Rinunciabilità della proprietà e occupazione sine titulo
Nel 2018 la questione della rinunciabilità alla proprietà immobiliare è stata affrontata con soluzioni diverse dal giudice amministrativo (TAR Piemonte n. 368/2018, rilevante per la critica all’orientamento civilista prevalente e condiviso nello studio del Consiglio nazionale del notariato n. 216-2014/C) e da un parere dell’Avvocatura generale dello Stato allegato a una nota del Ministero della giustizia. Nella sentenza del TAR Piemonte la questione si collega a quella, parimenti dibattuta, se il proprietario di un immobile utilizzato sine titulo dalla p.a. possa optare per un risarcimento pari al valore del bene, implicitamente rinunciando alla proprietà: a fronte di pronunce, anche della Cassazione e dell’Adunanza Plenaria, che ammettono tale facoltà incidenter, il TAR Piemonte trae dalla natura abdicativa della rinuncia la conseguenza che essa, pur in ipotesi ammessa, non può dare luogo a risarcimenti pari al valore del bene.
La possibilità di rinuncia alla proprietà immobiliare non è unanimemente condivisa: ammessa dai civilisti (come illustrato nello studio del Consiglio nazionale del notariato n. 216-2014/C e come risulta dalla prassi notarile), viene invece esclusa in alcune pronunce dal giudice amministrativo in cui la questione è trattata nell’ambito di fattispecie di occupazione sine titulo. Nel corso del 2018 il dibattito si è arricchito su entrambi i fronti, rispettivamente con un parere reso dall’Avvocatura generale dello Stato1 (allegato ad una nota del Ministero della giustizia, Ufficio centrale archivi notarili del 15.3.2018) e con un’articolata sentenza del TAR Piemonte2.
Il primo ammette ‒ ma non occupandosi delle fattispecie di occupazione e quindi senza affrontare le problematiche peculiari che esse sollevano ‒ la rinunciabilità immobiliare con atto unilaterale redatto da notaio.
La seconda ‒ in antitesi rispetto al primo – esclude l’ammissibilità della rinuncia con argomenti sia di carattere generale ‒ che conducono a negare cittadinanza nel nostro ordinamento alla rinuncia abdicativa immobiliare ‒, sia specificamente relativi a fattispecie di occupazione sine titulo ‒ negando, anche in ragione della disciplina recata dall’art. 42 bis d.P.R. 8.6.2001, n. 327 (testo unico sulle espropriazioni per pubblica utilità, di seguito t.u. espr.), la possibilità che un privato possa unilateralmente rinunciare alla proprietà acquisendo il diritto ad un risarcimento pari al valore venale del bene a prescindere dall’adozione di un provvedimento di acquisizione.
Entrambi gli atti impongono, quindi, di tornare a riflettere sugli strumenti di tutela a disposizione del proprietario di un’area illegittimamente occupata che non sia più interessato alla relativa restituzione.
Come noto, a seguito di varie censure da parte della C. eur. dir. uomo (a partire dalle sentenze del 30.5.2000)3 e dell’espunzione dal nostro ordinamento dell’occupazione acquisitiva per contrasto con l’art. 1, prot. n. 1), CEDU, nelle ipotesi in cui una p.a. abbia utilizzato per scopi di interesse pubblico un bene immobile privato ‒ occupato sine titulo o senza che il procedimento espropriativo si sia concluso con un valido provvedimento di acquisto del bene – la relativa trasformazione non fa venire meno l’obbligo di restituire al proprietario il bene illegittimamente appreso, trattandosi di mero fatto non in grado di assurgere a titolo d’acquisto e quindi inidoneo al trasferimento della proprietà. Indipendentemente dall’esistenza di una dichiarazione di p.u. (e quindi dalla riconducibilità del caso concreto alle fattispecie pretorie di accessione invertita o occupazione usurpativa pura o spuria), viene in rilievo un illecito di diritto comune permanente, che cessa per effetto della restituzione del bene, di un accordo transattivo o di un provvedimento di acquisizione ex art. 42 bis cit.4
Meno pacifico è se l’illecito possa cessare per effetto della rinuncia da parte del privato al diritto di proprietà che sia implicita nella domanda risarcitoria per equivalente.
A tale ultimo proposito in giurisprudenza si registrano innumerevoli casi in cui il proprietario di un bene illegittimamente espropriato o occupato senza titolo, oltre a chiedere l’annullamento degli atti illegittimi eventualmente adottati, abbia proposto – non una domanda di restituzione del fondo, ancora di sua proprietà ma ‒ un’azione risarcitoria avente a oggetto (oltre al danno da perdita del possesso nel periodo di occupazione anche) il valore del bene sottratto.
Seppure incidentalmente, la Cassazione a sezioni unite nel 20155 ha affermato che il proprietario del bene può scegliere se domandare in giudizio la restituzione o concentrare le proprie pretese sulla sola tutela risarcitoria. L’assunto si basa sul presupposto che la sostituzione dell’azione di restituzione con una domanda risarcitoria esprima un’implicita volontà di rinuncia (abdicativa) alla proprietà del bene; in tale caso la p.a. potrebbe sottrarsi alle più gravose debenze risarcitorie se, prima della conclusione del giudizio, offrisse al privato la restituzione del bene, così dimostrando di non avere interesse ad acquisirne la proprietà.
L’obiter della Corte non ha peraltro sopito il dibattito sulla rinunciabilità della proprietà immobiliare, come la citata sentenza del TAR Piemonte dimostra.
Nelle sentenze amministrative che riconoscono al proprietario del bene illegittimamente occupato l’alternativa tra domanda risarcitoria per un valore equivalente a quello del cespite e domanda restitutoria, la prima è intesa come «atto unilaterale abdicativo del diritto di proprietà»6. La rinuncia identifica il momento in cui cessa il danno da mancato godimento del bene e si configura un danno da illecito extracontrattuale conseguente alla perdita del bene.
In alcune pronunce viene precisato che la rinuncia abdicativa, sottesa alla richiesta risarcitoria, non ha carattere traslativo, per cui da essa non può conseguire quale effetto automatico l’acquisto della proprietà del bene da parte dell’ente occupante7: l’affermazione determina la necessità di chiarire in che modo quest’ultimo diventi proprietario del bene, posto che l’art. 827 c.c. assegna a titolo originario allo Stato – potenzialmente diverso dalla p.a. occupante – la proprietà degli immobili vacanti.
Altre sentenze del g.a. – tra le quali si evidenzia quella citata del TAR Piemonte per ampiezza di argomentazioni ‒ escludono l’ammissibilità della rinuncia abdicativa.
Esse, da un lato, interpretano le disposizioni del c.c. ‒ che tale rinuncia prevedono in ipotesi specifiche ‒ come eccezioni a una regola generale di irrinunciabilità.
Dall’altro, rilevano che, pur in ipotesi ammettendo la rinuncia immobiliare, essa non sarebbe comunque applicabile nelle fattispecie di occupazione sine titulo quale presupposto per conseguire dall’ente occupante un risarcimento pari al valore venale del bene, evidenziando a tale fine che: l’art. 42 bis t.u. espr., nel disciplinare il potere acquisitivo come potere discrezionale, sottende che il proprietario non perde la proprietà ancorché possa aver manifestato di non avervi più interesse; la natura volontaria e abdicativa della rinuncia è inconciliabile con la configurabilità di un illecito in capo al terzo acquirente a titolo originario (lo Stato ex art. 827 c.c.) o all’ente occupante (il cui acquisto può avvenire in base a un autonomo titolo provvedimentale, ex art. 42 bis).
In passato nei casi inquadrati – per difetto della dichiarazione di p.u. – nell’occupazione usurpativa la giurisprudenza della Cassazione (relativa a fattispecie in cui, diversamente dai casi di accessione invertita, permaneva il diritto del proprietario alla restituzione del bene pur trasformato) ammetteva che l’azione risarcitoria potesse essere esperita dal proprietario in sostituzione del rimedio restitutorio «ponendo in essere un meccanismo abdicatorio»8: l’opzione del proprietario per una tutela risarcitoria parametrata al valore venale del bene in luogo della pur possibile tutela restitutoria, era intesa come «implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato», con la precisazione, però, che «da ciò non consegue quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’ente pubblico» occupante (diversamente da quanto si verificava nell’accessione invertita, ricondotta dalla giurisprudenza al fenomeno ablatorio in senso lato ex art. 42 Cost.9). L’acquisizione del bene alla mano pubblica era estranea alla fattispecie: dipendendo da una scelta del proprietario usurpato, era «inquadrabile in una vicenda logicamente e temporalmente successiva alla definitiva trasformazione del fondo, e se può ipotizzarsi un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, esso non ha carattere accessivo (art. 934 c.c.), ma semmai occupatorio in relazione ad un bene che è un novum nella realtà giuridica (in analogia all’art. 942 c.c.), ove non rileva la destinazione a soddisfare una pubblica utilità, giacché qui neppure può porsi questione di bilanciamento di interessi»10.
L’acquisto del bene da parte dell’autorità sarebbe quindi avvenuto per occupazione di una res nullius11.
La Cassazione evidenziava, infatti, che l’invasione e la manipolazione del fondo privato, senza dichiarazione di p.u., polarizza l’analisi del fenomeno sull’attività in sé di colui che si intromette in re aliena, senza che rilevi lo status soggettivo dell’occupante, che pone in essere un «ordinario fatto illecito».
Il parametro di liquidazione era il valore di mercato del bene non sul presupposto di un suo trasferimento, «bensì esclusivamente come perdita di utilità per il proprietario: l’attività manipolatrice del bene appare aver compromesso la realtà materica ed economica del fondo, fino a cancellare ogni possibile utilizzabilità connessa alla qualità del soggetto privato titolare del diritto»12. Il danno per il proprietario sarebbe pertanto consistito nella definitiva inutilizzabilità del bene e nella conseguente perdita13 o nell’«azzeramento di ogni forma di disponibilità del terreno»14.
Espunta dall’ordinamento l’occupazione acquisitiva e prevista la giurisdizione amministrativa esclusiva in materia di espropriazione (attuale art. 133, lett. g, c.p.a.), la questione dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa è stata posta all’attenzione anche del g.a. (la cui giurisdizione è esclusa nei soli casi di occupazione usurpativa pura15).
Se parte della giurisprudenza amministrativa ha fatto applicazione in tutte le ipotesi di occupazione sine titulo del principio elaborato per l’occupazione usurpativa dalla Cassazione, consentendo al ricorrente di optare per la tutela risarcitoria rinunciando alla restituzione, altra ha formulato obiezioni alla possibilità di collegare l’estinzione del diritto di proprietà all’unilaterale volontà del proprietario di abdicare al proprio diritto, dando luogo a quello che viene definito «una sorta di sottosistema giurisprudenziale, che segue regole parzialmente diverse rispetto a quelle invalse per la rinunzia in generale»16.
La dottrina civilistica prevalente ammette la rinunciabilità.
La soluzione affermativa è avallata in uno studio civilistico del 2014 dell’ufficio studi del Consiglio nazionale del notariato17, che ha fatto leva sul carattere disponibile del diritto, sulla previsione nel c.c. di ipotesi, seppure peculiari, di rinunzia, sulla disparità di trattamento che si creerebbe rispetto ai beni mobili e sugli artt. 1350 e 2643 c.c.
Tali argomenti sono stati ribaditi nel 2018 dal citato parere dell’Avvocatura dello Stato, relativo a fattispecie di rinuncia abdicativa di terreni con problemi di dissesto geologico.
La rinuncia è considerata una facoltà insita nella titolarità dei diritti disponibili18, esercizio della libertà negoziale e di facoltà dominicali tutelate anche dalla Costituzione19; non richiede quindi un’espressa previsione in relazione alla categoria del diritto oggetto della rinuncia o della natura del bene20.
Il negozio giuridico unilaterale in cui si traduce ha un effetto diretto ‒ l’estinzione del diritto di proprietà ‒ e un effetto indiretto (derivante da una fattispecie integrata non dall’atto di autonomia, ma dal suo effetto) ‒ l’acquisto a titolo originario della proprietà dell’immobile da parte dello Stato (o delle regioni21) ex art. 827 c.c. L’acquisto, ex lege, non richiede accettazione e, non ammettendo l’ordinamento immobili vacanti, non è rifiutabile.
Più nel dettaglio, l’ammissibilità del negozio è desunta da alcuni referenti normativi, quali, da un lato, gli artt. 1350, n. 3), e 2643, n. 5), c.c. e, dall’altro, le ipotesi tipizzate di rinuncia nel c.c. Gli artt. 1350 e 2643 c.c., nel prescrivere sotto pena di nullità la forma scritta per «gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti» e nel prevedere
la trascrizione di tali atti, presuppongono logicamente l’ammissibilità della rinuncia.
Quanto al secondo gruppo di disposizioni, il riferimento è agli artt. 882, 1070 e 1104 c.c.: gli abbandoni liberatori ivi disciplinati presuppongono, nel loro nucleo essenziale, una dismissione della proprietà (o della quota di proprietà) e, quindi, la rinunciabilità. Le ipotesi disciplinate, lungi dal dimostrare che la rinuncia per essere ammessa deve essere espressamente prevista, si caratterizzano per l’effetto ulteriore ‒ questo sì necessitante di apposita previsione ‒ della liberazione del rinunziante dall’obbligazione propter rem di contribuzione alle spese (per il futuro ma anche) per il passato che si accompagna alla rinuncia. Ulteriore argomento viene tratto dall’art. 1118, co. 2, c.c. che, nel sancire espressamente l’irrinunciabilità da parte del condomino al diritto sulle parti comuni, a contrario dimostra che, salva l’eccezione prevista, il diritto di proprietà è suscettibile di rinuncia.
Le sentenze amministrative che escludono la rinunzia abdicativa della proprietà immobiliare quale istituto di carattere generale ‒ tra cui si segnala la sentenza del TAR Piemonte n. 368/2018 per ampiezza di argomentazioni e per l’esplicita confutazione di quanto incidentalmente affermato dalle Sezioni Unite nel 2015, sent. n. 735 ‒ contestano l’interpretazione dei referenti normativi in precedenza ricordati.
L’ammissibilità generalizzata della rinuncia abdicativa viene considerata in contrasto con la funzione sociale della proprietà privata, riconosciuta e garantita dall’art. 42 Cost. per soddisfare non solo bisogni egoistici, ma anche interessi generali: l’ammissione generalizzata della possibilità di abdicarvi non incoraggerebbe i proprietari a interessarsi diligentemente dei beni22.
A tale primo argomento si potrebbe peraltro replicare che funzione sociale della proprietà e limiti a prerogative e facoltà dominicali ricavabili dagli artt. 2 e 41, co. 2, Cost. trovano adeguata considerazione nella circostanza che la rinuncia, salve le eccezioni tipiche, non produce effetti liberatori per le obbligazioni pregresse, così come il rinunziante continua a rispondere delle obbligazioni derivanti dalle proprie condotte commissive e omissive (come ben evidenziato nel citato parere dell’Avv. gen. St. del 2018).
L’orientamento in parola evidenzia poi che il bene rinunciato diventerebbe una res nullius. Ma il c.c., disciplinando l’occupazione e l’invenzione dei soli beni mobili, avrebbe concepito un sistema atto a evitare l’esistenza di beni immobili privi di proprietario23.
Né, secondo questo orientamento, l’art. 827 c.c. – che, sotto la rubrica Beni immobili vacanti, attribuisce al patrimonio dello Stato gli immobili che non sono di proprietà di alcuno – offre argomenti risolutivi a favore della generalizzata facoltà di rinunziare.
La norma viene infatti interpretata come «norma di chiusura» atta a evitare la sopravvivenza all’entrata in vigore del c.c. di beni immobili privi di proprietario o a dare copertura a fattispecie imprevedibili non riconducibili ad alcuna ipotesi di acquisto della proprietà prevista dal c.c.24, mentre non potrebbe essere interpretata nel senso dell’automatica acquisizione al patrimonio statale anche di immobili resi vacanti in conseguenza di rinuncia abdicativa25.
L’argomento viene peraltro confutato dall’opposto orientamento (cui aderisce l’Avv. gen. St.) secondo cui la disposizione, per ratio e formulazione letterale (oltre che per collocazione), non ha portata meramente transitoria né è relativa a ipotesi estreme26; in particolare, l’art. 827 c.c. viene interpretato evidenziando che la ragione storica della relativa introduzione fu la necessità di chiarire la sorte dei beni rinunciati, non disciplinata dal c.c. del 1865, tramite una clausola di chiusura dello statuto dell’appartenenza proprietaria27.
L’orientamento contrario alla rinunziabilità si basa poi su una rigorosa interpretazione dell’art. 1350 c.c., il cui n. 5) (relativo a «gli atti di rinuncia ai diritti indicati dai numeri precedenti») – analogamente all’art. 2643, n. 5), c.c. ‒ sarebbe riferito ai diritti derivanti dai contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà («la quale rinuncia è cosa ben diversa da quella abdicativa poiché non lascia il bene vacante»28) o ad accordi aventi ad oggetto atti di trasferimento di beni immobili cui le parti rinunziano, con la conseguenza di determinare il riacquisto automatico del diritto in capo al soggetto che prima lo aveva trasferito al rinunziante. Verrebbe in rilievo, quindi, una rinuncia traslativa cui le parti possono ricorrere in esecuzione della concordata risoluzione di un contratto traslativo o in esecuzione di una pattuizione che preveda la cessazione degli effetti di un contratto per il rinunziante. In aggiunta le disposizioni si riferirebbero agli atti di rinuncia traslativa a diritti reali espressamente disciplinati dal c.c.
Di contro, tuttavia, vengono ricordati gli analoghi precedenti storici (artt. 1314 e 1932 c.c. del 1865) che la dottrina ottocentesca aveva valorizzato proprio per fondare la rinunziabilità; il riferimento storico evidenzierebbe che il codificatore, se avesse voluto limitare la portata precettiva dell’odierno art. 1350 c.c. a rinunzie traslative, avrebbe fatto ricorso ad altre formulazioni29.
A sostegno dell’interpretazione restrittiva, il TAR Piemonte evidenzia anche l’incongruenza tra la disciplina della trascrizione – e la relativa funzione tipica ex art. 2644 c.c. – e gli effetti sostanziali conseguenti alla rinuncia abdicativa. L’incongruenza deriva dal principio secondo cui la trascrizione non vale a risolvere i conflitti tra acquirenti a titolo derivativo e a titolo originario (come lo Stato ex art. 827 c.c.): se così è, poiché l’art. 2644 c.c. richiama anche l’art. 2643, n. 5), c.c., da ciò si ricaverebbe che quest’ultimo riguarderebbe solo i casi di rinuncia traslativa.
Tale incongruenza è nota ai civilisti e oggetto di plurime soluzioni. Viene ad esempio evidenziato che, a differenza di quanto accade in tutti i casi di acquisto a titolo originario, l’acquisto da parte dello Stato è conseguenza, sia pure in via non immediata e diretta, di una manifestazione di volontà del soggetto che dismette il diritto; tale manifestazione di volontà il legislatore ha allora ritenuto di dover rendere pubblica agli stessi effetti degli atti traslativi30. Per altri la trascrizione prevista dall’art. 2643 verrebbe eseguita ai soli fini di pubblicità-notizia, analogamente a quanto previsto dall’art. 2651 c.c. per la sentenza che accerta l’usucapione31.
Al di là della soluzione, pare che il c.c. denoti al più un difetto di coordinamento ‒ spiegabile in ragione dell’orientamento che, all’epoca della codificazione, ravvisava nella rinuncia una trasmissione del diritto in favore di chi si avvantaggia della rinuncia stessa ‒ che non può essere di per sé usato per sancire la irrinunciabilità della proprietà.
Il TAR Piemonte confuta poi l’argomento fondato sull’art. 1118 c.c.: il fatto che la disposizione vieti espressamente al condomino di rinunciare al diritto sulle cose comuni viene spiegato per la vigenza nella proprietà comune ‒ ex art. 1104, co. 1, c.c. ‒ del principio opposto per cui ciascun partecipante deve contribuire alle spese della cosa comune «salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto» (principio giustificato in tale contesto in quanto il bene non rimane acefalo stante l’automatico accrescimento del diritto dei comproprietari). Sennonché, è stato di contro replicato che l’eccezionalità dell’art. 1104 c.c. non consiste nell’ammettere la rinuncia, quanto nel prevedere che questa estingua obbligazioni già sorte: «su una struttura comune sia all’abbandono mero che all’abbandono liberatorio, tale da giustificare l’argomento favorevole al primo, si inserirebbero tratti d’eccezionalità in relazione al secondo»32.
Se l’orientamento contrario non riesce a contestare efficacemente i referenti normativi tradizionalmente invocati, più convincenti appaiono gli argomenti specifici relativi alle fattispecie di occupazione sine titulo che il TAR Piemonte nel 2018, innovativamente per il livello di dettaglio, illustra.
Pur ammettendo la rinunziabilità della proprietà immobiliare, la lettura dell’azione risarcitoria alla stregua di negozio unilaterale con effetto abdicativo non spiega l’effetto ulteriore che dovrebbe conseguire all’atto di rinuncia, vale a dire l’acquisto della proprietà in capo al soggetto pubblico che abbia utilizzato sine titulo il bene, e non in capo allo Stato – inteso come Stato persona33 – ex art. 827 c.c. Di tale effetto ulteriore non si sono occupate le Sezioni Unite della Cassazione e l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato intervenute sul tema: le prime, nella già citata sent. n. 735/2015, hanno solo chiarito che l’atto di rinuncia non ha effetti immediatamente traslativi in capo all’occupante; la seconda nel 201634 ha ammesso la rinuncia abdicativa incidentalmente, senza vagliare le peculiari problematiche che essa solleva quando si inserisca in una vicenda di occupazione sine titulo: la rinuncia è menzionata quale
evento che può porre fine all’illecito permanente (si rinuncia al diritto e dunque cessa la lesione del diritto stesso), ma non come vicenda giuridica che attribuisca direttamente il bene all’ente occupante a fronte del versamento del controvalore35.
La trasmissione della proprietà alla p.a. occupante dovrebbe essere fenomeno traslativo intermediato da un titolo giudiziale36, del quale, però, non vi è traccia nell’ordinamento se non con riferimento agli obblighi di contrarre (art. 2932 c.c.). In tale filone si inserisce l’articolata ricostruzione – che la stessa sentenza definisce «ipotizzabile, ma non incontrovertibile» ‒ del C.g.a. Sicilia37 per cui: a fronte di un proprietario privato che non possiede e che, anziché agire per la restituzione, agisce per conseguire il controvalore del bene (così implicitamente abdicandovi), nonché a fronte di una p.a. che, neppure per effetto della domanda giudiziale, offra la restituzione del bene (accettando così implicitamente la rinunzia in proprio favore della proprietà sul bene), si realizzerebbe una fattispecie traslativa atipica che ricompone la cesura tra possesso e proprietà; in assenza di fondamento normativo, viene invocato «una sorta di principio sanante del ristoro patrimoniale, teleologicamente sotteso ed implicito nell’art. 42-bis»: le tacite dichiarazioni di volontà delle parti (una abdicativa, l’altra acquisitiva) costituirebbero il presupposto sostanziale (titolo) del passaggio della proprietà; il quale, però, si verificherebbe soltanto per effetto della sentenza, avente natura costitutiva.
Altre sentenze del Consiglio di Stato hanno ipotizzato che alla rinuncia sia implicitamente apposta la condizione risolutiva della mancata liquidazione del danno: il provvedimento con cui la p.a. procede all’effettiva liquidazione (identificante il mancato avveramento della condizione) costituirebbe atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, co.1, n. 5), e 2645 c.c., anche al fine di conseguire gli effetti dell’acquisizione del diritto di proprietà in capo alla p.a. a far data dal negozio unilaterale di rinuncia38.
In tal modo, peraltro, non è comunque spiegato come l’acquisto del bene oggetto di rinunzia possa avvenire in capo alla p.a. che liquida il danno e non già in capo allo Stato.
Si tratta di perplessità che invero erano state formulate anche da una giurisprudenza minoritaria della Cassazione occupatasi dell’occupazione usurpativa, la quale aveva rilevato non solo che nelle varie ipotesi, normativamente previste, di abbandono del proprio diritto (artt. 550, 1070 e 1104 c.c.) la rinunzia del proprietario ha carattere di gratuità e non si traduce in
uno strumento per mutare una componente del patrimonio sostituendo al bene immobile il controvalore monetario, ma anche che «l’abbandono della proprietà del bene immobile, proprio perché di per sé incapace di approdare ad effetti traslativi nei confronti di terzi determinati, provocherebbe quelle vacuità di assetto proprietario dante luogo, secondo la previsione di cui all’art. 827 c.c., alla attribuzione del bene stesso al patrimonio dello Stato (e non dell’ente che lo ha occupato, se diverso dallo Stato)»39.
È stata poi evidenziata, quanto ai presupposti della responsabilità ex art. 2043 c.c., la non qualificabilità come «ingiusto» del danno, dal momento che la perdita della proprietà origina da una scelta volontaria del proprietario.
Se quest’ultimo argomento non pare dirimente nelle ipotesi in cui, alla luce della radicale trasformazione, l’illecito abbia azzerato – per il proprietario ‒ le utilità del bene, di fatto irrecuperabile, al di fuori di tali ipotesi la rinuncia (con natura abdicativa) è negozio unilaterale, con effetto dismissivo automatico, che non può far sorgere un illecito in capo al terzo acquirente a titolo originario (lo Stato ex art. 827 c.c.) e, tanto meno, a carico dell’ente occupante, il cui acquisto può semmai avvenire in base ad un autonomo titolo provvedimentale (art. 42 bis)40.
Il TAR Piemonte nella sent. n. 368/2018 ha quindi evidenziato come, dal momento che la p.a. occupante non diventa proprietaria del bene, non si comprende perché debba corrispondere un danno commisurato all’intero valore del bene, che non è stato distrutto.
A tale ultimo proposito, la giurisprudenza ha chiarito del resto che la restituzione del bene, nonostante la realizzazione dell’opera pubblica, non può essere preclusa da considerazioni fondate sull’eccessiva onerosità (art. 2058 c.c.) o sul pregiudizio derivante all’economia nazionale dalla distruzione della cosa (art. 2933 c.c.)41. Quanto all’art. 2058 c.c., la restituzione del bene costituisce il contenuto di una tutela non risarcitoria (o riparatoria) – quale è quella invocabile ex art. 2058 c.c. ‒, ma ripristinatoria. Quanto all’art. 2933 c.c., relativo all’Esecuzione forzata degli obblighi di non fare, esso non sarebbe in grado di paralizzare l’azione restitutoria, ma semmai la riduzione in pristino stato delle aree42, fermo restando che «il limite di cui all’art. 2933, co. 2, c.c. ha carattere eccezionale e trova applicazione nei riguardi della demolizione delle fonti di produzione e di distribuzione della ricchezza»43.
La rinuncia implicita è poi considerata dal TAR Piemonte in contrasto con il tenore dell’art. 42 bis t.u. espr., che riserva l’acquisizione a una decisione discrezionale della p.a.44 e non contiene una disciplina derogatoria o specifica per il caso in cui il privato abbia manifestato, in sede giudiziale o stragiudiziale, la volontà di rinunciare alla proprietà45. La disciplina recata dall’art. 42 bis sottende che il provvedimento di acquisizione venga emesso nei confronti del privato proprietario: deve essere specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati; va notificato al proprietario e comporta il passaggio di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute; viene trascritto nei confronti del proprietario46.
A ben vedere, poi, nella specie la domanda giudiziale volta al risarcimento del danno pari al controvalore della res comporterebbe una rinuncia condizionata alla pronuncia del giudice che liquidi il risarcimento del danno. Ma l’evento sarebbe giuridicamente precluso, poiché, per il principio della divisione dei poteri, solo la p.a. ‒ non il giudice ‒ può valutare «gli interessi in conflitto» e decidere se restituire il bene o acquisirlo47.
Come già evidenziato, nel 2018 l’Avvocatura generale dello Stato non nutre dubbi sulla rinunziabilità della proprietà, tanto da occuparsi piuttosto di individuare gli strumenti a disposizione dello Stato per invalidare rinunce a proprietà “fastidiose” e foriere di possibili responsabilità. occupandosi specificamente della rinuncia a un bene immobile a rischio di dissesto idrogeologico, il citato parere ‒ affermato il contenuto patrimoniale della rinuncia (art. 1324 c.c.) e concepita la causa del negozio come funzione economico individuale dello specifico atto48 di cui va vagliata la meritevolezza49 ex art. 1322, co. 2, c.c. ‒ conclude per la nullità ex art. 1343 c.c. della rinuncia che sia posta in essere al solo fine egoistico di trasferire all’erario ex art. 827 c.c. – e quindi alla collettività – i costi necessari per le opere di consolidamento, di manutenzione o di demolizione dell’immobile e la responsabilità per eventuali danni (civile ex artt. 2051 e 2053 c.c. e penale ex art. 449 c.p.). Ulteriore ragione di nullità è ravvisata nella illiceità dei motivi ex art. 1345 c.c., ipotizzabile in caso di atto unilaterale quando il motivo illecito ‒ oggettivamente riconoscibile dall’atto o ragionevolmente desumibile da elementi estrinseci e obiettivi ‒ sia la ragione determinante.
Astraendo da tali specifiche ipotesi ‒ che peraltro comportano la necessità di esperire l’azione giudiziale di nullità ex artt. 1421 e 1422 c.c. al fine di rimuovere dal mondo giuridico l’effetto acquisitivo in capo all’erario ex art. 827 c.c. ‒, la rinuncia è considerata ammissibile.
Va peraltro sottolineato che il parere si riferisce al caso di rinuncia con atto unilaterale redatto da notaio e, quindi, non risolve le ulteriori questioni della rinunciabilità in diverse forme.
In alcune sentenze amministrative relative a occupazioni sine titulo la rinuncia implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente è infatti considerata in contrasto con l’esigenza di tutela della proprietà50 che imporrebbe che l’effetto traslativo consegua a una volontà espressa e inequivoca del proprietario, da tradursi in strumenti negoziali formali e tipici (artt. 1350, n. 5, e 2643, n. 5, c.c.), escludendo la configurabilità di una rinuncia abdicativa per fatti concludenti desunta dalla presentazione di un atto processuale (quale la domanda risarcitoria comprensiva dell’intero valore del bene). Si tratta peraltro di un argomento non particolarmente forte, essendo stato di contro osservato come non si possa trarre dall’imposizione della forma scritta anche l’imposizione della forma espressa51.
Anche ammettendo in termini generali la rinunciabilità del diritto di proprietà immobiliare, si è visto come nelle fattispecie di occupazione sine titulo il quadro si complichi per la necessità di spiegare la sorte del diritto di proprietà rinunciato e come l’atto unilaterale di rinuncia possa determinare l’acquisto della proprietà in capo all’ente occupante, previo pagamento di un risarcimento del danno parametrato al valore del bene perso – però ‒ per volontà del danneggiato.
Corollario della tesi che nega la rinunziabilità in caso di occupazione sine titulo è che non può darsi luogo a risarcimenti connessi alla perdita della proprietà, trattandosi di evento inesistente52, con conseguente rigetto nel merito della relativa domanda53.
Altra giurisprudenza ha in passato accolto la domanda risarcitoria, ma rinviando gli effetti all’emissione del provvedimento acquisitivo ex art. 42 bis, di cui in sentenza era sancito l’obbligo di adozione ravvisando nel comportamento della p.a. una volontà contraria alla restituzione del bene54. Sennonché, tale soluzione si scontra con l’impossibilità (ex art. 34, co. 2, c.p.a.) di ordinare un facere alla p.a., tenuto conto che, come poc’anzi ricordato, l’art. 42 bis affida all’amministrazione la scelta di determinarsi in tal senso previa valutazione dei contrapposti interessi55.
Per tale motivo, in altre sentenze56 il g.a., a fronte di un petitum rappresentato dalla domanda di risarcimento del danno commisurato al valore venale del bene e/o di restitutio, si è ritenuto investito del potere di condannare la p.a. ad avviare il procedimento acquisitivo (ferma la discrezionale valutazione degli interessi in conflitto), valorizzando il potere di condanna atipica di cui all’art. 34 c.p.a.: rigettata la domanda di risarcimento del danno per equivalente connesso alla perdita della proprietà e aderendo alla tesi (avvalorata da C. cost. n. 71/2015 e da Cons. St., A.P. n. 2/2016) che ritiene inibito l’esercizio del potere di acquisire dopo un giudicato restitutorio, il Consiglio di Stato ha ritenuto tale soluzione la più idonea per non frustrare gli obiettivi perseguiti dal legislatore con l’art. 42 bis.
Se è vero che i dubbi sulla rinunciabilità della proprietà del bene unitamente alla mancanza di un limite temporale per l’esercizio del potere di acquisizione generano una situazione di incertezza e imprevedibilità (determinando un’esposizione sine die del diritto al sacrificio espropriativo), la giurisprudenza ha però riconosciuto l’obbligo della p.a. di procedere ‒ ex art. 2 l. 7.8.1990, n. 241 ‒ a fronte di una domanda del proprietario atta a sollecitare il potere di acquisizione57; la mancata evasione della domanda consente, quindi, la proposizione dell’azione avverso il silenzio ex artt. 31 e 117 c.p.a.
Pertanto, senza necessità di complesse costruzioni sulla rinuncia, il privato può agire con l’azione avverso il silenzio per ottenere la condanna della p.a. a decidere se acquisire il bene («fermo restando che una scelta manifestamente irrazionale di non emanare il provvedimento di acquisizione, comportando l’obbligo di demolire le opere realizzate con denaro della collettività, implicherebbe la conseguente responsabilità devoluta alla cognizione della Corte dei Conti»58).
L’azione di condanna è esperibile, oltre che nell’ambito del rito sul silenzio o nell’ordinario giudizio di legittimità avente ad oggetto il procedimento ablatorio, anche in via autonoma ex art. 30, co. 1, c.p.a. stante la giurisdizione esclusiva (art. 133, lett. g, c.p.a.) (come nelle fattispecie di mancata adozione del decreto di esproprio59).
Neppure superiori esigenze di effettività della tutela potrebbero dunque essere invocate al fine di riconoscere al proprietario del bene la possibilità di optare per la tutela risarcitoria per equivalente in luogo di quella restitutoria.
1 Avv. gen. St., nota 14.3.2018, n. 137950.
2 TAR Piemonte, 28.3.2018, n. 368, in giustizia-amministrativa.it, 2018.
3 C. eur. dir. uomo, 30.5.2000, Belvedere Alberghiera S.r.l. c. Italia, n. 31524/96, e Id., Carbonara e Ventura c. Italia, n. 24638/94.
4 Cons. St., A.P., 9.2.2016, n. 2.
5 Cass., S.U., 19.1.2015, n. 735.
6 TAR Sardegna, Cagliari, 2.3.2018, n. 170.
7 Cons. St., 30.6.2017, n. 3234.
8 Cass., 18.2.2000, n. 1814; Cass., S.U., 4.3.1997, n. 1907.
9 C. cost., 23.5.1995, n. 188.
10 Cass. n. 1814/2000, cit.
11 Cass., S.U., 19.12.2007, n. 26732 richiamata da Cons. St., 30.11.2010, n. 8363.
12 Cass. n. 1814/2000, cit.
13 Cass., S.U. n. 26732/2007, cit.
14 Cass., 23.8.2012, n. 14609.
15 Cass., S.U., 16.4.2018, n. 9334.
16 Bona, C., L’abbandono mero degli immobili, Napoli, 2017, 85.
17 Bellinvia, M., La rinunzia alla proprietà ed ai diritti reali di godimento, Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 216-2014/C.
18 Sicchiero, G., Rinuncia, in Dig. civ., XVII, Torino, 1998, 653; Comporti, M., Abbandono, in Enc. giur. Treccani, I, Roma, 1988, 2 ss.
19 Trib. Rovereto, ord., 22.5.2015, in Foro it., 2015, I, 2833.
20 C.g.a. Sicilia, 25.5.2009, n. 486, in giustizia-amministrativa.it, 2009.
21 Così in Sardegna (art. 14 st.), Sicilia (art. 34 st.) e Trentino A.A. (art. 67 st.).
22 TAR Piemonte n. 368/2018, cit.
23 TAR Puglia, bari, 22.9.2008, n. 2176, in dirittoegiustizia.it, 2008.
24 Come l’emersione di un’isola in acque territoriali: TAR Piemonte n. 368/2018, cit.
25 TAR Puglia n. 2176/2008, cit.
26 C.g.a. Sicilia n. 486/2009, cit.
27 Bona, C., L’abbandono mero degli immobili, loc. cit.
28 TAR Puglia n. 2176/2008, cit.
29 Bellinvia, M., La rinunzia alla proprietà ed ai diritti reali di godimento, cit., 86.
30 Gazzoni, F., La trascrizione degli atti e delle sentenze, in Gabrielli, E.-Gazzoni, F., Trattato della trascrizione, Torino, 2012, I, 257.
31 Galeardi, D.M.S.-Pappalardo, G., Riflessioni in tema di rinuncia alla proprietà, in federnotizie.it, 2015.
32 Bellinvia, M., La rinunzia alla proprietà ed ai diritti reali di godimento, cit., 87.
33 Cass., 11.3.1995, n. 2862.
34 Cons. St., A.P. n. 2/2016, cit.
35 TAR Calabria, Reggio Calabria, 12.5.2017, n. 438, in quotidianogiuridico.it, 2017.
36 TAR Calabria, Reggio Calabria, 27.7.2015, n. 802.
37 C.g.a. Sicilia, ord., 21.2.2013, n. 265, in Urb. app., 2013, 1281 ss.
38 Cons. St., 7.11.2016, n. 4636; Id. n. 3234/2017, cit.
39 Cass., S.U., 10.6.1988, n. 3940.
40 TAR Calabria n. 438/2017, cit.
41 TAR Puglia, bari, 4.1.2016, n. 1.
42 TAR Lombardia, Milano, 7.1.2015, n. 7, in dirittoamministrazioni.it, 2015; Cass. n. 14609/2012, cit.
43 Cons. St., 3.5.2005, n. 2095; Cons. St., A.P., 29.4.2005, n. 2; Cons. St., 13.6.2011, n. 3561.
44 Cons. St., 28.1.2011, n. 676; TAR Calabria, Reggio Calabria, 26.3.2015, n. 310.
45 TAR Lazio, 12.6.2016, n. 6548.
46 TAR Piemonte n. 368/2018, cit.
47 TAR Lazio n. 6548/2016, cit.
48 Cfr. bellinvia, M., La rinunzia alla proprietà ed ai diritti reali di godimento, cit., 7.
49 Macioce, F., Rinuncia (dir. priv.), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 931 ss.
50 TAR Lombardia, 4.12.2012, n. 2910.
51 Bona, C., L’abbandono mero degli immobili, cit., 124; bona, C.-Pardolesi, R., Espropriazione fallita, trasformazione dell’immobile e rinunzia abdicativa del privato: un intreccio problematico, in Foro it., 2017, III, 60.
52 Cons. St., 16.3.2012, n. 1514; Cons. St., 28.12.2015, n. 5841.
53 TAR Puglia n. 2176/2008, cit.
54 TAR Sicilia, Catania, 19.8.2011, n. 2102, in dirittoegiustizia.it, 2011.
55 TAR Calabria, Reggio Calabria, 17.6.2014, n. 265.
56 Cons. St. n. 1514/2012, cit.
57 Cons. St., 27.4.2015, n. 2126; C. cost., 30.4.2015, n. 71.
58 TAR Lazio n. 6548/2016, cit.
59 TAR Lazio, Latina, 7.2.2018, n. 54.