RINUNZIA (lat. renuntiatio; fr. renonciation; sp. renunciación; ted. Verzicht; ingl. renunciation)
Diritto privato. - Diritto romano. - È l'atto col quale si manifesta la volontà di perdere un diritto e si distingue dall'alienazione, perché, mentre in questa c'è trasmissione in altra persona del diritto che si perde, e l'alienante vuole quella perdita solo in quanto l'acquisti l'altra parte, nella rinunzia, invece, la volontà di perdere il diritto non è subordinata all'acquisto che altri ne faccia. Occorre che il rinunziante abbia chiara la conoscenza del diritto che perde e che abbia la facoltà di disporne. Si considera rinunzia non soltanto la perdita volontaria di un diritto già acquisito, ma anche la dichiarazione di non volere acquistare un diritto il cui acquisto dipende dalla volontà del rinunciante; es., la rinunzia di un'eredità deferita. Non può considerarsi rinunzia quella cosiddetta traslativa, che avviene allo scopo di far passare il diritto che si perde a un'altra persona; questa specie di rinunzia non è altro che alienazione.
Essa, come negozio giuridico, richiede naturalmente tutti i requisiti generali per la validità del negozio giuridico, né vi sono speciali requisiti di forma proprî per la rinunzia in generale. Occorre che la volontà del rinunziante risulti effettivamente esistente, però ciò non basta in tutti i casi.
Così, per rinunziare al diritto di proprietà (derelictio), oltre la volontà del proprietario si richiede l'abbandono effettivo della cosa. Questi due requisiti furono ritenuti sufficienti dai giuristi della scuola sabiniana e da Giustiniano, mentre i proculiani richiedevano ancora l'occupazione da parte di un terzo. Quanto alle servitù, si può rinunciare a esse a favore del proprietario della cosa servente e vi si può rinunciare per atto inter vivos, oppure, trattandosi di servitù prediali, anche mediante atti mortis causa. Nel primo caso, secondo l'antico diritto civile, occorreva la in iure cessio o la mancipatio (per l'usufrutto soltanto la in iure cessio); senza l'osservanza di queste forme la rinuncia poteva dar luogo a un'exceptio doli. Nel diritto nuovo la rinuncia non formale è sufficiente. Si discute se occorra l'accettazione da parte del proprietario della cosa servente. In base a Dig., VII,1, de usu fructu, 64, e Dig., XXXXIII, 16, de vi et de vi arm., 3, 14, pare più probabile l'opinione affermativa. L'accettazione del proprietario è però sicuramente richiesta per la validità di una rinuncia del diritto di superficie e di enfiteusi. Ciò si spiega soprattutto pel fatto che l'enfiteusi e, normalmente, la superficie non sono nell'interesse esclusivo del titolare. Ai diritti reali di garanzia il creditore può rinunciare tanto per atto a causa di morte, quanto per atto inter vivos; anche qui occorre l'accettazione del proprietario della cosa; d'altra parte, questa rinuncia si può fare anche tacitamente. A un diritto di credito si può rinunziare col mutuo dissenso, col pactum de non petendo, con l'acceptilatio (v. rimessione del debito).
Infine, la rinunzia a un'eredità può avvenire tanto espressamente, quanto tacitamente; per la sua validità ricorrono i medesimi requisiti dell'adizione, soltanto il padre e il tutore non possono rinunziare per l'infante e per il pupillo. Essa, a meno che non si tratti di erede istituito cum cretione, fa perdere ogni diritto all'eredità. Chi è istituito cum cretione, nonostante ogni manifestazione di volontà contraria, può accettare sino al termine fissato. Per i pupilli e i minori occorre l'auctoritas e, rispettivamente, il consenso del tutore e del curatore.
Diritto Moderno. - Per il concetto di rinunzia vale quanto si è detto per il diritto romano. In generale si può rinunziare a qualsiasi diritto, a meno che non si tratti di diritti conferiti più per un pubblico interesse che per un interesse meramente privato. Passando in rassegna i più comuni rapporti di diritto privato per cui essa viene in considerazione e cominciando dalla proprietà, si può affermare che, senza dubbio, l'abbandono del possesso di una cosa mobile da parte del proprietario, coll'intenzione di rinunziare alla proprietà, basta ad effettuare la perdita di questo diritto. Ammessa, com'è necessario, la possibilità in via di principio della rinunzia anche di immobili, occorrono per essa requisiti speciali.
Così, secondo le legislazioni a tipo germanico, per le quali i mutamenti nella proprietà fondiaria dipendono dalle annotazioni nei libri fondiarî, perché ci sia rinuncia occorre, oltre la dichiarazione del proprietario, l'iscriziome di essa nel libro fondiario. Ma, ove non vige questo sistema, non si può dire basti a effettuarla il fatto che un fondo non sia stato posseduto per lunghi anni. Dall'art. 1314, n. 3, cod. civ., risulta che la rinuncia alla proprietà degli immobili e di un diritto capace di ipoteca (usufrutto sopra immobili, diritti del concedente e dell'enfiteuta), di servitù prediali, di diritto di uso e di abitazione, deve farsi per iscritto e potrà avere effetto nei riguardi dei terzi solo dopo che sarà stata resa pubblica con la trascrizione.
Non occorre, in generale, per i diritti anzidetti, accettazione. Ciò si desume tra l'altro dallo stesso art. 1314, nn. 1 e 2, ove si fa netta distinzione fra convenzioni traslative e costitutive e semplici atti di rinunzia. Tuttavia, poiché la rinunzia di uno può recare vantaggio ad altri (ad es., quando si rinunzia a un diritto reale, si avvantaggia il proprietario del fondo servente) e beneficia in invitum non conferuntur, potrebbe sorgere qualche dubbio sull'esattezza dell'affermazione che non occorre accettazione. Ma in contrario è da osservare che il proprietario della cosa liberata dai diritti che la limitavano non riceve questo vantaggio direttamente dal rinunziante; quella liberazione è effetto della natura stessa del diritto di proprietà, della elasticità di questo, non di una trasmissione che il rinunziante faccia al proprietario. Quanto all'enfiteusi, tenendo presente ch'essa importa l'obbligo della coltivazione del fondo e del pagamento del canone, e quindi che non è nell'interesse esclusivo del titolare, è molto dubbio se possa prescindersi dall'accettazione. Infatti, si tratterebbe, più che di rinunzia a un diritto, della risoluzione di un rapporto giuridico dal quale derivano anche degli obblighi.
Circa la rinunzia dei diritti reali di garanzia, vale quanto fu detto di sopra, a proposito dei diritti reali. Il vantaggio del proprietario del fondo non deriva, infatti, immediatamente dalla volontà del creditore rinunciante, ma dalla natura stessa del diritto di proprìetà. Anche per la rinuncia all'iscrizione è sufficiente la volontà del creditore, mentre la rinuncia al grado, ove non si limiti alla cancellazione dell'iscrizione, può avvenire soltanto dietro accordo fra il creditore che rinunzia al suo grado e colui che lascia il suo per prendere quello dell'altro. Per i diritti di credito v. rimessione del debito. Passando ai diritti di successione, la rinuncia a questi può avvenire soltanto a successione aperta, prima però dell'accettazione. Per essa basta la dichiarazione del chiamato, salvo la revoca a tenore dell'art. 950 cod. civ. Tale rinuncia, di regola, è formale. Per effetto di essa il rinunciante si considera come se non fosse stato mai chiamato all'eredità (art. 945) e quindi un acquisto si produce a favore di altri chiamati. Se la rinunzia del chiamato arreca pregiudizio ai creditori del rinunziante, questi possono farsi autorizzare giudizialmente ad accettarla in nome e luogo del loro debitore (art. 949). Sono rinunziabili, infine, anche i diritti che derivano dalla invalidità di un negozio giuridico. Però deve trattarsi solo di negozio annullabile. Quando speciali ragioni di diritto non vi ostino, colui che dalla validità del negozio risulterebbe obbligato e ha la possibilità di paralizzarlo, può rinunciare a questo suo diritto: la rinunzia, in tal caso, pur constando di una semplice dichiarazione fatta al creditore, sarà efficace solo se si presenterà come una ratifica, con tutti i requisiti di questa: art. 1309 cod. civ.
Bibl.: Grabe, Die Lehre des Verzichts, Kassel 1843; Bacher, Revision des Verzichtsbegriffes, in Jahrbücher für die Dogmatik, V (1861), p. 222 segg.; Meissel, Zur Lehre von Verzichte, in Grünhuts Zeitschrift, XVIII (1891), p. 665 segg.; XIX (1892), p. i segg.; C. Fadda e E. Bensa, Note al Windscheid, I, Torino 1902, pp. 854-889; B. Windscheid-T. Kipp, Lehrbuch des Pandektenrechts, 9ª ed., Francoforte s. M. 1906, § 69 (I, p. 318); §§ 215 e 216 (I, pp. 1092-1104); § 222, 2 (I, p. 1117); § 223 (I, p. 318); §§ 215 e 216 (I, pp. 1092-1104); § 222, 2 (I, p. 1117); § 223 (I, p. 1122); § 248 (I, p. 1245); § 599 (III, p. 444); H. Walsmann, Der Verzicht, Lipsia 1912; C. Lessona, Essai d'une théorie générale de la renonciation, in Revue trim. du droit civil, 1912, p. 360 segg.; F. Atzeri, Delle rinunzie secondo il cod. civ. it., 2ª ed., Torino 1915; P. Bonfante, Scritti giuridici varii, II, Torino 1918, p. 341 segg.; id., Corso di diritto romano, II, ii, Roma 1928, p. 274 segg.; A. Berger, In tema di derelizione, in Bullettino dell'Istituto di diritto romano, XXXII (1922), p. 131 segg.; S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, I, 2ª ed., Roma 1928, pp. 799, 803, 822; P. F. Girard, Manuel élémentaire de droit romain, 8ª ed., Parigi 1929, p. 933; V. Scialoja, Teoria della proprietà nel diritto romano, II, Roma 1931, p. 298 segg.; S. Romano, Studi sulla derelizione nel diritto romano, Padova 1933.
Diritto pubblico.
I pochi articoli di legge o di regolamento che usano le parole "rinuncia" e "rinunciare" in riferimento al diritto pubblico presuppongono della rinuncia un concetto noto, cioè quello che essa ha nel diritto privato. La rinuncia deve intendersi quindi il volontario abbandono abdicativo per parte di un soggetto di vantaggi giuridici (normalmente di diritti soggettivi pubblici). La traslazione del vantaggio, che può avere luogo con la rinuncia, avviene ex se, ope legis, e non per volontà del rinunciante: la rinuncia è negozio essenzialmente unilaterale.
La principale questione, che qui sorge, è quella relativa alla rinunciabilità dei diritti pubblici, quando nessuna disposizione specifica di legge contempli e regoli espressamente la rinuncia. Fra le due teorie estreme sostenenti, l'una, la rinunciabilità, l'altra, l'irrinunciabilità assoluta dei diritti pubblici, sembra doversi ammettere, anche per la rinuncia ai diritti pubblici, un principio analogo a quello che (secondo una teoria prevalente) vige anche per i diritti privati: cioè, i diritti pubblici sono rinunciabili, a meno che si tratti di casi in cui la rinuncia: 1. o sia logicamente impossibile; 2. o contrasti con l'ordine pubblico o con la morale. È vero però che questi due ordini di ragioni si verificano per i diritti pubblici con maggiore intensità e frequenza che per i diritti privati.
Le rinuncie ai diritti pubblici di cui si può parlare, a proposito dello stato, sono tutte quelle che non si risolvono in attività formalmente legislativa: un abbandono di diritti che avvenga in forma legislativa è mutazione di norma e non rinuncia a diritti. Ora, per quanto riguarda la rinuncia dello stato (e degli altri enti pubblici) nel diritto interno, gli organi dello stato, cui non compete creare diritto, non possono rinunciare a diritti dello stato, salvo che una legge formale non abbia loro concesso tale potere di rinuncia, o tassativamente regolandolo o rimettendolo più o meno alla discrezione del funzionario (grazia o indulto, conciliazione amministrativa di contravvenzioni, ecc.). Nel diritto esterno, invece, gli organi competenti a vincolare internazionalmente lo Stato possono talora far cadere diritti dello stato anche senza bisogno di una legge formale che li autorizzi.
Circa i diritti pubblici spettanti al singolo si ritengono irrinunciabili i cosiddetti diritti di libertà, diritti essenzialmente indisponibili. Nel complesso dei diritti cosiddetti politici (a essere riconosciuti come organi dello stato, a funzionare come organi o a compiere funzioni da organo) sono irrinunciabili tutti quelli che sono collegati al compimento di un dovere, oppure quelli la cui rinuncia urti contro principî d'ordine pubblico. Così, p. es., mentre è inammissibile la rinuncia al diritto elettorale in astratto, sono ammissibili le rinuncie del re al trono; dei deputati, senatori, ministri, alla loro carica; degli impiegati al loro impiego. È ammessa poi (legge 13 giugno 1912) la rinuncia alla cittadinanza, ma solo nei casi e con le forme e con le conseguenze espressamente stabilite dalla legge. E, mentre è inconcepibile la rinuncia a ottenere autorizzazioni, ammissioni, e a valersi dei diritti relativi, il contenuto dell'atto amministrativo è rinunciabile o meno, secondoché per principî generali d'ordine pubblico sia rinunciabile, o meno, il diritto al quale si riferisce. Nelle concessioni bisogna, invece, distinguere le unilaterali dalle bilaterali: queste seconde non sono mai rinunciabili; è necessario che intervenga un nuovo atto bilaterale per scioglierle. Così può rinunciarsi (subordinatamente a una accettazione recettiva) a un diritto onorifico: non però ai diritti allo stesso connessi, conservandolo. Né ammissibile è la rinuncia del singolo al diritto di godere prestazioni da parte della pubblica amministrazione.
Aggiungasi che le rinuncie statuali sono atti amministrativi, le individuali si riducono a negozî giuridici privati; quindi la loro validità dipende dall'osservanza, o meno di quei principî che rendono validi gli atti amministrativi o i negozî giuridici dei privati con l'amministrazione. Le rinuncie operano ex nunc e, una volta ricevute, o accettate, sono irrevocabili.
Bibl.: C. Fadda, Sulla teoria della rinunzia nel diritto pubblico, in Riv. dir. pubblico, I, p. 27 segg.; L. Raggi, Contributo alla dottrina delle rinuncie nel diritto pubblico, Roma 1914, e bibliografia ivi citata.