della polemica desanctisiana, per un altro, ma in questo stesso atto, gli accadeva di non considerare che, mentre, all’improvviso, in questo punto il suo discorso mutava direzione, a riprendere la sua importanza e a svolgere il suo ruolo negativo era proprio la tesi dell’antichità. Di un’antichità, per altro, che non riconduceva a passate grandezze, perché ben altro metteva in evidenza, e cioè l’enorme peso che essa esercitava sul presente rendendo lento e, appunto, stentato il suo procedere.
Che cosa c’entra tutto questo, dirà qualcuno, con la questione se l’inizio della Storia d’Italia dovesse porsi al 1860 o al 1871? C’entra, deve rispondersi, non perché la prima di queste due date appartenga all’antico e l’altra, invece, al moderno, ma per la diversa e, dopo tutto, non peregrina ragione che il decennio che dall’una conduce all’altra fu quello del difficile avvio della vita unitaria, fu quello in cui, venendo in contatto, non solo politico, ma culturale, in senso antropologico, e linguistico, i popoli del Nord e quelli del Sud cominciarono a dover decifrare, ciascuno, la diversità dell’altro, e antiche ostilità, antichi pregiudizi sembrarono trovare la loro concreta conferma nel vivo dell’esperienza che gli uni facevano degli altri. La condizione assai depressa che caratterizzava le popolazioni agricole del Sud sollecitò ben presto le riflessioni pessimistiche di molti uomini della classe intellettuale italiana; e molto rilievo, anche in anni recenti, si è dato a Le lettere meridionali (indirizzate nel 1875 a Giacomo Dina, direttore del quotidiano «L’opinione», poi riprese in volume nel 1878 con il titolo Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia), in cui Pasquale Villari aveva ritratto lo stato miserabile delle popolazioni del Sud, che, diceva, se la classe dirigente non avesse provveduto a porvi riparo e a proporne la riforma, a farla, e non in modo pacifico, sarebbero stati, prima o poi, coloro che ne erano le vittime secolari. Il confronto, che l’unificazione aveva reso possibile fra la parte più progredita dell’Italia con quella che lo era assai di meno, aveva contribuito ad acuire diffidenze e ostilità sia negli uni sia negli altri: nei primi, che temevano che, nel livellamento delle fortune, ne andasse del loro privilegio o, comunque, della loro migliore condizione, negli altri che, nel paragone che istituivano fra la loro condizione e quella degli uomini del Nord che scendevano nelle loro terre, trovavano materia sufficiente a rendere più viva la loro ostilità.
Si aggiunga che, secondo stime attendibili, al momento dell’unificazione, dei 23 milioni a cui ammontava la popolazione della penisola, gli analfabeti raggiungevano la soglia dei 17 milioni, e che solo sei milioni erano quelli che sapevano leggere e scrivere (ma converrà, su questo punto, leggere T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, 1970, pp. 36-45 e 342-46), mentre le cose non andavano meglio per quel che riguardava il reciproco comprendersi, l’intendersi l’uno l’altro, di cui aveva parlato Alessandro Manzoni. I dialetti, infatti, si elevavano come muri invalicabili fra italiani e italiani e li chiudevano, ciascuno, nel suo gruppo. Ma costituivano tuttavia la condizione indispensabile perché, all’interno di questi, coloro che li abitavano capissero l’uno le parole dell’altro. A chi li disprezzava Manzoni proponeva un pungente paradosso. Scriveva nel suo saggio su La lingua italiana (1847), indirizzato a Giacinto Carena:
Supponete che per uno strano miracolo, tutti questi che chiamate dialetti cessassero tutt’a un tratto d’esistere: che dimenticassimo ognuno il nostro, e ci trovassimo ridotti a quella che chiamate lingua comune. Come s’andrebbe avanti? Come vi pare che potremmo intenderci, non dico tutti insieme, napoletani, milanesi, romani, genovesi, bergamaschi, bolognesi, piemontesi, e via discorrendo; ma in una città, in un crocchio, in una famiglia? E non dico la parte meno istruita delle diverse popolazioni; ma le persone civili, colte, letterate: non dico le parole che il servitore non intenderebbe; dico le cose che il padrone non saprebbe come nominare (A. Manzoni, Opere varie, a cura di M. Barbi, F. Ghisalberti, 1942, p. 755).
Il che poi non toglieva, secondo Manzoni, che il problema che l’Italia si trovava di fronte e doveva risolvere era che a tutti si imponesse la conoscenza di una lingua che, sul piano nazionale, assicurasse la reciproca comprensione che i singoli dialetti consentivano a chi, colto o incolto, padrone o servitore, di uno di questi fosse comunque in possesso. Nasceva da queste preoccupazioni l’esigenza di un nuovo vocabolario della lingua italiana; che Manzoni volle redatto «secondo l’uso di Firenze» e che, iniziato nel 1869 si concluse nel 1897, quando il suo ideatore e maggiore propugnatore non era più fra i vivi (C. Dionisotti, La lingua dell’unità, 1991, in Id., Ricordi della scuola italiana, 1998, pp. 299-300).
Non mancò nemmeno chi, da questa condizione di cose che la raggiunta unità politica aveva rivelata nella sottostante società, trasse materia per osservarvi il dualismo interno al popolo italiano, che era in realtà due popoli, l’uno contemporaneo all’altro, ma a questo anche opposto, perché a quello «sensuale e immaginativo» corrispondeva e si opponeva l’altro «riflessivo e pensante», la mediazione fra i due che, in quanto tali, stavano in campi opposti essendo affidata al monarca sabaudo che era diventato re d’Italia. Non era quella di Camillo De Meis, che a questi pensieri aveva dato svolgimento nei due articoli dedicati a Il sovrano (1868), un’impresa intellettuale della quale debba ripetersi né il bene che da qualche parte ne è stato detto, né il male che ne disse Giosue Carducci quando, dapprima in forma anonima, diresse contro il malcapitato niente più che le ingiurie che poi non volle ristampate nei volumi che intitolò Ceneri e faville. Sebbene, nei due scritti in cui la tesi del «sovrano» è ragionata, spunti interessanti non manchino e con toni drammatici, per es., sia rappresentata la questione del brigantaggio, che De Meis aveva definita come una vera e propria «guerra civile» (Il sovrano. Saggio di filosofia politica con riferenza all’Italia, a cura di B. Croce, 1927, pp. 14-15), c’era tuttavia, nel suo modo di procedere, qualcosa di estrinseco e di naturalistico, che aveva il suo riscontro nella mediazione da lui affidata alla corona d’Italia, ossia al re sabaudo che, per poter sul serio mediare, doveva tenere conto dell’una e dell’altra parte, ed essere «grande, bello e forte al possibile», ma «al tempo stesso amico del progresso delle idee, passionato dell’indipendenza, dell’unità e della grandezza della patria» (pp. 66-67). Ma c’era soprattutto una sorta di accettazione passiva del fatto di quella contrapposizione, che era presentata come ineluttabile e permaneva infatti, ed era visibile, nell’opera mediatrice e demiurgica del sovrano, che superava e redimeva, senza sul serio superare e redimere, e soprattutto era come se dovesse mediare e redimere in eterno senza mai conseguire un effetto che andasse oltre quello stato di cose.
Nella filosofia come nella storia, come nella politica, come in tutte le discipline particolari, la verità non è l’astrazione: non è l’universale e non è il particolare, astratti tutti e due: è la coincidenza e il movimento di entrambi; e il vero ingegno è quello che sa afferrarli nella loro unità vitale (p. 86).
Non è forse evidente che in questo modo di concepire, chiamiamola così, la dialettica, non era la coincidenza a risolversi nel movimento, ma era questo a rendersi immobile nella coincidenza?
Assai seri erano i problemi che le condizioni economiche e sociali in cui versavano le regioni meridionali ponevano ai governanti del nuovo Regno, a cominciare da quella del brigantaggio che, senza che sia necessario darne una rappresentazione drammatizzante di netto stampo ideologico, esisteva tuttavia ed era assai grave, perché alla violenza che era nei cosiddetti briganti, che reagivano alla disperazione economica e sociale che attanagliava tanta parte delle popolazioni contadine del Sud, corrispondeva quella con cui era condotta la repressione governativa; che se aveva dalla sua parte le sue ovvie ragioni, era anche permeata dal senso di superiorità che gli uomini del Nord nutrivano nei confronti di quelli del Sud. Non conviene a questa sede l’insistenza sulle tendenze conservatrici della borghesia italiana che, nel suo insieme, non era all’altezza del compito al quale era chiamata. E non più che un accenno è consentito al peso che su di essa esercitava la Chiesa cattolica, che del nuovo Stato non era certo amica e gli sarebbe diventata nemica mortale dopo la breccia di Porta Pia e la proclamazione di Roma a capitale del Regno.
Non, beninteso, che cose come queste appartenessero al primo decennio della vita unitaria e non anche agli anni che gli tennero dietro, e che dei limiti in cui le cose dell’Italia erano racchiuse nel libro di Croce non si parlasse. Se ne parlava, in realtà, senza reticenze nell’atto stesso in cui anche dell’azione del governo si sarebbero via via indicate le insufficienze, i ritardi, le contraddizioni, i conati, come li chiamava, autoritari. Come si diceva nel saggio che nel 1978 dedicai alla Storia d’Italia, nell’obbligo che egli aveva imposto a sé stesso di non guardare al di là del limite oltre il quale il fascismo aveva piantate le sue bandiere, era presente anche la necessità che a esso si disobbedisse nell’atto in cui lo si confermava; e l’assenza del fascismo nel quadro dell’Italia liberale di cui Croce narrava la storia era, nel suo stesso atto, segnata e contraddetta dalla sua presenza, se non nelle cose obiettive del libro, nello spirito con cui erano narrate, nella preoccupazione che si nascondeva nella classica compostezza della prosa, e pure, a tratti, rischiava di uscirne pur senza riuscire ad alterarne il ritmo. Si dovrà riparlarne. Ma, intanto, la scelta del 1871 come punto d’inizio della narrazione consentiva a Croce di prendere in considerazione uno Stato di cui non si narrava il momento della partenza, ma che già era partito, aveva la sua capitale a Roma e, mentre gli presentava una realtà in movimento, un’azione politica già orientata a stabilire un primo serio contatto con le difficoltà alle quali avrebbe dovuto porre rimedio, nello stesso tempo gli permetteva di non descrivere le condizioni del Paese nel momento della sua conseguita unità, di non trattare dei modi plebiscitari in cui era avvenuta l’annessione delle province italiane al Regno di Sardegna che diveniva così Regno d’Italia.
Allo stesso modo, fuori del quadro restavano episodi nei quali si era ben presto espresso lo scontento delle regioni meridionali, che nell’unità non vedevano il bene che qualcuno aveva indicato, ma se mai il persistere, potenziato, delle vecchie miserie. Fuori del quadro restavano la rivolta di Palermo del 1866 e i moti provocati dalla legge sulla tassa sul macinato, promulgata fra il 1865 e il 1868. Fuori del quadro, o presente in esso con un breve accenno alla «lunga e dolorosa guerriglia» che provocò nell’Italia meridionale (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1942, p. 32), restava il fenomeno del brigantaggio che, nelle campagne meridionali, andò oltre gli anni Sessanta, ma all’inizio di essi, come si è detto, fece registrare episodi di particolare gravità e una repressione altrettanto spietata. Alla formazione di quel movimento avevano dato il loro contributo uomini del disciolto esercito borbonico, che avevano preferito il rischio e l’avventura al possibile inquadramento nel nuovo esercito regio, e, in genere, nel nuovo Stato. Ma, al di là di quel che nuovi studi possano aggiungere al già noto, è indubbio che quel fenomeno era l’ovvia conseguenza del forte disagio, se non si vuol dire dell’autentica esasperazione e disperazione sociale, che saliva dal basso della società del Sud, e che la trattazione che se ne fosse fatta all’inizio di una Storia dell’Italia unita avrebbe contribuito a dipingerne il quadro con colori assai più cupi di quel che non avvenisse in quella scritta da Croce.
Deve ribadirsi quel che già è stato detto. Non è vero che a cose come queste non si alludesse nel libro dedicato nel 1978 alla Storia d’Italia dal 1871 al 1915, né che alla questione delle due date del possibile inizio non si facesse cenno. Della possibilità che il suo racconto partisse dal 1860, anziché dal 1871, e dell’incertezza che al riguardo dimostrava quando alludeva a una storia che aveva in animo di scrivere dell’Italia dopo il 1860, fra vari altri si indicava, in quel libro, anche il documento costituito da una lettera, allora inedita, che, da Meana di Susa, Croce aveva inviata a Guido De Ruggiero il 6 agosto 1926 (Carteggio Croce-De Ruggiero, a cura di A. Schinaia, N. Ruggiero, 2008, p. 195); e se ne traevano varie conseguenze. Ma quella che, dall’insieme di questi elementi, non si traeva avrebbe avuto a che fare, se fosse stata tratta, e non sembri paradossale quanto ora si dirà, con la questione dell’antichità della storia italiana, della quale, per negarla, Croce aveva dissertato nella già citata postilla del 1916. Quel Sud immobile, del quale tanto si parlò nei primi tempi del secondo dopoguerra, non era certo una realtà rimasta estranea alla storia e consegnata per sempre al suo mito. Non era una terra dove, inteso come sinonimo di civiltà moderna, Cristo si fosse fermato. Non era una «cultura» che, sottraendosi al tempo storico e in quella sottrazione trovando il suo carattere, nella pura ripetizione di sé stessa l’avesse trovato. Era tuttavia la testimonianza di un tempo che da secoli si trasmetteva identico ai secoli, e che quanto era povero di eventi, altrettanto era ricco di cose che, gravando sulle spalle dei suoi abitanti, poneva, a chi avesse avuto il compito di governarlo, un problema che sul serio sembrava insolubile. In questo senso, essendo vero che, intesa come nazione e come Stato, l’Italia non aveva che una storia recente, non altrettanto lo era se si fosse guardato a quel che si era via via venuto formando nei secoli nel cui corso la vita dei popoli del Sud, e non di quelli soltanto, era trascorsa nel vuoto della vita politica e delle relative passioni, in uno scetticismo neghittoso alimentato da un clero che, se non era altrettanto cieco e qualcosa vedeva in quel che accadeva al di là dei confini degli Stati detti italiani, subito se ne ritraeva con orrore come se il cosiddetto progresso fosse roba del demonio, e guai a lasciarsene contaminare e a non proseguire sull’antica via. Che, in questo senso, antica era sul serio, e per percorrerla a ritroso, si sarebbe dovuto compiere un cammino assai più lungo di quello indicato, per es., da Gioacchino Volpe, quando, nell’Italia moderna (1° vol., 1815-1898, 1958, pp. 57 e segg.), per spiegare certi caratteri negativi degli italiani, ai quali contestualmente ne riconosceva altri molto positivi, invitava a guardare al predominio straniero che si era affermato in Italia alla fine del 15° secolo. In realtà, nelle cose che, piaccia o non piaccia, appartengono alla storia, l’immobilità sociale e politica è pur sempre tempo; un tempo che misura sé stesso percorrendosi a ritroso e trovandosi perciò sempre nello stesso punto.
Se la si osserva da questo punto di vista, la questione che si sta ponendo non è diversa da quella che, nella Storia dell’età barocca in Italia (1929), indusse Croce a parlare, apertis verbis, della decadenza italiana, che qui, in modo più esplicito, si connette alla antichità del popolo, o dei popoli italiani, e del peso che esercitava su di loro rendendoli passivi e inetti alla politica. Che è poi il senso che dev’essere riconosciuto nella sua antichità; che era un peso, in effetti, e non un titolo di nobiltà, e mentre, per un verso, confermava le buone ragioni che, nei confronti del fascismo, inducevano Croce a parlarne come di una breve «parentesi» apertasi nel corso di una storia secolare, per un altro non lo autorizzavano a sostenere, senza distinzioni e precisazioni, che quella parentesi si era aperta perché così in Italia si era voluto in quel momento da parte di qualcuno.
A parte la discrasia che si rendeva evidente nel suo discorso che, da una parte, batteva sulla brevità e, da un’altra, per togliere valore e importanza al fascismo, per strapparlo quasi con rabbia dalle viscere della storia italiana, richiamava la sua antichità, c’erano altre ragioni che, in linea generale, consigliavano di tener ferma questa e non quella. In effetti, se, come aveva sostenuto nella Filosofia della pratica (1909), la volontà non nasce nel vuoto della storia, ma ne è condizionata ad andar oltre e a prodursi in un’azione, alla tesi della «parentesi» si sarebbe potuto osservare che, se la sua verità era garantita dall’antichità della storia italiana, di lì discendeva non la sua irrilevanza, o debole rilevanza, ma il contrario. Non si trattava, beninteso, di dedurne conseguenze assurde, e di far indossare a Giulio Cesare la camicia nera, mettendo paradossalmente d’accordo, per questo riguardo, da una parte, Benito Mussolini e i suoi gerarchi in vena di intellettualità, da un’altra, Giuseppe Antonio Borgese, autore di Goliath (1937), e Gaetano Salvemini che con lui, su questo punto, concordava (Mussolini diplomatico, 1952, pp. 23-24). Ma se la «parentesi» fosse stata storicizzata, e in quel che conteneva si fosse guardato a fondo, inevitabile sarebbe stata la sua dilatazione. Inevitabile sarebbe stato scoprirvi e indicarvi i nessi che intratteneva con il passato italiano: non, beninteso con tutto il passato italiano, che era l’ovvio limite e la palese esagerazione della tesi gobettiana del fascismo come «autobiografia della nazione» o di altre che ne facevano la «rivelazione» dei secolari mali italiani, ma con quello che si esprimeva nella povertà della vita politica e nell’estraneità a essa delle sue popolazioni che, per decenni e decenni, erano state oggetto, e non soggetto, di storia.
Di qui il peso secolare di cui si parlava a proposito di quel che Croce si sarebbe trovato di fronte in più drammatiche forme, se, fin dal suo primo giorno, avesse affrontato la realtà offerta dall’Italia unita; il peso che egli, invece, cercò di togliere dalle sue spalle, per evitare che, a causa di esso, invece che nella direzione del futuro che, giorno dopo giorno, la vita italiana rendeva presente, il suo racconto andasse verso il baratro del passato, da cui era pur necessario lasciarsi attrarre, non per precipitarvi dentro con un salto mistico, ma per indagare e spiegare il presente nelle ragioni profonde che avevano determinato, e determinavano, le sue difficoltà e i suoi stenti. Dei quali, sia detto ancora una volta, Croce era altrettanto consapevole del compito immane che il governo italiano si era trovato di fronte a misura che cominciava a essergli chiara la natura dell’Italia. E di tutto fece la materia del suo racconto, nel quale la gravità dei problemi presenti nella vita economica, sociale e politica, fu descritta con la stessa forza con cui li indicava in quella intellettuale e morale; sempre con l’intento, tuttavia, di considerarli, non come un tenace e invincibile controcanto, ma come un negativo al quale non si concedeva diritto di autonoma realtà, perché l’unica sua realtà era nell’essere superato e nel costituire un passato visibile, nella sua inattualità, nel reale specchio del presente. Una questione spinosa, questa del positivo e del negativo nella rappresentazione storica, quale egli la intendeva. Una questione che si sarebbe non semplificata, ma resa di molto più ispida, se dal piano della narrazione, dove necessariamente al negativo deve darsi un tempo, si fosse passati su quello filosofico, dove un tempo non avrebbe potuto essergli concesso, perché quello a cui, su questo piano, può darsi quel nome, in realtà non è tempo, ma è il suo puro ed eterno risolversi nel positivo al quale, per questa via, dà concretezza.
Era, questo che Croce metteva in atto, un convincimento che gli proveniva dalla filosofia che aveva nella testa. Il che spiega perché chi si disponesse a criticarne le conseguenze storiografiche, a quelle ragioni dovrebbe saperle ricondurre. A queste, e non al generico ottimismo dettato dalle sue convinzioni di politico moderato, se non conservatore, incline a trasferire nel passato i suoi deboli ideali, a vederlo nella luce di questi e alla tendenza sdrammatizzante che contenevano in sé. A dar conto del carattere che in tal modo egli imprimeva alla sua Storia, varie ragioni concorrevano, in un fitto intreccio di motivi che si deve tuttavia saper sceverare e distinguere; e fra queste deve di nuovo darsi rilievo all’impegno civile, di difesa civile, che, in opposizione alle denigrazioni fasciste, Croce metteva nel rivendicare i meriti di quell’Italia che, malgrado tutto, si era messa sulla via di un vario progresso al punto che i veleni presenti nel suo organismo sociale e intellettuale non sarebbero bastati a ucciderla nelle sue istituzioni e nella sua libertà se, sulla sua fragilità, non si fosse abbattuto il tornado della guerra. Fra i molti fili, non sempre armonizzabili gli uni con gli altri, che costituiscono il fitto tessuto del suo racconto, singolare e degno di essere notato è il fatto che a quelli logici e dialettici se ne aggiungesse uno che, prendendo la forma della guerra, veniva su dalla verde e selvaggia e indomabile natura. Si poteva chiamarla «giudizio di Dio», e così nobilitarla e sublimarla. Tuttavia, come diceva la saggezza popolare, di Dio essa era piuttosto un «castigo» (L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, cit., p. 91) che si esprimeva nelle forme dei cataclismi naturali. Era sempre e soltanto natura, furia selvaggia, potenza irrazionale: una potenza che sottometteva a sé ogni diritto, e pareggiando nella stessa condanna l’innocente e il colpevole, l’eroe e il codardo, si proseguiva nella violenza che, dai campi di battaglia passava nella vita civile, la inquinava e, nelle sue parti migliori, la uccideva.
Sempre, mentre scriveva la Storia d’Italia, a Croce dovette esser presente la pagina nella quale egli aveva dichiarato il rimpianto che provava dei tempi in cui tutto d’intorno si vedevano «occhi lampeggianti di intelligenza», si ascoltavano «le calde parole, gli arditi disegni» e l’«arguto riso» rallegrava uomini come lui «già negli anni da cui un abisso ci divide». Sempre dovettero essergli presenti le parole con cui, in quella stessa pagina, aveva descritto
volti affaticati, occhi spenti, intelletti ottusi, e prontezza ad accettare come realtà ogni bubbola che si racconti, e come verità ogni più rozza e sgangherata dottrina, che uomini fanatici e arroganti vengano asserendo (L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, cit., p. 209).
E tanto gli furono presenti che non le dimenticò mai, e le si ritrova infatti, quasi alla lettera, nell’Epilogo della Storia d’Europa nel secolo decimonono (1943, p. 350). Così, a quel modo che, nel narrarne gli inizi, Croce si era astenuto dall’assumere quello che, osservato da vicino, lo avrebbe costretto a far retrocedere la sua storia verso quinte di sabbia sempre più lontane, altrettanto avveniva per il suo punto di arrivo; che non poteva e doveva essere oltrepassato, perché, al di là di quel limite, si profilava il rischio del supremo scandalo rappresentato dalla morte dello spirito, e tuttavia, per certi aspetti, inevitabilmente lo era, perché era da quel che stava oltre il limite che si era formata in lui la volontà di scrivere una storia che se ne fosse tenuta al di qua.
Se quella che si è cercato di individuare è la ragione per la quale, nel racconto della storia d’Italia, così tenace fu, in Croce, la tendenza a far prevalere il positivo sul negativo e a non concedere a questo una consolidata realtà, se ne dà anche un’altra che, messa in luce già nel 1978, richiede ora di essere riproposta anche in questa sede. Deve riconsiderarsi, a questo riguardo, la questione posta dalla decisione che, già nel giugno del 1915, Croce aveva presa, e poi non poté attuare nel modo previsto, di scrivere una storia dello spirito europeo nel secolo decimonono: una storia che, scriveva a Gentile il 22 giugno 1915 (Lettere a Giovanni Gentile, 1896-1924, a cura di A. Croce, 1981, p. 498) pensava di comporre nei successivi tre anni, e che, come sopra fu congetturato, se fosse stata scritta, lo sarebbe stata nel modo che fu poi da lui tenuto nel comporre la Storia dell’età barocca, ma che forse, si può ora aggiungere, avrebbe avuto in sé qualcosa di diverso e di ulteriore a quel che per solito s’incontra e si trova in un libro di storia.
Se quello che egli aveva in animo di scrivere, e non scrisse, era un libro di storia che quasi, tuttavia, dava una «mano alla praxis», il suo carattere doveva esser tale che la storiografia vi si sarebbe, in alcuni momenti, fatta teoria, o filosofia, politica, come poi in parte avvenne, e non per caso, nella Storia d’Europa nel secolo decimonono. L’idea di quella storia tornava, di tratto in tratto, a visitarlo; e così è notevole, e già ci fu occasione di notarlo nel precedente scritto, che, quando ebbe finito di rivedere gli appunti presi per la stesura della Storia d’Italia, egli avvertisse di star lavorando a un’introduzione che avrebbe premessa al suo libro, e che il suo titolo sarebbe stato Contrasti d’ideali politici in Europa dopo il 1870. Quelle pagine, come si sa, furono effettivamente scritte, ma non andarono mai a costituire l’introduzione prevista per la Storia d’Italia. Dopo essere state pubblicate negli Atti dell’Accademia reale di Napoli del 1927 e, nello stesso anno, in uno dei «Quaderni critici» che Domenico Petrini pubblicava a Rieti, trovò la sua sede definitiva nella seconda parte di Etica e politica, nel 1931. Ci si deve di nuovo chiedere per quali ragioni, perché non può pensarsi che non ce ne fossero, Croce decidesse di non farne ciò che si era proposto.
Le due opere di storia da lui scritte nel periodo della piena maturità, quella del Regno di Napoli e l’altra dell’età barocca, erano state entrambe dotate di un’introduzione, un’introduzione era stata premessa al libro su La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, quando, rifondendovi i molti saggi e articoli che aveva sparsamente pubblicati fra il 1892 e il 1894, lo pubblicò nel 1915. Si trattava, nel caso delle prime due opere, di scritti assai ricchi e impegnativi, composti per mettere il lettore nella condizione di aver subito un’idea della direzione in cui entrambe si sarebbero mosse. Se quindi, dopo averne scritta una da pubblicare all’inizio della Storia d’Italia, Croce rinunziò a stamparla come tale e la destinò a un’altra sede, la ragione dev’essere cercata in qualcosa, non di estrinseco, ma di intrinseco a quel che vi aveva sostenuto: in qualcosa, quindi, che, pur non inducendolo a sacrificare come inadeguati i pensieri che vi aveva esposti, gli sembrava tuttavia che contenesse in sé elementi e giudizi che, invece di accordarsi al racconto vero e proprio, lo avrebbero, se non contraddetto, reso di più difficile comprensione.
Per capirlo, e far capire se quel che qui si sostiene abbia in sé elementi sufficienti di plausibilità, non c’è quindi che da ripercorrere il saggio sui contrasti di ideali politici che si erano determinati in Europa dopo il 1870. Sulla falsariga di quanto detto nel 1978, l’attenzione deve perciò rivolgersi a quel che emerge dal primo capoverso, che dà l’impressione di essere stato premesso al resto quando l’idea di farne un’introduzione cadde e il saggio si presentò come autonomo e concluso in sé stesso. In pochi brani Croce vi tracciò le linee di un’età nella quale le grandi idealità intellettuali, morali e politiche che nei primi tre decenni del secolo decimonono si erano riassunte nei pensieri dei filosofi tedeschi, nell’idealismo e, più ancora che nel liberalismo, nell’idea della libertà come enèrgeia autrice e formatrice della storia, erano state sostituite da idealità, se così si poteva chiamarle, di segno opposto. All’idealismo avevano infatti tenuto dietro il positivismo, il materialismo e quel che ne era conseguito con il trionfo ottenuto dalle scienze naturali sulla filosofia, dal protezionismo sul liberismo, dalla politica fondata sulla violenza su quella che nella forza riconosceva la sua essenza, e non anche il suo limite, insomma un autentico sovvertimento e capovolgimento di valori. La Chiesa cattolica, che gli illuministi e i razionalisti avevano creduta vicina alla morte, collaborava senza alcun ritegno al suddetto ribaltamento dei valori, perché, come ai suoi tempi Dante aveva detto, il suo era un dio «d’oro e d’argento», estraneo e ostile al progresso delle idealità, non solo liberali, ma civili. Collaboratore essenziale di questa negativa trasformazione degli ideali era altresì ritenuto il materialismo storico; e con questo nome era stata infatti definita la guerra, o piuttosto la «deflagrazione», mondiale che, a questa storia, mise il suo tragico suggello.
Era questo il quadro che gli anni seguiti al 1870 e conclusi con la suddetta «deflagrazione» offrivano allo sguardo di Croce e mettevano in difficoltà la sua idea di una storia unitaria dello spirito europeo nel secolo decimonono. Essendosi proposto di narrare con spirito non nazionalistico, ma europeo, quel che nello stesso periodo era accaduto in Italia, di tutto questo non poteva non preoccuparsi. A mettere in crisi l’idea di un racconto unitario era la constatazione che, mentre con il moto risorgimentale l’Italia conseguiva la sua unità nel segno degli ideali liberali, nel resto dell’Europa, o in una parte importante di essa, le cose avevano intrapreso un cammino opposto, e non quegli ideali sembravano trionfare, ma altri, di altro segno.
Il tentativo che, nel saggio sui Contrasti d’ideali politici, egli fece per offrire, di quel periodo, una lettura alternativa che mostrasse che altro era in realtà il senso delle cose, si manteneva sul piano della teoria, e non trovava il suo riscontro in quelle, che andavano, infatti, in senso opposto. Non erano fantasmi le realtà alle quali, nel descriverle, Croce aveva dato il nome che a esse conveniva. Erano crude realtà che ovunque mostravano il loro volto inquietante. E di lì derivava la difficoltà che egli incontrava nel rendere plausibile la sua diversa lettura fondata sull’idea della funzione positiva che alla resa dei conti quel negativo avrebbe svolta nel mostrare la necessità del suo superamento nell’opposto valore della libertà. In quanto si risolveva nell’indicazione delle forze che, per contrasto, sarebbero state generate da quelle che per allora avevano il sopravvento, la sua lettura dava luogo a una inevitabile sfasatura di piani. Essendosi proposto di eliminare il pericolo che le idee non corrispondessero ai fatti, e questi divergessero dalle idee, la soluzione «dialettica» con la quale egli faceva che fossero i fatti stessi a evocare le idee che li negavano nella loro materiale brutalità, rischiava di rendere la separazione ancora più netta; con i fatti che tenevano il piano alto della scena e con le idee che li contrastavano sul loro.
La convinzione filosofica che il negativo non avesse realtà se non nel positivo che lo supera e lo risolve nella sua luce era messa in crisi, nella sua pretesa di assolutezza, dalla sua narrazione delle cose che, nella migliore delle ipotesi, dimostrava che quella risoluzione non avveniva nel tempo senza tempo delineato dalla teoria; che perciò, vista in questa luce, mostrava la sua crisi. Perché le si desse compiuta ospitalità in un racconto storico che non la smentisse, si richiedeva non tanto che il positivo, e le idee che se ne ispiravano, stessero sullo stesso piano dei fatti, e che nel tempo li assoggettassero a sé, ma che piuttosto li informassero di sé ed esse stesse si facessero fatti, fatti della positività trionfante della negatività, fatti dell’eterno, se si vuol dire così, che richiama a sé il tempo e lo dispone nella sua forma.
Ma se questa era la convinzione filosofica di Croce, se questa, in poche parole, era la cifra ultima del suo idealismo, il suo racconto non riusciva a corrispondervi. Non riusciva a corrispondere alla teoria che pure avrebbe dovuto ispirarlo. Il carattere strutturale e non temporale del rapporto che legava le idee e i fatti, e che costituiva la sua ambizione filosofica, non riusciva a trovare conferma nella narrazione. Il tempo non si risolveva nella struttura dello spirito, di questo facendosi un momento; e la struttura era perciò costretta a pagare il fio della sua pura idealità sull’altare stesso sul quale, altrimenti, sarebbero stati i fatti a dover pagare il loro. Al di qua o al di là del tempo, si sarebbe allora avuto uno di questi due esiti diversi, anzi opposti, e inconciliabili. O una filosofia senza storia, o una storia senza filosofia. O l’impossibilità, per la decadenza, di occupare una porzione, anche minima, del tempo, perché su un altro piano, rigorosamente extratemporale, si dava il suo apparire per sparire nella piena positività della sintesi spirituale, o la possibilità che le si riconosceva di occuparla, questa porzione, ma allora sarebbe stato il tempo a fare la sua irruzione nella sfera dell’eterno, impedendo a questo di essere il cuore autentico dell’idealismo nella versione che Croce gli dava. Il quale, d’altra parte, era troppo acuto per non avvedersi che nel punto che è stato indicato si nascondeva il nocciolo della questione, la sua vera difficoltà; e lo indicava infatti là dove, ritenendo di essere in grado di risolverne la difficoltà, avvertiva che, a seguire la delineazione che aveva offerta di quel che era accaduto nello spirito europeo dopo il 1870, si era determinato, o così sembrava, lo «strano caso» di una «divergenza» prodottasi «fra teoria e fatto, idea e realtà». Ma il caso era, in realtà, assai più inquietante che strano; e avrebbe infatti cessato di apparire «strano», e si sarebbe rivelato soltanto inquietante, se Croce avesse considerata la natura della difficoltà che incontrava a risolvere il tempo, che, per sé stesso, è distruttivo della sintesi, nella sintesi che, per sé stessa, non ospita un tempo che possa disintegrarla. Se è una sintesi, lo risolve, infatti, originariamente, in sé. Salvo che, se questa via fosse stata percorsa fino alle conseguenze estreme, da una parte, la filosofia dello spirito avrebbe celebrato, sul suo terreno, il suo proprio trionfo, nell’atto stesso in cui, da un’altra, si sarebbe dovuta constatare l’impossibilità che, nel suo ambito, avesse luogo la sua risoluzione nella storia, sì che la loro identità sarebbe andata in pezzi.
Che, d’altra parte, la risposta che in quel saggio Croce forniva alla questione che si era trovato di fronte non dovesse appagarlo fino in fondo, e risolto così, nell’ambito di quel saggio, il problema non gli apparisse risolto sul serio, si vede proprio dalla sua mancata inclusione nel volume in cui aveva narrato la storia dell’Italia dal 1871 al 1915. Osservata alla luce di quel che la storia europea successiva al 1870 gli metteva sotto gli occhi, la questione che, senza riuscire a persuasivamente risolverla, Croce poneva in questo saggio aveva la sua premessa in quel che, nel 1907, aveva sostenuto in Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel e avrebbe ripetuto nella Logica del 1909. Nella prima di queste due opere, aveva asserito che
lo spirito è svolgimento, è storia, e perciò essere e non essere insieme, divenire; ma – aveva aggiunto – lo spirito sub specie aeterni che la filosofia considera è storia ideale eterna, extratemporaria: è la serie delle forme eterne di quel nascere e morire, che, come Hegel diceva, esso stesso non nasce e non muore mai (Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, 1913, p. 64).
Nella seconda, la differenza che, senza enfatizzarla ma subendola, Croce aveva posta fra storia ed eternità, ritornava nella forma di quella che non poteva non ammettersi fra l’esistenzialità del passaggio di una forma nell’altra e il loro ideale, non passare, ma esser passate essendo l’una nell’altra (Logica come scienza del concetto puro, 1942, p. 65). La crisi che queste due divergenti delineazioni del processo spirituale ponevano in evidenza, era la stessa che si sarebbe manifestata ogni volta che dalla filosofia dello spirito si fosse preteso di ricavare, per via logica, lo storicismo. Ed era la stessa che anche nel saggio sui Contrasti d’ideali politici si manifestava nella difficoltà che Croce incontrava nel tentativo di far convergere in un punto che fosse insieme ideale e storico, storico e ideale, le idee e i fatti, i fatti e le idee; che invece divergevano o, se si preferisce, si scontravano determinando, nel periodo in questione, la prevalenza non delle idee, che restavano in attesa del loro momento, ma dei fatti. Quanto era avvenuto in quel tratto di tempo si era infatti concluso con la guerra; con questo evento grandioso e terribile che aveva sconvolto il mondo e che ancora gravava su di esso con il suo peso insopportabile, con le conseguenze penosissime che ne erano derivate alla vita politica e sociale dell’Europa e, in essa, dell’Italia. Certo, la fede che Croce non poteva non avere nella forza imperitura dello spirito che, in sé stesso, è imposizione del positivo al negativo che sorge in esso per esserne vinto, restava intatta. Ma è notevole che, per un altro verso, in lui accadesse quello stesso che si dava a vedere nella scissione che la filosofia dello spirito pativa in sé stessa dell’eterno e del tempo, dell’eterno che era una risoluzione e del tempo che era una scissione che tornava a imporre sé stessa inducendo nel filosofo la cupa nota di una Sorge esistenziale. Dalla quale Croce fu così profondamente segnato che, conclusa la Storia d’Italia, proprio a quel concetto, o anche a quel concetto, avrebbe di lì a tre anni ispirato il racconto di quella dell’Europa nel secolo decimonono; che fu non, come anche da studiosi insigni (Walter Maturi, Federico Chabod) fu creduto, la celebrazione in terra della liberale Civitas dei, ma la storia della decadenza che, toccato il suo vertice nei primi trent’anni del secolo decimonono, la libertà conobbe nei decenni successivi e, in particolare, in quelli che dal 1870 condussero alla guerra mondiale. Dopo di che, è ben vero che, a suo giudizio (Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., p. 352), la libertà aveva per sé qualcosa di meglio del tempo, perché aveva l’eterno, ma anche lo è che, comunque questo suo starvi fosse pensabile, era nel tempo che si erano determinate le forze che la sfidavano a un duro cimento.
Se è così, la ragione che indusse Croce a non fare di quel saggio sui Contrasti d’ideali politici l’introduzione al suo libro sulla Storia d’Italia, comincia a delinearsi nel suo autentico motivo. Il periodo che egli si accingeva a narrare nella sua parte italiana coincideva con quello che, in Europa, era stato caratterizzato nel modo che si è visto; con la conseguenza che, se mai il libro fosse stato preceduto da una simile introduzione e la storia del giovane Stato italiano fosse stata narrata nella prospettiva che ne era stata delineata, con grande difficoltà si sarebbe poi potuto rivendicare la sostanziale positività del suo percorso politico e sociale. Per rendere persuasiva la tesi secondo cui il cammino che l’Italia aveva compiuto in quel quarantennio di vita unitaria era stato, malgrado la sua lentezza, le sue interruzioni, le sue deviazioni, segnato da sostanziale positività, si sarebbe dovuta narrarne la storia tenendola separata da quella che si svolgeva in Europa e giudicandola impermeabile a quel che di negativo avveniva in essa; e dire quindi cosa non vera e da Croce, a ragione, ritenuta falsa. Si sarebbe infatti dovuto prendere come virtù quel che in linea generale doveva essere considerato come il suo contrario. Si sarebbe dovuto esaltare il suo essersi tenuta in disparte da quel che accadeva al di là dei suoi confini, e fare il paradossale elogio del suo provincialismo, della sua arretratezza, delle sue chiusure municipali. Dopo di che, se mai si fosse operata questa separazione, e intorno ai suoi confini si fosse fatto correre una specie di cordone sanitario bastante a proteggerla da ogni contagio, la sua buona salute sarebbe stata fatta derivare dalla sua ignoranza. E dove, allora, sarebbe andato a finire il progresso?
Può darsi che la rinuncia a fare del saggio sui Contrasti d’ideali politici l’introduzione al suo libro sulla Storia d’Italia rispondesse alla necessità in cui Croce si trovava di non far cadere sul giovane Stato l’ombra funesta di quel che di peggio l’Europa stava, nello stesso periodo, preparando a sé stessa, e anche, beninteso, al nostro Paese. Può darsi, e anzi deve senz’altro ammettersi, che alla radice della rinuncia vi fosse un’istanza difensiva; e che alla rinuncia egli fosse stato indotto, non dalla volontà di minimizzare, ma dalla convinzione che se, al contrario, di quel saggio si fosse fatta un’introduzione, e la livida luce che si era accesa nel cielo intellettuale e politico dell’Europa di troppo fosse stata avvicinata a quello italiano, il profilo delle cose che anche in essa accadevano sarebbe stato, non meglio capito, ma piuttosto alterato e deformato. Anche in Italia, infatti, si dava voce, e non solo nelle riviste e nelle rivistine dei giovani intellettuali, a idee imperialistiche, anche in Italia si parlava di ciò di cui si diceva in Europa, e c’era chi celebrava la forza, l’industria e lo Stato che doveva accentuare in sé tutte le attività del Paese, volgendole a fini di grandezza e di pura potenza. Anche in Italia, che infatti vi si coinvolse, si parlava di imprese coloniali che allora, per altro, non senza una buona dose di ipocrisia e cattiva coscienza, erano presentate come dirette a far salire al piano alto della civiltà chi si trovava più in basso dei piani bassi. Ma tutto questo doveva esser visto nella sua luce, che era più pallida e discreta, a giudizio di Croce, di quanto altrove non fosse.
Se questa fu la ragione che indusse Croce a escludere dal libro sulla Storia d’Italia il saggio sui Contrasti d’ideali politici, deve dirsi che non qui sta, in realtà, il limite che, a quasi novant’anni dalla sua pubblicazione, questo libro rivela a chi, rileggendolo oggi, si trovi ad avvertire sulle spalle il peso che la storia italiana seguita, più che mai, a rendere insopportabile. Il suo limite non sta nella debole presenza dell’Europa che, al contrario, nel quadro tracciato debole non è affatto, e nei punti centrali della narrazione è invece fortissima. Non sta nello sforzo a cui allora egli si sottopose di rappresentare in sostanziale, anche se modesto, progresso la linea di quella storia, perché nel suo moto seppe cogliere le angustie e le lentezze. Non sta nel suo aver lasciato intendere a chi, in passato, non aveva potuto vietarsi di guardare oltre il limite segnato dal 1915, che sì, certo, l’Italia aveva perso la libertà per ragioni interne alla sua debole struttura, ma anche perché, per servirsi della formula usata da André Piganiol per spiegare la caduta di un ben più grande edificio, anch’essa era stata assassinée par les barbares. In realtà, sarebbe nel torto chi dicesse che nella sua narrazione Croce non aveva dato sufficiente risalto ai problemi strutturali e alla loro solo parziale, molto parziale, soluzione. Sarebbe nel torto, perché è invece innegabile che, giudicando con i suoi criteri, a quelli di attenzione ne dette molta, e in nessuna pagina del libro, nemmeno nella parte dedicata all’età giolittiana, lasciò pensare che fosse un Paese che aveva risolto ogni problema quello su cui si era abbattuta la barbara potenza della guerra mondiale. Il limite del libro non sta nemmeno nell’insufficiente rilievo dato ai germi di irrazionalismo e decadentismo che, dalla società, erano passati nella letteratura, la quale li aveva restituiti, ingranditi e potenziati, alla società, perché, al contrario, fu suo merito averli individuati e posti in rilievo.
Nel saggio del 1978 non di questa natura furono i limiti indicati nell’interpretazione crociana della storia d’Italia. Lo furono, se mai, in quel che di disorganico, di non fuso, di estrinseco si sarebbe dovuto notare in essa, e non fu notato con sufficiente attenzione. In che cosa, dunque, anche di quel saggio del 1978 è necessario identificare il limite? La ragione per la quale, in queste pagine scritte a riscontro di quelle composte nel 1978, con più forza si è cercato di dar conto del limite che questa Storia rivela a chi la ripercorra cercando di far rivivere le impressioni che si provarono al tempo delle prime letture e mettendole a confronto con quella che alla fine si è imposta – questa ragione dev’essere indicata e identificata in quella che fu accennata all’inizio. Si disse allora, commentando una pagina del 1916, che sì, certo, recente e non antica era la storia dell’Italia, se la si fosse intesa come nazione e come Stato, ma che antica, molto antica, era invece se la si fosse considerata nelle tante e tante parti in cui, a far tempo dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente, la sua unità si era frantumata. Nei tanti luoghi in cui si era raccolta e divisa, anche la sua politica si era ridotta in segmenti, alcuni vitali, altri meno, ma tutti alla fine condannati a pagare in sé stessi il fio della loro particolarità. Non è per rendere un omaggio alla seconda delle Unzeitgemässe Betrachtungen di Friedrich Nietzsche, se si parla del peso che l’antichità delle vicende che, per mille anni, avevano via via segnato di storia la geografia dell’Italia, e vi si identifica la vera ragione della difficoltà che, ritrovatasi unita, essa incontrò a darsi una politica coerente. Anche perché il peso della storia, e il danno da esso provocato, riguardavano, per lui, l’agire, non il comprendere, mentre qui riguardano l’uno e l’altro, l’agire e il comprendere, soprattutto il comprendere se in questione sia un libro di storia come quello che Croce dedicò alla Storia d’Italia. Se fosse stato considerato come uno degli elementi del quadro, e non dei meno importanti, il peso che il passato esercitava sul presente avrebbe potuto, a guardar bene, offrirgli una ragione in più per collocare nella luce intensa del positivo quel che, pur fra difficoltà di ogni genere, i governanti dell’Italia allora seppero fare.
Fu questo, per es., il riconoscimento che gli dette subito Adolfo Omodeo quando, recensendo il libro nel 1928, riconobbe che «il positivo dei primi decenni del regno d’Italia è nel superare le scogliere in cui pareva dovesse incagliare la conseguita unità» (L’Italia dal 1870 al 1915, in Difesa del Risorgimento, 1951, p. 429): un riconoscimento significativo se veniva da uno che, soltanto due anni prima, nella discussa, ma importante recensione che aveva dedicata al Risorgimento senza eroi di Piero Gobetti, aveva ammonito che una nazione non s’improvvisa in pochi anni, e che occorrono secoli per rendere le sue istituzioni salde e capaci di reggere alle tempeste della storia (in Difesa del Risorgimento, cit., p. 444). Questi pensieri richiedevano di essere ricordati perché quello del tempo che, con il suo trascorrere, misura la forza di una costruzione statale è tuttavia un’arma pericolosa, un’arma a doppio taglio. Le istituzioni liberali del giovane Stato italiano non ressero alle prove imposte dalle conseguenze della guerra perché il tempo che gli uomini del governo italiano ebbero a disposizione, dal 1860 allo scoppio della Prima guerra mondiale, fu troppo breve. Non ressero alla prova perché, sopportando il peso del passato senza soccombervi, non poterono costruire un edificio che fosse in grado di resistere a quelle prove. Ma non si trattava solo del tempo e della sua brevità. Il tempo breve che gli uomini che governarono l’Italia unita ebbero a disposizione non era infatti che la parte emergente di un tempo sommerso che, dalle sue profondità, condizionava la virtù e la metteva davanti a una prova che avrebbe ben potuto essere considerata impossibile. E a quel tempo sommerso occorreva che, nel narrare quello presente, si avesse l’occhio, e che, come ho detto, con più consapevolezza si misurasse il peso che esso esercitava e doveva, per conseguenza, essere sostenuto. Non si dice così perché si sia vittime di quella che Omodeo chiamava la «iniqua scienza del poi». Le prove, a cui il vascello dell’unità avrebbe, nel tempo, dovuto sottoporre sé stesso, non stavano infatti racchiuse in quei decenni. A formarle erano stati i secoli che, agli occhi dello storico, si inseguivano a ritroso verso un lontano passato, sì che, nell’atto in cui il suo sguardo si concentrava su quello recente, da questo era, o avrebbe dovuto essere, sollecitato a percorrere all’indietro la linea del tempo. L’onesta, quando fu onesta, amministrazione delle cose che, per la loro urgenza, quotidianamente s’imponevano all’attenzione, non poteva far dimenticare che, alla radice di quelle, ce ne erano altre, e che la costruzione di uno Stato nazionale che era costretto a vivere e a operare in contesti costituiti da formazioni politiche la cui potenza in ogni senso eccedeva la sua, richiedeva che si affrontassero i gravi problemi sociali, vecchi di secoli, ai quali, con quel che ne sarebbe seguito, proprio la guerra avrebbe poi impressa una irresistibile accelerazione negativa.
Si dirà che ciascuno risolve i problemi che ha davanti a sé, e non può essere criticato se a questi abbia ristretto la sua attenzione; che, dopotutto, i politici agiscono nel presente, sono uomini del presente, non archeologi, abituati allo scavo. È una vecchia massima della saggezza storiografica, e anche politica; e ci mancherebbe se proprio qui le si mancasse di rispetto. Ma, se sono problemi, i problemi non hanno un fondo che possa essere attinto senza che ci si disponga a proseguirne lo scavo, senza che il politico virtuoso si eserciti nell’arte dell’archeologia politica; e quelli che l’Italia presentava a chi la governava in quei primi anni della vita unitaria, non avendo un fondo al quale potesse facilmente pervenirsi, tanto più esigevano che vi si pervenisse (o si avesse la coscienza che pervenirvi era necessario). I meriti che, da Croce e da quanti, con i suoi criteri, si disposero a ripensare la storia dell’Italia unita nel suo avvio, furono attribuiti agli uomini del governo, debbono essere commisurati alla grandezza del compito, che non si poteva pretendere fosse condotto a termine in pochi decenni. Ma se il compito era grande, e forse troppo grande per poter essere mandato a buon fine, sta di fatto che quello era, di quello si doveva avere adeguata coscienza, e a quello si doveva dare esecuzione. Troppe cose, invece, rimasero a metà, per non dire di quelle che non furono nemmeno incominciate. Del che, se realisticamente si prende atto e si tiene conto, l’idea, per es., dei danni che l’Italia avrebbe subiti a causa della mancata introduzione in essa della Riforma protestante, può anche essere ascritta al novero delle favole, belle e nobili, ma favole. Il prezzo, per es., che una parte del territorio nazionale, ossia il Sud, dovette pagare perché avesse luogo l’accumulazione capitalistica necessaria a rendere possibile l’industrializzazione del Nord, fu troppo alto. Il Sud non ebbe indietro quel che aveva pagato per la realizzazione di un’impresa dalla quale anch’esso avrebbe dovuto, in un secondo tempo, ricavare vantaggi; che, come Rosario Romeo in Risorgimento e capitalismo (1959) ha apertamente riconosciuto, invece non vennero. Della necessità dell’accumulazione capitalistica convinto assertore, egli invitò a «non velare la gravità dei problemi che tuttora si pongono in Italia proprio in dipendenza del modo in cui si è realizzato lo sviluppo capitalistico; e, in particolare», a non «attutire la coscienza del rilievo che assumono nella fase attuale di tale sviluppo problemi come quelli del Mezzogiorno e delle campagne in genere, che sono tuttora fra le più povere e arretrate d’Europa», con la conseguenza che la loro persistente inferiorità, resa visibile nel loro «basso potere d’acquisto», ha finito con il nuocere in modo grave alla stessa «espansione industriale» (pp. 201 e 202).
Da tutto questo, l’equilibrio del Paese fu gravemente compromesso. Non deve perciò sorprendere se, alla prova dei fatti, la costruzione non resse, e alla grande tempesta della guerra l’Italia liberale non solo non seppe resistere, ma nemmeno, con le ben note eccezioni, mostrò di essersi sul serio avveduta delle conseguenze che ne stavano scaturendo e della natura della posta in gioco. Come proprio Croce aveva avvertito, il liberalismo era stato una prassi, non era stato né un concetto che fosse stato pensato nella sua profondità, né una fede per la quale si fosse stati disposti a combattere, talché, nell’ora della grande tempesta, naufragarono entrambi. Il peso della storia aveva schiacciato l’uno e l’altra.
Dell’idea che si propone qui non può non vedersi il rischio che farebbe correre allo storico che la facesse propria e se ne lasciasse ispirare per il suo racconto. Facile sarebbe, in questo caso, cadere nelle tipizzazioni. Facile sarebbe porre, alla radice di ogni evento di cui si narrasse la formazione, un carattere derivante da quel peso schiacciante, e cioè un tipo umano costruito dalla storia in modo che, nell’agire, sua guida costante fosse l’astuzia piuttosto che la ragione, l’arte del disimpegno e non quella del suo contrario. Facile, infine, sarebbe, se ovviamente si fosse in possesso del suo talento, scrivere in seconda edizione il saggio di Francesco De Sanctis su L’uomo del Guicciardini (1869); nel quale, certo, al grande scrittore si faceva torto, non però all’uomo che il critico pretendeva di aver scoperto in quello che emergeva dal libro dei Ricordi. Detto questo, deve riconoscersi che questi sono problemi che si pongono allo storico che voglia mettersi nell’impresa di scrivere sugli anni che Croce considerò nella Storia d’Italia. Sono problemi che a lui spetta di risolvere, e rischi che a lui compete di evitare. Riguardano lui, che dovrebbe essere in grado di scrivere dell’Italia, e non dell’italiano. Non riguardano l’autore di questo scritto, che storico non è, non è mai stato, non ha mai preteso o desiderato di esserlo; e come a quell’impresa non si metterebbe mai, proprio per questo desidererebbe che vi si impegnasse chi disponesse dei mezzi necessari a realizzarla. Invitato a ripensare la Storia d’Italia di Croce, l’autore di queste pagine ha posto il problema della «sterminata» antichità della vicenda italiana, perché, la sua vita essendosi prolungata fino a comprendere in sé questi nostri bui anni, più volte, non senza provare un senso acuto di angoscia, ha dovuto chiedersi quale fosse la ragione per la quale questo Paese, che in un momento di ottimismo Niccolò Machiavelli diceva atto a far rinascere le cose morte, sembri, al contrario, disposto a far morire le cose vive.
W. Maturi, Rileggendo la “Storia d’Italia” di Benedetto Croce, «Cultura moderna», 1952, 6, pp. 11-13.
E. Ragionieri, Rileggendo la “Storia d’Italia” di Benedetto Croce, «Belfagor», 1966, 21, pp. 71-91 (poi in Id., Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Bari 1967, pp. 268 e segg.).
G. Sasso, La “Storia d’Italia” di Benedetto Croce. Cinquant’anni dopo, Napoli 1978.