Abstract
Vengono esaminate le figure dell’adeguamento contrattuale e della rinegoziazione di fonte legale e convenzionale con riguardo ai presupposti, al contenuto e agli effetti, quali strumenti di conservazione del contratto nel quadro della disciplina sull’eccessiva onerosità sopravvenuta dettata nell’art. 1467 c.c., dando atto del dibattito sull’ammissibilità di un obbligo legale di rinegoziazione.
Adeguamento e rinegoziazione sono rimedi conservativi del contratto che intervengono dopo la sua conclusione per redistribuire il rischio contrattuale quando, nei contratti a lungo termine, si verifica una situazione di squilibrio originata da circostanze sopravvenute che rende più onerosa l’esecuzione della prestazione o quando le parti, per correggere il regime originario e renderlo più equilibrato, fissano nel piano negoziale criteri di modifica di alcuni aspetti del suo contenuto.
Nei contratti che realizzano operazioni di lunga durata, caratterizzate spesso da prestazioni finanziariamente impegnative, la risoluzione del contratto può rappresentare una soluzione inadeguata perché favorisce il dissolversi di un rapporto che potrebbe invece proseguire se fosse modificato in qualche sua parte.
Trattandosi di fattispecie che descrivono fenomeni di carattere economico, non codificate all’interno del sistema di diritto privato, non si trova nella trama legislativa una definizione e i termini adeguamento - revisione – rinegoziazione sono utilizzati spesso in modo indifferenziato.
Nell’uso dottrinale e giurisprudenziale, la rinegoziazione corrisponde all’attività delle parti che riconsiderano il regolamento contrattuale per modificarne il contenuto attraverso lo svolgimento di nuove trattative, mentre revisione e adeguamento sono considerati strumenti che denotano l’operazione in cui occorre conciliare la vincolatività di un atto con l’adattamento delle sue conseguenze alle situazioni della realtà mutate nel corso dell’esecuzione e sfuggite alla previsione delle parti, soprattutto nei rapporti ad esecuzione prolungata, ove l’esecuzione della prestazione non è istantanea e la realizzazione del risultato dipende da un’attività negoziale articolata, fondata sulla partecipazione collaborativa delle parti. La revisione è considerata anche come l’effetto della rinegoziazione.
La revisione contrattuale assolve a funzioni conservative attraverso la riconduzione ad equità del regolamento contrattuale che abbia subito uno squilibrio tra le prestazioni delle parti a seguito di sopravvenienze.
Le trattazioni meno recenti hanno dedicato particolare attenzione alla revisione nell’ambito degli studi sulla clausola rebus sic stantibus, sull’eccessiva onerosità sopravvenuta e sulla reductio ad aequitatem dei contratti eccessivamente onerosi (Osti, G., Clausola rebus sic stantibus, in N.ss.D.I., III, Torino, 1957, 356; Osilia, E., La sopravvenienza contrattuale, in Riv. dir. comm., 1924, I, 297; ANndreoli, M., Revisione delle dottrine sulla sopravvenienza contrattuale, in Riv. dir. civ., 1938, 309; Scalfi, G., Corrispettività e alea nei contratti, Milano, 1960), ma da alcuni anni a questa parte, la tematica delle vicende modificative del rapporto intervenute dopo la conclusione del contratto è stata oggetto di teorizzazioni prevalentemente sotto il profilo dell’adeguamento e della rinegoziazione, nel più generale settore dei long-term contracts, destinati per loro natura a svolgersi nel tempo, come l’appalto, la somministrazione, la fornitura, ma anche il mandato, i contratti d’impresa, i contratti di servizi (Macario, F., Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996; Gallo, P., Revisione e rinegoziazione del contratto, in Dig. civ., Aggiornamento, Torino, 2011, 807).
Ambedue gli approcci scientifici sono orientati a verificare la percorribilità di soluzioni che consentano, nelle situazioni di conflitto originate da mutamenti delle circostanze, anziché la risoluzione, la prosecuzione del rapporto attraverso l’adeguamento e la rinegoziazione.
Mentre la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità e la riconduzione ad equità hanno ricevuto considerazione nell’art. 1467 c.c., il rimedio revisionale non ha trovato espressione all’interno del codice civile nella parte dedicata alla disciplina generale del contratto, ma è richiamato nell’art. 1664 c.c. sull’appalto, il cui tenore si accorda con il principio ispiratore e può, inoltre, desumersi da altre norme rivelatrici della renitenza del legislatore verso la scelta di rimedi risolutori nei contratti di durata, quali l’art. 1668, gli artt. 1490 e 1574 e l’art. 1455, sull’importanza dell’inadempimento. La revisione del contratto è una figura presente nell’impianto del codice anche in situazioni in cui il contratto presenta uno squilibrio già nella sua formazione, come nella disciplina del dolo incidente (art. 1440), in alcune norme sulla vendita destinate alla funzione di conservare il contratto e garantire la corrispondenza tra le prestazioni (ad es. artt. 1480, 1492, 1537, 1538) e nella rescissione (art. 1450).
Dal momento che revisione, adeguamento e rinegoziazione del contratto garantiscono la flessibilità delle relazioni negoziali perseguendo la finalità di evitare l’applicazione di rimedi risolutori, gli studi della dottrina sono rivolti anche ad accertare se possa ammettersi, sulla scorta delle norme dell’ordinamento che attribuiscono rilievo alle circostanze sopravvenute e compatibilmente con la regola pacta sunt servanda espressa nell’art.1372 c.c., un principio generale che, ancorché con denominazioni diverse, sia riconducibile ad una logica unitaria di intervento nella fase di esecuzione del programma contrattuale, in presenza di eventi che ne alterano l’equilibrio, azionabile davanti al giudice. Ne sarebbero emblematiche le disposizioni che attribuiscono valore alla sopravvenienza nella determinazione del corrispettivo, come gli artt. 106 e 165, 175 del d.lgs. 18.4.2016, n. 50 sugli appalti pubblici, l’art. 1623 c.c. sull’affitto, gli artt.1897-1898 c.c. sul contratto di assicurazione, l’art. 3, co. 5, della l. 18.6.1998, n. 192 sulla subfornitura, l’art. 1. co. 26, della l. 4.8.2017, n. 124 (l. annuale per il mercato e la concorrenza) che ha integrato l’art. 3, co. 5, lett. e) d. l. 13.8.2011, n. 138, convertito in l. 14.9.2011, n. 148, prevedendo la rinegoziazione (da intendersi qui come adeguamento) dei premi assicurativi che i professionisti nell’esercizio della loro attività devono corrispondere in virtù dell’obbligo ex lege di stipula di un’assicurazione per i rischi professionali.
Altrettanto è a dirsi per altre leggi, nelle quali, peraltro, è adottata una terminologia promiscua e la parola rinegoziazione è usata con il diverso significato di adeguamento o revisione: così, ad esempio, da ultimo, nella legge finanziaria per il 2019 (l. 30.12.2018, n. 145, art. 1, co. 961-964; nella precedente l. 11.12.2016, n. 232, art.1, co. 441, ma già anche nell’art. 7, l. 2.4.2007, n. 40, cd. legge Bersani; nell’art. 29, l. 13.5.1999, n. 133, in tema di mutui agevolati, ecc.) e nelle locazioni della P.A. (art. 27, co. 10, l. 16.12.2016, n. 293, in materia di sicurezza dello Stato, che prevede per gli enti la rinegoziazione del canone ai fini di adeguamento ai prezzi del mercato immobiliare).
Sul piano generale, la disciplina delle sopravvenienze contenuta nell’art. 1467 c.c. che disciplina l’eccessiva onerosità della prestazione derivante da eventi non prevedibili e straordinari che si collochino al di fuori dell’alea normale del contratto, attribuisce alla parte onerata il diritto di chiedere la risoluzione, ma al tempo stesso, contemplando nel co. 3 la riconduzione ad equità, rappresenta la risposta normativa alle istanze della dottrina di non vedere frustrato l’impegno economico delle parti (e le loro aspettative) dalla caducazione degli effetti, evitabile attraverso una diversa allocazione del rischio contrattuale. Il rimedio appare, tuttavia, insufficiente a garantire la realizzazione del programma contrattuale nelle situazioni in cui l’alterazione dell’equilibrio tra le prestazioni non possiede i requisiti richiesti, come nel caso della prestazione non eccessivamente onerosa oppure quando l’offerta di riduzione ad equità del contraente avvantaggiato dalla sopravvenienza sia preclusa dalla mancata iniziativa della parte svantaggiata.
Una posizione di rilievo nel quadro della modificazione del contratto a scopi conservativi spetta nella disciplina dei singoli contratti all’art. 1664 c.c. sull’appalto, considerato un esempio codificato della rivedibilità del corrispettivo, la cui ratio è da alcuni generalizzata per estendere il campo di applicazione della revisione del contratto ad altri contratti aventi struttura simile (Barcellona, M., Appunti a proposito di obbligo di rinegoziazione e gestione delle sopravvenienze, in Europa dir. priv., 2009, 467 ss. spec. 491). In un quadro più generale, il ricorso alle tecniche convenzionali offre una soluzione ai “contratti difettosi” estrapolando dal sistema una regola che permette, in altro modo, di evitare le conseguenze del venir meno del vincolo, nel rispetto delle norme vigenti e dei principi generali dell’ordinamento.
La ricerca del fondamento di un principio di modificabilità del contratto tramite l’adeguamento e la rinegoziazione trae forza dalla teoria dei Relational Contracts elaborata dalla dottrina americana, imperniata sull’estensione temporale del contratto a lungo termine, basato sul carattere continuativo dei rapporti tra le parti (Campbell, D., - Mulcahy L., - Wheeler, S., Changing Concepts of Contract – Essays in Honour of Ian Macneil, Basingstoke, 2013).
La diffusione della fattispecie dell’adeguamento sul terreno della prassi contrattuale internazionale e le recenti riforme del sistema tedesco e francese, con l’accoglimento dell’obbligo di rinegoziazione, recano testimonianza del favore verso rimedi correttivi ispirati a principi di conservazione del contratto e di giustizia contrattuale.
Il § 313 del BGB, infatti, introdotto con la riforma del diritto delle obbligazioni del 2002, equipara l’errore sulle circostanze del contratto al mutamento durante l’esecuzione, accogliendo le teorie che assegnano all’adeguamento del contratto un ruolo fondamentale nella regolamentazione dei rapporti obbligatori sorti dal contratto (Patti, S., Diritto privato e codificazioni europee, Milano, 2007, 158).
Il nuovo art. 1195 del Code civil francese, come concepito nell’Ordonnance 2016-131 del 10.2.2016 che ha riformato il diritto dei contratti, introduce il concetto di imprévision che svolge un ruolo preventivo nella gestione del rischio, rappresentando soprattutto un fattore di impulso per le parti alla rinegoziazione. La norma la stabilisce nel primo alinéa che se un cambio di circostanze imprevedibile rende eccessivamente onerosa la prestazione per una parte che non aveva accettato il rischio, questa stessa può chiedere una rinegoziazione. Nel secondo alinéa dispone che in caso di rifiuto o di fallimento, le parti possono chiedere di comune accordo al giudice, in alternativa alla risoluzione, di procedere all’adeguamento e nel caso in cui l’accordo non si raggiunga è previsto che venga rimesso al giudice il potere di decidere se il contratto debba risolversi o continuare a diverse condizioni. La norma è ispirata ad una ratio conciliativa finalizzata a indirizzare le parti a trovare un accordo attraverso una serie di passaggi che tuttavia, a prima vista, appaiono appesantire il meccanismo introdotto.
La preferenza del legislatore per mantenimento in vita del contratto si ritrova in alcune norme sui contratti tipici, come l’art. 1560 c.c. sulla somministrazione, la cui l’entità può essere stabilita nel corso dell’esecuzione, l’art. 1561 c.c. che individua i criteri sulla base dei quali può essere stabilito il corrispettivo, e l’art. 1938 sulla fideiussione omnibus, in cui si ammette la determinazione dell’oggetto della prestazione per relationem (oltre ai casi regolati dalle disposizioni in precedenza citate che riguardano soprattutto le circostanze sopravvenute).
Tra le altre fonti di adeguamento previste dalla legge sono ricomprese, con funzione integrativa, la clausola generale della buona fede di cui agli artt. 1366 e 1375 c.c. e l’equità quale mezzo di integrazione del contratto prevista nell’art. 1374 c.c.
Il mantenimento del contratto sulla base di condizioni più idonee di quelle che sono venute a crearsi con la sopravvenienza può realizzarsi anche sul piano convenzionale con l’inserimento nel piano contrattuale di clausole di adeguamento che stabiliscono i criteri di modifica delle condizioni contrattuali, operando automaticamente o su iniziativa della parte.
A tal fine occorre distinguere le clausole che, a seguito del verificarsi di eventi produttivi di disequilibrio contrattuale (clausole di adeguamento), consentono di operare un adeguamento automatico del contratto da quelle che invece prevedono che le parti diano avvio a nuove trattative per modificare il regolamento originario (clausole di rinegoziazione).
Le clausole di adeguamento che stabiliscono in modo dettagliato oggetto, modalità e corrispettivo, in base ad uno schema contrattuale “chiuso”, dettano le condizioni e i parametri per ridelineare la prestazione oggetto del contratto (ad es. corrispettivo, durata), nella fase successiva alla conclusione, non richiedono un’attività decisionale ulteriore, non alterano, né innovano il contenuto del contratto e possono stabilire convenzionalmente uno schema più elastico ove l’entità della prestazione è modulata in funzione dei bisogni di una delle parti o all’effettiva attività prestata (come accade, ad esempio, nei contratti di somministrazione per espressa disposizione di legge). Queste clausole, adatte per la loro caratteristica meramente ricognitiva ad essere inquadrate indifferentemente nella revisione o nell’adeguamento, si discostano dalle clausole di rinegoziazione perché non impongono alle parti l’obbligo di intraprendere nuove trattative, ma stabiliscono regole applicabili al verificarsi dei presupposti descritti nel programma contrattuale.
Possono definirsi "di adeguamento" le clausole che utilizzano schemi legislativi preordinati a salvaguardare la flessibilità del contratto, sempre in presenza di cautele e limiti a garanzia dell’atto di autonomia. Vi rientrano le clausole che rinviano la precisa determinazione dell’oggetto ad un momento successivo alla sua conclusione nella fideiussione per debiti futuri, le clausole di adeguamento automatico (clausole di indicizzazione, clausole monetarie) con cui si adattano le prestazioni di natura pecuniaria al mutato potere di acquisto della moneta, l’indicizzazione convenzionale dei canoni delle locazioni non abitative, la rideterminazione automatica di elementi del contratto come la durata e la consegna nell’appalto privato e pubblico, il ius variandi con cui si introducono le modifiche che si ritengono convenienti, le clausole tratte dal commercio internazionale, come le clausole di hardship, destinate a preservare l’equilibrio contrattuale senza aspetti di automatismo e caratterizzate da un meccanismo procedimentale più articolato che può prevedere la sospensione dell’esecuzione con l’obbligo per le parti di concordare l’adeguamento delle condizioni.
Le tecniche di adeguamento possono fondarsi su un fattore di carattere oggettivo applicabile automaticamente, come un dato della realtà (un valore, una quantità) o essere ancorate ad altri criteri, come la determinazione ad opera di un terzo soggetto attraverso un arbitraggio, possono essere affidate all’iniziativa di una parte oppure lasciate all’accordo delle parti: in quest’ultimo caso si tratta di clausole di rinegoziazione.
Nei contratti di lunga durata, regolati dall’art. 1467 c.c., l’adeguamento mediante il ricorso alle clausole introdotte dalle parti implica l’individuazione del punto di convergenza tra la necessaria osservanza del programma contrattuale e la clausola rebus sic stantibus, in caso di eventi sopravvenuti anomali, incidenti sull’economia del contratto che ne alterano l’equilibrio.
Il procedimento previsto nell’art. 1467 c.c. contempla una sequenza determinata: l’onerato non può azionare la pretesa ad ottenere coattivamente l’equa modificazione delle condizioni contrattuali, ma solo proporre la domanda di risoluzione - benché il suo interesse possa essere quello di conservare il contratto - e rimettersi all’offerta di riconduzione ad equità dell’altra parte. La dinamica offerta/pronuncia giudiziale dà luogo ad una sentenza costitutiva, modificativa del contratto tale da ricondurre lo scambio ad equità, ma al giudice non spetta un analogo potere di procedere d’ufficio.
Ai fini dell’individuazione dei poteri del giudice sotto questo specifico profilo, la dottrina si è soffermata soprattutto intorno alla natura sostanziale o processuale dell’offerta di modificazione ed è pervenuta alla conclusione secondo cui, quando l’offerta è formulata in modo generico o non risponde ad equità o è stata rifiutata, il giudice può intervenire con una sentenza costitutiva che attua il diritto del convenuto a introdurre la modifica e determinare il corrispettivo, tenendo conto dell’obbligo di correttezza che fa capo alle parti, al fine di evitare la risoluzione (Gabrielli, E., Poteri del giudice ed equità del contratto, in Contr. e impr, 1991, 495; Macario, F. I rimedi manutentivi, L’adeguamento del contratto e la rinegoziazione, in Tratt. Roppo, V, t. 2, Milano, 2006, 705).
Quando il sistema di adeguamento contrattuale non viene rispettato o l’eccessiva onerosità della prestazione deriva da una sopravvenienza non prevista convenzionalmente, oppure le clausole sono così generiche da richiedere un intervento integrativo del regolamento, occorre stabilire se la previsione delle clausole precluda il ricorso al rimedio risolutorio o conservativo tramite la reductio ad aequitatem, dovendosi interpretare la volontà delle parti come intenzione di concludere un contratto aleatorio, oppure se sia possibile applicare l’art.1467 e ammettere, conseguentemente, il venir meno del contratto o, piuttosto, la sua riconduzione ad equità.
La soluzione prevalente anche in giurisprudenza, in contrapposizione ad un orientamento più risalente, è nel senso di ritenere comunque invocabile la disciplina legale quando il funzionamento delle clausole sia frustrato dall’intervento di fattori incidenti notevolmente sull’economia del contratto che non consentono di dare stabilità al rapporto, ammettendo che il rischio contrattuale possa essere regolato anche ex post (Cass., 29.6.1981, n. 4249, in Foro it., 1981, I, 2132; contra, Cass., 28.11.1958, n. 3799, in Foro it. Rep., 1958, 368-369).
Ad avvalorare la tesi contribuisce la considerazione che il 2° comma dell’art.1467, nel riferirsi all’alea normale del contratto quale criterio discretivo tra l’adozione del rimedio caducatorio e la sua negazione, resta un parametro di gestione del rischio contrattuale anche quando l’accordo preveda clausole di adeguamento inapplicabili perché si sono profilate circostanze diverse da quelle prefigurate o perché l’alea che le parti hanno considerato ammissibile, introducendo la clausola, viene superata per effetto di eventi sproporzionatamente rilevanti. Pertanto se il meccanismo delineato dalle parti non può assolvere alla sua funzione perché i nuovi fattori incidono notevolmente sull’equilibrio del rapporto, non è ammissibile accollare totalmente il rischio in capo alla parte svantaggiata, né ritenere i meccanismi di riequilibrio previsti dalle parti ontologicamente sufficienti a rimuovere l’alea.
Inoltre, laddove il piano contrattuale non tenga conto di alcune circostanze di carattere imprevisto o imprevedibile, si intravede nella clausola generale della buona fede in executivis e nell’equità integrativa il fondamento di un vero e proprio obbligo di rinegoziare nei contratti a lungo termine che offre ad entrambe le parti - e quindi anche al contraente che agisce per la risoluzione - l’opportunità di domandare la riduzione ad equità per modificare la parte del contenuto del contratto che risulta sperequata (v. sul punto § 7).
La varietà delle tipologie di rinegoziazione suggerisce un inquadramento in termini di fattispecie empirica, anziché di istituto giuridico, che: i) può essere avviata per libera iniziativa delle parti senza un precedente accordo, ii) può essere disposta ex lege (raramente), iii) può trarre origine dall’autonomia contrattuale, come per l’adeguamento, con l’inserimento nello schema contrattuale di una clausola con cui le parti si impegnano a rinegoziare le condizioni del contratto al verificarsi di determinati eventi, anche indipendentemente dal disallineamento delle prestazioni; iv) può essere conseguenza di un cd. obbligo di rinegoziare che recenti teorie hanno ritenuto espressione di un principio generale ricavabile dall’art.1467 c.c., dalla clausola di buona fede e dalle norme di legge che prevedono la rinegoziazione e che offre una soluzione all’alternativa tra l’insoddisfazione derivante dal rispetto dei patti intercorsi e lo scioglimento del rapporto contrattuale nel caso di sopravvenienze che determinano un grave squilibrio contrattuale (Gentili, A. La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto, in Contr. e impr., 2003, 704).
Esempi di rinegoziazione nella trama legislativa si trovano, oltre ai casi citati nel § 3, nelle locazioni della p.a., nelle locazioni di immobili ad uso abitativo (art. 2, co. 5, l. 9.12.1998, n. 431), in alcune tipologie di mutuo (art. 46, l. 23.12.1999, n. 488, art. 46; art. 29 l. 15.5.1999, n. 133, art. 29), negli artt. 1537 e 1540 c.c. sulla vendita cumulativa o a misura, nell’art. 1623 e 1664 c.c. A queste fattispecie si aggiungono quelle più sfumate delle variazioni concordate o necessarie del progetto nell’appalto (artt. 1659-1660), delle modifiche del mandato per circostanze sopravvenute (art. 1710) e delle istruzioni fornite dal mittente in caso di impedimento del trasporto (art. 1686).
L’impegno di rinegoziare concerne l’obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento della trattativa, nell’avviare i contatti, nel fornire le informazioni necessarie al raggiungimento di un accordo destinato a consentire la prosecuzione del rapporto.
All’interno delle clausole possono essere indicati i parametri cui le parti si devono attenere nella fase della trattativa, integrabili in sede di modifica del regolamento, sicché non appartengono a questa species le previsioni che, precisando i criteri di riequilibrio nel caso di sopravvenienza contrattuale, devono ricondursi alle clausole di adeguamento, foriere di un’attività meramente ricognitiva e applicativa, né possono rientrarvi le pattuizioni che contemplano la facoltà e non l’obbligo delle parti di avviare una trattativa diretta a modificare le condizioni dell’operazione economica.
Benché le clausole di rinegoziazione superino il vaglio del giudizio di meritevolezza, appartenendo al più ampio genere delle intese preparatorie ammesse dall’ordinamento ed essendo destinate a prevenire lo scioglimento del vincolo, qualche dubbio può sorgere sulla loro funzionalità soprattutto a fronte del rifiuto o del ritardo delle parti nelle trattative e del mancato accordo a seguito di intese precontrattuali svolte in violazione dell’obbligo di buona fede.
Sotto il profilo dell’attuazione del rapporto obbligatorio, della valutazione del comportamento delle parti e del ruolo del giudice nel caso di inadempimento, occorre distinguere il caso in cui la rinegoziazione ha successo, cui consegue la continuazione del rapporto, la soddisfazione dell' interesse di ciascuna delle parti e il venire ad esistenza di un contratto modificativo del contratto originario con causa autonoma che può avere natura ricognitiva o di atto di adempimento, dal caso di fallimento dell'operazione, a seguito del quale è determinante l’indagine sull’atteggiamento delle parti ai fini di individuare la relativa responsabilità. Il negozio modificativo non può invece identificarsi con una transazione, non costituendo un mezzo di composizione del conflitto, o con una novazione di cui non presenta l’aspetto essenziale della sostituzione dell’obbligazione dedotta in contratto.
Pur escludendosi la configurabilità di un principio generale di rinegoziazione che sarebbe difficilmente conciliabile con la norma dell’art. 1467 c.c., parte della dottrina ammette la legittimità del ricorso alla rinegoziazione obbligatoria come strumento di protezione e solidarietà della dinamica contrattuale in un’ottica di contemperamento tra obbligo di trattare e autonomia privata.
Gli studiosi si sono sforzati di individuare il fondamento normativo dell’obbligo legale di rinegoziare nei contratti di lunga durata, cercando di delinearne i tratti essenziali. Secondo la tesi che ne sostiene l'ammissibilità, la fonte dell’obbligo è insita nella clausola generale di buona fede di cui all’art. 1366 c.c. che, improntando il comportamento delle parti a parametri di ragionevolezza, consente di definire giudizialmente un assetto contrattuale il più simile possibile a quello che sarebbe stato raggiunto se fossero state le stesse parti ad avviare e concludere la trattativa, tenuto conto delle circostanze caratterizzanti la vicenda contrattuale e delle sue fasi, attraverso una valutazione compiuta sulla base di un generale obbligo di cooperazione delle parti nell’esecuzione delle rispettive prestazioni (Macario, F., Adeguamento e rinegoziazione, cit., 147 e 296 ss.; Terranova, C., L’eccessiva onerosità nei contratti, in Comm. cod. civ. Schlesinger, Milano, 1995, 247). Con la stessa finalità viene anche invocato l’art. 1374 c.c. quale strumento di integrazione del contratto ed è estesa la ratio dell’art. 1467 c.c. sulle sopravvenienze ai casi in cui emergono esigenze nuove e alle variazioni concernenti gli aspetti “qualitativi” e non solo quantitativi della prestazione (Sacco, R. - De nova, G., Il contratto, Torino, IV ed., 2016, 1708; Traisci F.P., Sopravvenienze contrattuali e rinegoziazione nei sistemi di civil e di common law, Napoli, 2003, 368-369). Per contro, la giurisprudenza e una parte della dottrina ritengono impossibile individuare una posizione soggettiva di obbligo in capo alle parti in quanto l’art. 1467 c.c. prevede solo per la parte avvantaggiata l’offerta di riconduzione ad equità, concependola come una facoltà (Gentili, A., La replica, cit., 713 ss. In giurisprudenza: Cass., 25.5.1991, n. 5922; Cass., 18.7.1989, n. 3347, in Foro it., 1999, I, 564, secondo cui il giudice adito per la domanda di risoluzione può ricondurre ad equità il contratto anche se il convenuto non indica la propria offerta; ma contra, sotto questo ultimo profilo, la risalente decisione di Cass., S.U., 27.1.1959, n. 224, in Foro it., 1960, I, 453).
L’accentuazione dell’elemento volontaristico nel contesto dell’operazione negoziale, come visto, si fonda sull’art. 1366 c.c. che opera nel senso di rivelare la comune intenzione dei contraenti di rivedere e adattare il contratto al variare delle circostanze di fatto e sull’art. 1375 c.c. che costituisce la fonte dell’obbligo di riconoscere la presenza dei presupposti per la modifica delle condizioni e per l’avvio delle trattative. Sempre nella prospettiva del riconoscimento dell’obbligo di rinegoziare, una diversa impostazione, argomentando sulla base dell’art. 1349 c.c. che prevede l’intervento del giudice ai fini della determinazione dell’oggetto del contratto, propone di estendere l’applicazione della norma anche ai casi di negozio modificativo (Cesaro, V.M., Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000, 260 ss.).
L’attenzione all’aspetto dell’efficienza economica dell’operazione consente, sotto il profilo indicato, di ricostruire il diritto della parte svantaggiata dal mutamento delle circostanze di mantenere in vita il contratto sulla base delle opportunità di profitto, adeguandolo ai mutamenti della situazione da cui ha tratto origine. Il fondamento sociologico-economico della rinegoziazione può quindi individuarsi nella riconsiderazione delle scelte delle parti su quegli aspetti del rapporto contrattuale che, ricollocati nel mercato, permettono la continuità dello scambio. In questa cornice, è stato sostenuto che la fonte dell’obbligo di rinegoziare debba traslare dalla sede dell’attuazione del rapporto obbligatorio a quella precontrattuale tramite il riferimento al combinato disposto degli artt. 1338 e 1467 che modula il giudizio di prevedibilità e conoscibilità degli eventi modificatori sulla base delle informazioni e della conoscenza dei fattori generatori del rischio (Gambino, F., Rischio e parità di posizioni nei rimedi correttivi degli scambi di mercato, in Riv. dir. civ., 2010, 52).
Si contrappone a questa tesi il pensiero di chi rileva come non possa ricavarsi un obbligo legale di rinegoziare dai principi di efficienza economica, posto che, sotto quest’ultimo profilo, è l’economia ad adattarsi alle regole che la politica del diritto individua come risolutive dei conflitti e non viceversa, né possa riconoscersi un potere di intervento del giudice fondato sulla clausola generale di buona fede e sull’equità integrativa, prevedendo l’art. 1467 c.c. la proposta di adeguamento solo come facoltà (Gabrielli, E., Alea e rischio nel contratto, Napoli, 1997, 103).
L’accoglimento della teoria dell’obbligo “legale” di rinegoziare nei contratti a lungo termine solleva, inoltre, il problema della conciliabilità con l’art. 1467 c.c. che detta i rimedi della risoluzione e dell’offerta di reductio ad aequitatem in presenza dei requisiti dell’eccessiva onerosità e del superamento dell’alea normale e solo dalla parte avvantaggiata dal mutamento delle circostanze, chiamata per la risoluzione. I dubbi riguardano gli spazi di interferenza tra l’operatività del rimedio e l’obbligo di rinegoziare, posto che, se la legge ha previsto precisi presupposti per l’adozione dello strumento risolutivo o conservativo, è necessario comprendere come possa ricavarsi dal sistema un obbligo per le parti di protrarre il rapporto.
La soluzione è incentrata sull’argomentazione per cui l’adeguamento dell’assetto negoziale alle mutate esigenze riguarda non solo le sopravvenienze produttive di onerosità considerata eccessiva o tale da aggravare il rischio, ma anche gli eventi che modificano l’equilibrio del contratto in conseguenza di variazioni connaturate alla tipologia del rapporto a lungo termine. Conseguentemente, in difetto di criteri convenzionalmente stabiliti per l’allocazione del rischio, l’obbligo di cooperare alla realizzazione del risultato contrattuale ha una valenza più ampia di quella prevista nell’art. 1467 c.c., favorendo la rinegoziazione indipendentemente dall’eccessiva onerosità e del superamento dell’alea. In questo quadro deve segnalarsi una diversa teoria che individua un regime di distribuzione del rischio fondato sulla norma di parte generale dell’art. 1467 c.c. e sulla norma in tema di appalto di cui all’art. 1664 c.c. Quest'ultima disposizione, secondo la tesi qui riassunta, nel contemplare la revisione del prezzo convenuto in caso di aumento o diminuzione del valore della prestazione per circostanze imprevedibili e la determinazione di un equo compenso in caso di onerosità e difficoltà della prestazione, è ispirata, come la prima, al principio di conservazione del contratto. Muovendo dai rapporti tra le due norme, ove sono contenuti analoghi regimi di gestione del rischio, uno fondato sulle ragioni della volontà individuale, che trova spazio nell’art. 1467 c.c. applicabile agli “scambi puntuali” e l’altro, sull’appalto che, nell’art. 1664 c.c., privilegia le ragioni dell’efficiente allocazione delle risorse, applicabile agli scambi “integrativi”, intesi come rapporti in cui l’esecuzione della prestazione presuppone un’integrazione delle sfere patrimoniali delle parti, si desume che la norma speciale deve applicarsi in modo generalizzato anche per tipi contrattuali diversi dall’appalto. La buona fede e l’equità integrativa non sarebbero invocabili, secondo questa tesi, perché il dispositivo dell’art.1467 c.c. non può divenire criterio di rilevanza del rischio - a meno di non essere disapplicato – né offre, in via di integrazione equitativa, un rimedio fondato sul potere spettante ad entrambi i contraenti di avviare trattative (Barcellona, M., Appunti a proposito di obbligo di rinegoziazione e gestione delle sopravvenienze, cit., 497).
Se l’obbligo di rinegoziazione, ricavabile in via interpretativa dalle norme che impongono alle parti di comportarsi secondo buona fede rappresenta una soluzione efficiente sotto il profilo della conservazione del contratto, il potere riconosciuto al giudice di valutazione dei presupposti e di determinazione di una soluzione congrua rispetto all’atto di autonomia delle parti suscita qualche dubbio. Infatti, la prospettiva di una limitazione della propria libertà contrattuale per opera del giudice che interviene sulla vicenda contrattuale può tradursi per i contraenti nel compiere anticipatamente, in sede di conclusione del contratto, una valutazione della rilevanza finanziaria del rischio, ricomprendendolo nel corrispettivo ed esplicitando l’intenzione di escluderne la modificabilità per mezzo di criteri di adeguamento. Sotto questo profilo, il meccanismo potrebbe essere assimilabile a quello delineato nella riforma del codice civile francese, che rimette alla volontà delle parti la rinegoziazione, articolando le fasi della trattativa in una serie di passaggi in vista del ritrovamento di una soluzione concordata, prima di affidare al giudice il potere di decidere se revisionare il contratto o scioglierlo.
Le differenze con la disciplina interna si colgono piuttosto rispetto al potenziamento della fase dell’accordo cui è protesa reiteratamente la norma dell’art.1195 code civil, alla facoltà di promuovere l’adeguamento o la rinegoziazione che rende i contraenti entrambi partecipi della modifica del programma contrattuale, alla discrezionalità rimessa al giudice nella modifica del contratto che, se da un lato rappresenta un’innovazione in linea con i progetti di codificazione a livello europeo, dall’altro espone i contraenti ad un indebolimento della propria autonomia. La nuova disposizione francese sull’imprévision, nell’intento di conservare o recuperare il rapporto contrattuale, ammette la risoluzione come soluzione residuale, avviandosi in una direzione apparentemente opposta rispetto alla disciplina italiana che, fatta eccezione per l’assenza di un invito alla rinegoziazione, non si discosta in definitiva dalla révision del contratto rimessa al giudice francese nel prevedere un riequilibrio delle prestazioni attraverso il ricorso all’equità, presentando tuttavia una maggiore agilità dello schema normativo.
L’individuazione di un obbligo reciproco di rinegoziare non pianificato dalle parti, analogamente a quanto accade sul piano convenzionale, induce a porsi qualche interrogativo circa la determinazione dei contenuti: se si aderisce alla tesi favorevole alla configurabilità dell’obbligo, si deve ritenere che il relativo contenuto consista nel condurre trattative in buona fede nella finalità della conclusione dell’accordo, con la conseguenza che in mancanza di accordo non può riconoscersi responsabilità delle parti per inadempimento, ravvisabile nel diverso caso del rifiuto di trattare. L’opinione contraria, invece, riconduce l’esigenza di limitare la portata del rimedio risolutivo nell’alveo dell’art. 1467 c.c. o all’interno dell’atto di autonomia privata.
L’obbligo di rinegoziare di fonte pattizia o di fonte “legale”, dunque, concerne non solo l’avvio della trattativa, ma anche il suo svolgimento: il rispetto del canone di buona fede anche come fonte di integrazione del contratto deve permeare il comportamento delle parti con l’effetto di dare origine a responsabilità solo quando il mancato accordo sia l’esito di un comportamento scorretto.
Il rifiuto delle trattative determina quindi inadempimento, facendo sorgere un’obbligazione risarcitoria secondo quanto stabilito nell’art. 1218 c.c., con la conseguente applicazione delle norme dettate in materia di adempimento, come l’exceptio inadimpleti contractus di cui all’art. 1460 c.c., opponibile dal contraente al quale sia stato opposto il rifiuto di procedere nelle trattative.
La scorrettezza nelle trattative che impedisce l’accordo modificativo, che può esprimersi nell’incompletezza o nella falsità delle informazioni, in ritardi pretestuosi, ecc., invece, determina una responsabilità contrattuale che viene inquadrata nell’ambito della violazione dell’art. 1375 c.c., verificandosi in una fase in cui il contratto è già formato ed è oggetto di modifica, benché la fattispecie dell’aprirsi di nuove trattative richiami la ratio dell’art. 1337 c.c..
Di contro, il mancato esito positivo della trattativa nel rispetto della buona fede non è fonte di responsabilità, poiché la scelta nel merito sull’utilità dell’affare è riservata alle parti, essendo le clausole inserite nel contratto appositamente per gestire il rischio al suo accadere e non necessariamente a conservare l’equilibrio contrattuale. Pertanto, a fronte del mancato raggiungimento di un accordo nonostante la buona fede, non può ravvisarsi inadempimento, né tale esito può essere assicurato dall’intervento sostitutivo o integrativo del giudice (contra: Cesaro, V.M., Clausola di rinegoziazione, cit., 265).
Ai fini dell’individuazione delle conseguenze dell’obbligo di rinegoziare si distinguono le clausole che contengono i criteri utilizzabili per determinare esattamente le condizioni dell’accordo modificativo, non dissimili dalla fattispecie dell’adeguamento in cui si fornisce al giudice lo strumento per sostituirsi alle parti, da quelle indicative del vincolo alla rinegoziazione non dettagliate riguardo al contenuto, insuscettibili, di regola, ad essere completate dal giudice, ma idonee piuttosto ad ammettere il suo intervento sulla base dell’art.2932 c.c. In quest’ultimo caso, deve riconoscersi la labilità del confine con le clausole che stabiliscono i parametri con cui nel programma contrattuale si è stabilito di provvedere alla revisione.
La partecipazione del giudice può delinearsi, secondo una teoria accreditata, nella previsione dell’art.2932 c.c. che consentirebbe l’adeguamento del contratto quando l’esito negativo della rinegoziazione sia dovuto alla violazione del precetto di buona fede, in un’ottica di protezione del contraente adempiente. Interpretando l’accordo modificativo come l’adempimento di un obbligo di contrarre di origine convenzionale, si delineerebbe quindi un’efficacia reale della clausola, coercibile attraverso la pronuncia giudiziale integrativa delle parti incomplete del contratto (Macario, F., Adeguamento e rinegoziazione, cit., 425 ss., secondo cui è possibile escludere pattiziamente l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre; evidenzia l’opportunità e l’audacia della soluzione descritta Roppo, V., il contratto, 973; Cesaro, V.M., Clausola di rinegoziazione, cit., 10, invoca l’art. 1349 c.c. che consente la determinazione dell’oggetto nel caso dell’arbitraggio). Deve peraltro rilevarsi la difficoltà di individuare una soluzione universalmente valida, poiché l’intenzione delle parti dovrebbe essere valutata, nell'ottica sopra descritta, al momento della conclusione del contratto allo scopo di accertare se ricorra l’intenzione di provvedere ad una trattativa meramente rinegoziativa, per la quale è configurabile il risarcimento derivante dal pregiudizio di essersi sottratti a tale impegno, oppure se ricorra una trattativa comprensiva anche dell’obbligo di concludere il contratto. In quest'ultimo caso dovrebbero essere descritti i parametri per il relativo adempimento con l’effetto di assimilare le clausole in questione con quelle di adeguamento. Inoltre, al giudice mancano i criteri per disporre l’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre, non essendo predeterminati gli elementi del nuovo accordo e non potendo la buona fede sostituirsi alla volontà delle parti.
Riguardo alla quantificazione del danno spettante alla parte adempiente, esso deve valutarsi sulla base del pregiudizio derivante dalla mancata realizzazione del risultato contrattuale che sarebbe stato conseguito con lo svolgimento di una trattativa corretta che, nella particolare situazione della rinegoziazione, presenta caratteri comuni all’interesse positivo e negativo, da valutarsi in base alla situazione di fatto, potendosi accertare un danno da perdita di opportunità favorevoli e/o da perdita del profitto contrattuale (a favore del risarcimento del danno sulla base dell'interesse negativo Gambino, F., Rinegoziazione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2007, 10; Sicchiero, G., Rinegoziazione, in Dig. civ., Aggiornamento, II, Torino, 2003, 1217). Un’altra possibile soluzione è fondata sull’inserimento di una clausola penale che attraverso la predeterminazione dell’entità del danno svolga una funzione di coercizione alla conclusione dell’accordo (Gentili, A., La replica, cit., 722).
I parametri di riferimento, in chiave di valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., devono ravvisarsi nella natura dell’affare, nella sua estensione temporale e nell’adempimento delle prestazioni già eseguite. Più precisamente, il risarcimento del danno da mancata rinegoziazione può essere riconosciuto quando le clausole introdotte dalle parti prevedano un obbligo di adeguamento secondo criteri specificamente determinati rimasto inadempiuto, mentre tale effetto non deriva dalla mancata attuazione di una clausola che attribuisce una facoltà di rinegoziare e non un obbligo. Inoltre, l’inadempimento dell’obbligo di rinegoziare potrebbe giustificare una domanda di risoluzione del contratto da parte del contraente adempiente se le clausole hanno definito i parametri per la conclusione dell’accordo modificativo, onde possa valutarsi la non scarsa importanza l’inadempimento (art. 1455), come anche nell’ipotesi in cui siano stati previsti casi di risoluzione automatica (artt. 1456-1457 c.c.).
Fonti normative
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