Rinascimento: oltre la costruzione dei ‘moderni’
Quando si parla di movimenti come il Rinascimento – o anche l’Illuminismo – che contengono nella loro stessa definizione un giudizio di valore, è necessario distinguere subito, e con rigore, tra piano storico e piano storiografico, specie quando, come nel caso del Rinascimento, la dimensione storiografica è stata decisiva nella costruzione dell’oggetto storico in quanto tale.
Il concetto di Rinascimento – al quale i filosofi hanno dato un contributo rilevante – inizia a svilupparsi fin dal 15° sec., e continua a definirsi e a perfezionarsi lungo tutti i secoli moderni, trovando un momento di approdo – e di svolta – decisivo nel Discours préliminaire (1751) di Jean-Baptiste d’Alembert all’Encyclopédie.
Si tratta dunque di un lungo processo di elaborazione e di trasformazione di quello che è all’inizio sostanzialmente un ‘mito’ ma che, progressivamente, si configura come un concetto storiografico compiutamente elaborato. All’inizio, però – come è stato opportunamente scritto –, si tratta essenzialmente di una battaglia ideologica e culturale impegnata dai rappresentanti dell’‘età nuova’ nei confronti dell’‘età di mezzo’, cioè del Medioevo. A essa partecipano gli uomini più notevoli della nova aetas, compreso Marsilio Ficino che, in un testo molto eloquente (ossia la lettera del 1492 a Paolo di Middelburg), celebra il ritorno, dopo secoli di tenebra, dell’«età dell’oro» nella Firenze di Cosimo de’ Medici.
Ma è solo con il passare del tempo che questi motivi – propri di una polemica e di uno scontro in atto contro quella che viene considerata un’epoca buia e di totale decadenza del sapere – vengono sistemati in un quadro unitario, costituito attraverso modelli filosofico-storici di matrice astrologica. Essi sono infatti in grado di dar conto, simmetricamente, sia dei momenti di crescita che di quelli di crisi; sia dei cicli di civiltà che di quelli di decadenza; e consentono perciò di sistemare in un quadro unitario il momento della renovatio, della renascentia.
Né si tratta di un fatto eccezionale: nel Rinascimento i modelli astrologici sono assai diffusi, e concernono sia l’‘oroscopo delle religioni’, sia la concezione del destino delle civiltà che quella della stessa verità. A suo tempo Giovanni Gentile sostenne, muovendo da alcuni passaggi della Cena de le Ceneri di Giordano Bruno, che il Rinascimento aveva elaborato la concezione della veritas filia temporis; ma non è così. I grandi pensatori del Rinascimento, compreso Bruno, hanno una concezione circolare della verità che, a essere precisi, non riguarda la verità in quanto tale, ma il rapporto degli uomini con essa, che si struttura secondo un ritmo circolare scandito dal succedersi, nel circolo, di luce e di tenebre, di conoscenza e di ignoranza. Il rapporto tra tempo e progresso è successivo al Rinascimento; né è individuabile in Niccolò Machiavelli, il quale nel Proemio al secondo libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio sostiene che le cose «salgono» e «scendono», incessantemente. Bisogna aspettare Francesco Bacone e il Novum organum per avere una nuova concezione del tempo, inteso come progressivo accrescimento del sapere.
***
I modelli di carattere astrologico – e la connessa sistemazione del momento della renovatio nel ciclo delle civiltà – contribuiscono dunque, in modo potente, alla trasformazione del Rinascimento da ‘mito’ a ‘concetto’. Anzi, su questa strada si apre anche la discussione su una pluralità di ‘rinascimenti’ e, simmetricamente, di decadenze, in un incessante – e mai concluso – prodursi di civiltà.
Sono, però, gli illuministi a secolarizzare questo modello e a elaborare una filosofia della storia imperniata sul Rinascimento italiano come «aurora» dell’umanità, dopo la lunga crisi medievale. In modo speciale è d’Alembert a comporre questo quadro, stabilendo un rapporto diretto tra rinascita delle lettere e delle arti del Rinascimento ed epoca dei lumi.
Su questa base, egli delinea un quadro complessivo dello sviluppo della filosofia europea scandendone uno per uno i momenti principali, ma tenendo fermo il nesso fondamentale che mette a fuoco fin dalle prime pagine. ‘Rinascita’ e ‘lumi’ costituiscono il processo attraverso cui la ragione, uscendo dalla barbarie medievale, si è affermata, progressivamente, nella sua autonomia e indipendenza, nella sua piena libertà. Un processo, precisa d’Alembert, non realizzato e compiuto una volta per sempre; perché – a differenza di quanto pensa Jean-Jacques Rousseau, con il quale egli polemizza in modo esplicito – è possibile ripiombare nella barbarie, nuovamente. La civiltà non è un destino scontato.
Nel Discours préliminaire all’Encyclopédie il Rinascimento si configura, ormai, come un vero e proprio concetto; non in modo neutro o indifferente, ovviamente. Anzi; qui è il presente – cioè i lumi – a definire il passato; sono essi a caratterizzare – e a selezionare – la rinascita delle lettere e delle arti, privilegiando quello che nel presente ha trovato la sua realizzazione e cancellando tutto ciò che non rientra nella nuova età. Nel Discours di d’Alembert i lumi sono, volutamente e consapevolmente, la pietra di paragone dell’‘origine’, cioè dell’epoca da cui essi sanno – e lo rivendicano – di essere stati generati.
Un solo esempio: magia, astrologia, alchimia sono uno degli aspetti essenziali della cultura – e della filosofia – del Rinascimento; ma esse sono del tutto estranee alle concezioni dei lumi; di conseguenza, non trovano alcun riconoscimento nelle pagine del Discours e vengono, senza alcun riguardo, inabissate.
Ma questo è un effetto naturale dell’impostazione che d’Alembert intende dare al suo Discours. A differenza di quanto a lungo si è pensato, non è vero che gli illuministi non avessero giudizio, e senso, storico. Al contrario, essi sapevano bene chi erano e, soprattutto, da dove venivano, come dimostra proprio il Discours; ma in quelle pagine a d’Alembert non interessa comporre un quadro ‘scientifico’, corrispondente a quello che il Rinascimento effettivamente è stato; gli preme, invece, costruire il concetto di Rinascimento intrecciando, in chiave autobiografica, presente e passato, saldando, in questo modo, Rinascimento ed epoca dei lumi.
Si possono naturalmente discutere sia il metodo di d’Alembert che i suoi risultati e, soprattutto, i tagli che egli compie nel corpo vivo della cultura rinascimentale. Ciò non toglie che con il suo Discours si affermi con nettezza la funzione decisiva della storiografia nella costruzione del Rinascimento dei ‘moderni’ e che egli sia riuscito a costruire un ‘oggetto’ storiografico destinato, per forza e originalità teorica, a incidere a fondo in tutti gli sviluppi successivi del concetto di Rinascimento.
***
Quando si tratta di Rinascimento, l’intreccio tra dimensione storiografica e problemi politici, ideologici, culturali è, in generale, assai forte. E si ripropone in tutti i suoi grandi interpreti – da Jules Michelet allo stesso Jacob Burckhardt.
In pagine molto intense della Storia come pensiero e come azione (1938), Benedetto Croce ebbe a scrivere che Burckhardt, come Leopold von Ranke, era stato uno storico «senza problema storico» (La storia come pensiero e come azione, a cura di M. Conforti, 2002, pp. 81-108, in partic. p. 81). È un giudizio assai discutibile; del resto Croce, in quello stesso testo, faceva questa affermazione per colpire, attraverso quei riferimenti, avversari, e posizioni, a lui contemporanei molto precisi. Burckhardt aveva, invece, un ‘problema’ assai chiaro, quello delle origini e del destino della civiltà e dello Stato moderni. E a questa luce va considerato il suo testo, nel quale il concetto di Rinascimento si dispiega ormai in tutta la sua interezza, mettendo a fuoco – come tratto originale dell’epoca – una nuova concezione dell’individualità, della vita, della natura.
Burckhardt, come è noto, è un architrave delle interpretazioni del Rinascimento; né è il caso di insistere ulteriormente, in questa sede, sulla sua figura: sat prata bibere. Prima di chiudere questa parte di carattere storiografico, conviene però fare (almeno) due altre osservazioni, per poter svolgere un discorso adeguato sulla filosofia del Rinascimento.
***
Come si è cominciato a vedere, in tutti gli storici e i filosofi della storia che si sono occupati di Rinascimento nel Settecento e per larga parte dell’Ottocento il problema del Rinascimento coincide con quello delle origini del ‘mondo moderno’. Di questo si tratta, quando se ne parla, nelle pagine di d’Alembert, Michelet, Burckhardt.
Naturalmente, questo problema viene affrontato in modi diversi – e talvolta assai diversi – anche per il differente contesto storico – e problematico – nel quale essi si trovano a vivere e pensare. Una cosa è il punto di vista di un illuminista come d’Alembert, un’altra quello del professore basileese Jacob Burckhardt, che in Historische Fragmente aus dem Nachlass, pubblicati postumi nel 1929 (trad. it. Lezioni sulla storia d’Europa, 1959), si interroga sugli effetti dello Stato moderno sulla vita etica e religiosa degli individui e dei popoli; e che di lì a dieci anni resterà sconvolto di fronte all’esplodere della Comune parigina. Tuttavia il problema è quello, generale, del ‘mondo moderno’: è questa domanda che si rispecchia, e trova forma, in quel particolare ‘oggetto’ storiografico che è il concetto di Rinascimento.
Una verifica di questo è costituita dalla crisi del concetto di Rinascimento che si apre fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, a opera anzitutto di uno storico di prima grandezza come Konrad Burdach. Il quale, però – ed è questo che qui interessa sottolineare –, congiunge in una critica, e in un rifiuto, unitari sia il concetto di ‘mondo moderno’ che quello di Rinascimento. Non solo: prendendo le distanze in modo esplicito dalle tendenze ‘illuministiche’ e ‘razionalistiche’, Burdach, da un lato, ripropone in termini nuovi il rapporto tra Medioevo e Rinascimento attraverso un’ampia e rigorosa indagine sul concetto di renovatio colto nelle sue originarie radici religiose; dall’altro, avvia il recupero di tutte quelle tematiche che la storiografia illuministica aveva inabissato: magia, alchimia, astrologia.
Da questo punto di vista, Burdach è stato un protagonista decisivo degli studi sul Rinascimento e, in modo specifico, sulla filosofia del Rinascimento nel 20° secolo. Se è vero che il contributo di Aby Warburg è stato importante per lo sviluppo di questi studi, non meno significativo è stato il lavoro di Burdach. E del resto da lui prese le mosse, in modo esplicito, la nuova generazione di studiosi che, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, ha cambiato l’immagine tradizionale sia del Rinascimento in generale che della filosofia di quell’epoca, riportando con forza l’attenzione, tra l’altro, sulle tematiche ermetiche e magiche.
Ma questo interesse – che ha distinto gli studi sulla filosofia del Rinascimento almeno fino agli anni Settanta del 20° sec. – scaturiva da trasformazioni profonde che, come avviene sempre in questo caso, coinvolgevano sia il mondo storico che quello storiografico: in altre parole, il Rinascimento è mutato quando è entrato in crisi il ‘mondo moderno’. Da questo punto di vista è significativa la vicenda di quella che può essere considerata l’ultima interpretazione in chiave classicamente ‘moderna’: l’‘Umanesimo civile’.
Venuta alla luce tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta, essa ha un significato ideologico e politico oggi assai evidente: nella battaglia della florentina libertas contro Gian Galeazzo Visconti risuonano chiaramente echi della coeva lotta contro i totalitarismi novecenteschi impegnata dai rappresentanti più autorevoli della cultura e della tradizione liberale. L’Umanesimo civile era l’ultimo bastione da cui venne combattuta una battaglia decisiva in difesa delle ‘libertà dei moderni’, sull’unico piano possibile (almeno per gli intellettuali di matrice liberale): quello storiografico.
Naturalmente non va dimenticato che dall’interpretazione in chiave civile del Rinascimento sono affiorati, e si sono imposti, temi e giudizi che hanno effettivamente contribuito a generare una conoscenza più precisa e raffinata di quell’epoca. Ma, in sé e per sé, l’Umanesimo civile – che ha avuto forti rappresentanti anche nel nostro Paese – era una interpretazione ormai ‘rivolta’, già negli anni Trenta, quando venne proposta; era, insomma, più protesa verso il passato che verso l’avvenire. Come dimostra puntualmente la sua stessa vicenda: è entrata in crisi negli anni Sessanta del Novecento e si è poi gradualmente esaurita. Mentre si è progressivamente imposta – e ha avuto largo spazio per un lungo periodo di tempo – l’interpretazione in chiave ‘ermetica’, alla quale, nel 20° sec., si devono alcuni dei contributi più significativi su filosofi di primo piano del Rinascimento – come Giordano Bruno, al quale nel 1964 Frances A. Yates dedicò un libro profondamente innovativo, diventato oggi un vero e proprio classico, Giordano Bruno and the hermetic tradition (trad. it. 1969).
In conclusione – ed è questo il punto più importante da sottolineare – nel Novecento, per una serie di trasformazioni culturali, politiche e anche religiose avvenute nel mondo storico, è entrato in crisi il nesso costitutivo fra concetto di Rinascimento e ‘mondo moderno’ che la storiografia – da d’Alembert a Michelet, da Burckhardt a Gentile – aveva contribuito a costruire e a imporre. Ed è, simmetricamente, iniziata una nuova fase di studi, tuttora aperta, che ha presentato un’immagine nuova, e per molti aspetti assai diversa, da quella classicamente ‘moderna’ sia del Rinascimento in generale che della filosofia rinascimentale.
***
Quando i ‘moderni’ parlavano di Rinascimento insistevano anzitutto sul motivo dell’equilibrio, dell’armonia, della serenità come tratti distintivi di quest’epoca. Una realtà ideale contrapposta a quella reale, da cui in quel modo si intendeva prendere le distanze, collocandosi in una sorta di ‘iperuranio’.
Così, ad esempio, Croce interpreta Die Kultur der Renaissance in Italien (1860; trad. it. La civiltà del Rinascimento in Italia, 1876) discorrendo di Burckhardt; né si tratta di un giudizio isolato, quanto, piuttosto, di un vero e proprio senso comune lungamente diffuso, e ancora oggi circolante. Ma l’epoca rinascimentale è assai diversa da questa immagine oleografica. Al contrario, essa è un’epoca di crisi, dal timbro tragico, come appare chiaro proprio dalla lettura dei suoi principali esponenti, sia nel campo dell’arte che in quello del pensiero. Per poter mettere a fuoco gli uni e gli altri nella loro consistenza storica, è però necessario disfarsi, in via preliminare, delle immagini che la tradizione ‘moderna’ ha depositato su di loro e cercare di guardare ai loro testi con occhi (relativamente) nuovi.
Qualche esempio: occorre prendere le distanze dall’immagine di Machiavelli quale teorico dell’autonomia della politica – tesi espressa, anche in questo caso, da Croce negli Elementi di politica (1925), nel vivo di una battaglia assai precisa, ma destinata a una larghissima fortuna sul piano propriamente scientifico.
Né con questo si vuol dire che l’intuizione di Croce non debba essere presa in considerazione, che non corrisponda a motivi della riflessione di Machiavelli. Da un punto di vista generale, però, oggi il problema essenziale consiste nella necessità di mutare prospettiva rispetto a quella dei ‘moderni’, cercando di mettere a fuoco in modi nuovi la sostanza della personalità e dell’opera di Machiavelli, che fu, come si è già accennato, di timbro tragico.
È sufficiente pensare a quel notevole testo giovanile che sono i Ghiribizzi al Soderini, ripresi poi, e variati, nei Discorsi; oppure, in generale, alla sua antropologia per cogliere questa dimensione della sua esperienza esistenziale e filosofica: l’uomo per Machiavelli è strettamente vincolato dalla sua natura, da cui non è in grado di emanciparsi, sia per un limite propriamente oggettivo, sia per la sua incapacità di guardare al di là del proprio naso (come si dice proprio nei Ghiribizzi). L’unica chance di cui egli dispone è la politica, ma è uno strumento fragile e precario, perché richiede un rapporto tra virtù e fortuna, tra capacità individuali e situazioni storiche che non è né facile, né scontato. Machiavelli – va sottolineato – è estraneo, anzi frontalmente polemico nei confronti delle concezioni di tipo ermetico che circolano nella Firenze medicea, grazie all’azione di traduzione e di diffusione dei testi di Ermete Trismegisto promossa da Ficino: si muove su un’onda diversa.
Così come con un ritmo differente procede il pensiero di Francesco Guicciardini. Anche qui, è necessario scrollarsi di dosso una lunga tradizione che fa capo in modo particolare a Francesco De Sanctis, il quale nella Storia della letteratura italiana (1870-71) scrive pagine destinate, per la loro esemplarità, a una straordinaria fortuna (sono riprese perfino nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, che connette la categoria di ‘guicciardinismo’ a quella di ‘rivoluzione passiva’). E altrettanto significative sono le parole utilizzate già nel saggio L’uomo del Guicciardini del 1869: «Mai non ho capito così bene, perché l’Italia fosse allora sì grande e sì debole, che in questa lettura – scrive De Sanctis riferendosi in modo speciale ai Ricordi –, dove lo storico con perfetto abbandono dipinge sé stesso, e sotto forma di consigli ti scopre i suoi pensieri e sentimenti più intimi, o, per dirla con parola moderna, il suo ideale politico e civile dell’uomo. L’uomo del Guicciardini, quale dovrebbe essere l’uomo “savio”, com’egli lo chiama, è un tipo possibile solo in una civiltà molto avanzata, e segna quel momento che lo spirito già adulto e progredito caccia via l’immaginazione e l’affetto e la fede, ed acquista assoluta e facile padronanza di sé» (in Id., Saggi critici, a cura di L. Russo, 3° vol., 1952, pp. 10-11).
Tono e giudizi, questi, nei quali sono evidenti gli echi della storiografia neoguelfa; e dai quali sono assai lontane le splendide pagine scritte da Federico Chabod proprio sui Ricordi, «dove – egli scrive – […] anche è già come un bilancio consuntivo di una vita, e dove già, di fronte al mondo, l’animo del Guicciardini appare chiuso e lontano, senza più una luce che lo rischiari» (Guicciardini Francesco, in Enciclopedia Italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana, 18° vol., 1933, ad vocem).
I Ricordi, come giustamente intuisce Chabod, sono un testo dominato dal disincanto, attraversato da una interrogazione continua sul rovesciamento che caratterizza il mondo, sulla mancanza di ogni rapporto tra merito e fortuna, sull’assenza di un Dio che, chiuso nei suoi abissi, non si lascia né vedere, né comprendere. Da molti punti di vista queste pagine sono tra le più tragiche del Rinascimento, anche a paragone di quelle di Leon Battista Alberti, che individua almeno nella morte un momento di verità, mentre Guicciardini si muove in un mondo privo di qualunque luce che possa rischiararlo.
Sono ovviamente solo due esempi, che si è ritenuto opportuno fare per dare il senso di come l’epoca rinascimentale appare nelle nuove interpretazioni critiche. Né è il caso di insistere, perché ai principali pensatori del Rinascimento sono dedicati nel volume capitoli specifici.
Può essere utile invece soffermarsi su alcuni punti di ordine generale: anzitutto sul rapporto tra Umanesimo e Rinascimento, tema centrale dell’interpretazione dei ‘moderni’. È un fatto: i principali pensatori del Rinascimento non sono riconducibili, in modo lineare, alla categoria dell’Umanesimo. Non è umanista Machiavelli, il quale – da buon lettore di Lucrezio – crede che ogni corpo misto sia destinato alla fine, alla decadenza; né lo sono Guicciardini, Pietro Pomponazzi o Giordano Bruno. Ma proprio qui si può vedere con chiarezza l’incidenza che la storiografia moderna ha avuto nella costituzione del concetto di Rinascimento, del quale essa ha considerato come parte organica proprio l’ideologia umanistica, stabilendo, a questa luce, una precisa periodizzazione della cultura europea.
Umanesimo – come fenomeno storico specifico – e ideologia umanistica sono però cose distinte, da non confondere; così come l’Umanesimo non deve essere identificato con il Rinascimento. Sono tutti fenomeni diversi, da distinguere con attenzione se si vogliono afferrare i caratteri propri della filosofia rinascimentale, al di là delle mitologie costruite dai ‘moderni’.
***
Se si volesse individuare il tratto forse più significativo della cultura, e della filosofia, del Rinascimento, bisognerebbe parlare della tensione tra ‘utopia’ e ‘disincanto’.
I principali pensatori di quell’epoca gettano uno sguardo sulla realtà assai disincantato, vivendo direttamente e in prima persona una situazione di crisi che riguarda sia le loro realtà locali che l’Italia nella sua generalità. Di questa crisi cercano di individuare le cause, come fa ad esempio Machiavelli nei Discorsi, nei quali di questo si parla: della crisi italiana, attraverso il giudizio sui Romani. Come del resto appare chiaro anche dalla sua valutazione della religione cristiana, la quale, da un lato, viene contrapposta a quella romana; dall’altro, è individuata come causa della crisi italiana: incapace, come è, di unificare l’Italia, essa ostacola chiunque si ponga questo obiettivo.
Sono temi che, declinati in modi diversi, si ritrovano anche in Guicciardini, filtrati nei Ricordi ed espressamente affrontati nelle opere storiche. Ma in generale la questione della crisi è centrale nei pensatori di quest’epoca, e va considerata in modo adeguato, se si vogliono comprendere sia i suoi tratti specifici che la tensione tra ‘utopia’ e ‘disincanto’ alla quale ora si faceva riferimento.
Si ritrovano entrambi in Giordano Bruno, che svolge in termini radicali sia il tema della crisi, trasformandolo da fatto nazionale in fenomeno universale, sia, in forme addirittura estreme, la tensione fra ‘utopia’ e ‘disincanto’. Ma Bruno, a differenza di Machiavelli o di Guicciardini, vive e lavora negli ultimi decenni del Cinquecento, quando la crisi italiana si è ormai conclusa e filosofi come lui sono costretti a girare per l’Europa alla ricerca di una sistemazione o di una cattedra. Questo però non toglie – anzi, conferma la forza, e la lunga persistenza, della ‘tradizione’ italiana – che Bruno abbia con Machiavelli rapporti significativi anche sul terreno propriamente filosofico. Condividono ad esempio, e non è poco, la critica del ‘giusto mezzo’ e la convinzione che per trovare la verità occorre lavorare sui ‘contrari’ e cercare, muovendo di qui, dei punti di equilibrio.
Questi pensatori non si limitano tuttavia al momento del ‘disincanto’, né precipitano in una condizione di inerzia o di impotenza. Al contrario, come altrettanti Giani bifronti, essi generano eccezionali utopie – dal Principe di Machiavelli agli Eroici furori di Bruno alla Città del Sole di Tommaso Campanella. Né esse si limitano al mondo dei filosofi o, in generale, degli scrittori; riguardano allo stesso modo artisti di prima grandezza (da Leon Battista Alberti a Michelangelo Buonarroti). E questo conferma un altro tratto specifico di quest’epoca, costituito dal nesso costante tra ‘parola’ e ‘immagine’: un’opera come gli Eroici furori non sarebbe concepibile al di fuori di questo rapporto, anche se in questo caso si tratta anzitutto di ‘immagini interiori’ (secondo la linea teorica impostata da Bruno con l’ars memoriae, un altro elemento centrale della filosofia rinascimentale, destinato anch’esso a lunghi e fecondi sviluppi).
***
Proprio in rapporto a questa tensione – e al motivo del rovesciamento degli ordini del mondo a essa congiunto – si può fare riferimento a un altro tema costitutivo della filosofia del Rinascimento, al quale ora si è cominciato a dedicare opportuna attenzione: la centralità, e la funzione, della dissimulazione e della simulazione nei suoi principali rappresentanti – da Leon Battista Alberti a Giordano Bruno, fino a Tommaso Campanella e Paolo Sarpi.
Come si legge nel Theogenius di Alberti, gli uomini – «ombra di sogno», secondo il verso, ma rovesciato, di Pindaro – «insimulano» lungo tutta la loro vita; della qual cosa è pienamente consapevole Momo, che sceglie la dissimulazione come metodo di vita, abbozzando, su questo filo, temi e motivi che, in altre forme, riecheggeranno perfino nelle tragedie di William Shakespeare. Ma simulazione e dissimulazione sono al centro della riflessione di Machiavelli, di Guicciardini, e dello stesso Bruno, il quale interpreta in chiave filosofica la funzione della dissimulazione, spiegando nello Spaccio de la bestia trionfante che essa è lo «scudo della Veritade», e mantenendola per questo in cielo.
Su questo sfondo, si può forse dire di più: il tema della simulazione e della dissimulazione sta alle origini di questa civiltà, a tutti i suoi livelli – etico, politico e anche linguistico. Opere come quelle di Bruno – per esplicito riconoscimento del suo autore – sono volutamente scritte seguendo il codice della dissimulazione, del rovesciamento, dei «sileni» (per riprendere il motivo di Erasmo da Rotterdam), e non possono essere decifrate se non a questa luce: «rompendo l’ossa e cavandone le midolla» si dice nella Cena de le Ceneri, perché, come si ribatte poco dopo, «mentre si va crivellando il senso istoriale, e poi si gusta e mastica, si tirano a proposito topografie, altre geografice, altre raziocinali, altre morali» (in Id., Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto, 2000, p. 10).
In questo quadro, descrivendo il suo lavoro, Bruno ripropone il nesso, or ora evocato, tra ‘parola’ e ‘immagine’, tra scrittura e pittura; e tutto questo nel quadro – va aggiunto – di una concezione della realtà che proprio attraverso questi principi spezza valori e gerarchie tradizionali, valorizzando in termini filosoficamente nuovi e originali la dimensione del minimo: «contempla le gran machine – scrive ancora il Nolano –, mi par che non sia minuzzaria, né petruccia, né sassetto, che non vi vada ad intoppare» (p. 11).
***
Su questi temi, che sono cruciali, si tornerà in modo analitico discutendo di Bruno; ma un punto inizia ad apparire chiaro: l’immagine ‘moderna’ del Rinascimento e della filosofia rinascimentale è molto discutibile; o, almeno, è parziale. Né con questo si vuole togliere peso o valore a figure come Leonardo Bruni e Coluccio Salutati, o come Marsilio Ficino, che di fatto costruisce una ‘biblioteca’ destinata a incidere lungamente nella formazione degli intellettuali moderni: come è stato scritto, il Platone che circola in Europa non è genericamente Platone, è il Platone di Ficino. Discorso che si potrebbe naturalmente fare anche per le sue traduzioni dei testi ermetici (con l’eccezione naturalmente dell’Asclepius, del quale non ci è pervenuto il testo greco), che sono altrettanto decisive per comprendere aspetti centrali delle concezioni dell’uomo elaborate nel Rinascimento.
Sono, certo, posizioni importanti, ma, a differenza di quanto è stato sostenuto – specie negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando la ‘moda ermetica’ ha dominato, incontrastata, questo campo di studi –, esse non risolvono il campo della filosofia e della antropologia rinascimentale; e vanno perciò decifrate con equilibrio. Così come occorre distinguere con attenzione – e su questo occorre essere netti – magia ed ermetismo, specie se si vuole mettere su solide basi sia il problema della genesi della scienza moderna, sia, in questo quadro, il problema del rapporto tra scienza moderna e magia rinascimentale.
È una confusione dalla quale sono scaturiti molti equivoci e fraintendimenti, i quali, a loro volta, hanno reso impossibile aprire una discussione rigorosa sulla scienza rinascimentale – sui suoi caratteri e sui suoi limiti. Non ci sono dubbi: è altra cosa da quella che si suole definire scienza ‘classica’, ‘moderna’: la scienza di Galileo Galilei. Con essa, la ‘scienza’ di Bruno (quella consegnata al De minimo, per capirsi) e anche quella di Campanella non hanno niente in comune. Coerentemente, Galileo si rifiutò di prendere posizione sull’Apologia della sua opera che Campanella era riuscito a scrivere dal fondo di un carcere; così come si capisce la ritrosia di René Descartes nel sentire il suo nome. Allo stesso modo si comprendono le profonde diffidenze di Johannes Kepler nei confronti di Bruno e della sua concezione dell’infinito. Bruno e Galileo si muovevano lungo concezioni opposte: la prima di carattere ‘qualitativo’ (nella quale rientra, del resto, anche un pensatore quale Michel de Montaigne); la seconda di carattere ‘quantitativo’. Anche Bruno scrive un trattato di matematica, ma esso non ha niente in comune con i galileiani Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze: il suo numero è di matrice pitagorica, è di tipo ‘qualitativo’.
Da questo punto di vista, la scienza rinascimentale non ha alcun rapporto con la scienza moderna; né ci sono rapporti tra la filosofia moderna – ad esempio, quella cartesiana, imperniata nella distinzione tra res cogitans e res extensa (dalla quale discende anche una determinata concezione della differenza tra uomini e bestie) – e la filosofia di Bruno, impiantata nell’unità di anima e corpo nella materia universale infinita (da cui discende, anche in questo caso, una differente visione del rapporto tra uomini e animali, visti, gli uni e gli altri, come effetti dell’unica sostanza universale).
Né la differenza riguarda solo la concezione della sostanza: essa incide con altrettanta forza sul piano politico. Bruno – volendo riferirsi ancora a lui – non possiede il concetto della obbligazione giuridica moderna; concepisce il rapporto politico in termini di ‘vincolo’ fra il capo (un «cacciatore d’anime») e i suoi seguaci, i quali vengono avvinti a lui attraverso una dinamica specifica che ha a che fare con la magia e che è, a sua volta, fondata su una teoria generale della realtà. In questo senso, il capo politico deve essere un filosofo, capace di penetrare nei segreti della natura attraverso la magia. Né Bruno è l’unico a parlare di ‘vincolo’: senza rifarsi alla magia, per Machiavelli la religione è precisamente un ‘vincolo’, che precede per intensità e potenza la legge. A Roma – si legge nei Discorsi – la rottura del giuramento, proprio perché si trattava di un ‘vincolo’, era temuta molto più dell’infrazione della legge.
Ma, precisato questo, sarebbe assai discutibile ritenere che le uniche vie alla modernità (per continuare a utilizzare questo termine) siano state costituite da quelle della scienza o del pensiero politico classico: dalla filosofia di Bruno scaturisce il concetto dell’Universo infinito e dei mondi innumerabili; discende l’elogio del lavoro come principio dell’esperienza umana e il riconoscimento, in chiave lucreziana, della necessità delle «malizie» e delle ingiustizie come condizione della civiltà dell’uomo; si produce la rottura di una concezione chiusa dei generi letterari e della creazione poetica. Né di minor significato, e valore, risultano le ‘scoperte’ di Campanella. Ci sono più cose in cielo di quante possono essere state contemplate dalla filosofia dei ‘moderni’, si potrebbe dire citando Amleto.
***
La concezione dell’uomo elaborata dalla filosofia rinascimentale è varia e differenziata, come si è detto, anche per la presenza di vaste aree di matrice ermetica che battono, come fa ad esempio Giovanni Pico della Mirandola, sul fatto che l’uomo è ‘progetto’ e non ‘destino’, e che egli è perciò in grado di fare di se stesso ciò che sceglie e vuole.
Si è già detto come Machiavelli, e anche Guicciardini, si schierino frontalmente contro queste posizioni. Ma c’è un altro tema che percorre questa cultura, e che dimostra quanto forte potesse essere nel suo seno il motivo di quello che sopra si è chiamato disincanto.
Si vuole alludere alla concezione, di carattere propriamente metafisico, dell’uomo come ‘gioco degli dei’, secondo il motivo sviluppato da Platone nelle Leggi e poi citato in modo esplicito da Pietro Pomponazzi nel De fato. Il tema al centro del ragionamento è quello dell’immortalità dell’anima:
Ritengo tuttavia – dice Pomponazzi – che secondo gli stessi avversari non si possa ammettere l’immortalità dell’anima perché, se si ammette l’immortalità (e se la si ammette nel senso inteso dai cristiani), riesce difficile esimere Dio dall’accusa di crudeltà, dal momento che secondo i presupposti cristiani Egli sa che quasi nessuno è destinato alla salvezza. Risulta, insomma, che si compiace delle pene. Se – continua – gli stoici ammettessero l’anima immortale e moltiplicata, forse adotterebbero un’altra spiegazione. Direbbero che le anime più volte si riuniranno ai corpi e che si verificheranno alternanze opposte: chi, per esempio, è stato mendicante in un ciclo precedente, in un ciclo successivo sarà re o padrone. Del resto, già lo vediamo ora in questo ciclo attuale: alcune città o luoghi, che un tempo sono stati grandi e potenti, diventano poi piccoli e vili; infatti, “dove era il mare, ci sarà poi terraferma” e così in un avvicendamento infinito, come insegna Aristotele alla fine del I libro delle Meteore. Così sarà anche delle anime, se sono eterne. Anzi, se ammettiamo l’eternità dell’anima, attenendosi ai princìpi della ragione naturale non c’è altra soluzione, anche se secondo la fede cristiana e la Verità si deve parlare altrimenti. Pertanto, anche ammettendo l’immortalità dell’anima, non risulterà che in Dio c’è ingiustizia o crudeltà, dal momento che ciascuno parteciperà in eguale misura del bene o del male: chi sarà re una volta, un’altra volta sarà povero e il povero una volta o l’altra sarà re. E se di nuovo si ribattesse che tutto ciò sembra un passatempo degli dei, risponderò, come ho già fatto – continua Pomponazzi –, che anche quella eterna vicenda nelle cose sublunari […] sembra un passatempo degli dei. Per questo nel I libro delle Leggi Platone ha detto di non sapere per quale motivo Dio ha fatto l’uomo, se per gioco o sul serio – per quanto l’uomo sia un miracolo della natura (Il fato, il libero arbitrio e la predestinazione, a cura di V. Perrone Compagni, 1° vol., 2004, pp. 421-23).
È, come si vede, un testo assai notevole – e perciò si è citato a lungo –, anche per la battuta finale, rivolta con evidenza contro Pico, la tradizione ermetica e la prospettiva antropocentrica che ne discende.
In quelle pagine Pomponazzi si confrontava con un tema che anche Bruno avrebbe affrontato nello Spaccio de la bestia trionfante – dopo averne posto le fondamenta ontologiche nel De la causa, principio et uno –, ma proprio per evitare che la vita umana si riducesse a un gioco senza regole.
Nel De la causa il quadro teorico era quello di un’universale vicissitudine, sganciata da ogni criterio di merito e di giustizia – un ‘gioco’, appunto, avrebbe detto Pomponazzi. Nello Spaccio, invece, pur mantenendo il principio della vicissitudine e della metasomatosi, per ragioni civili, politiche Bruno stabilisce un rapporto organico tra merito e retribuzione, sostenendo che ciascuno avrebbe avuto nella ruota delle metamorfosi il posto meritato a seconda di come si fosse comportato nella vita precedente.
In altre parole, proprio per evitare la situazione segnalata da Pomponazzi nel De fato, Bruno aveva posto le condizioni perché la vita umana riacquistasse un senso etico, metafisicamente stabilito, favorendo lo sviluppo del «convitto umano» ed evitando la sua distruzione, come sarebbe accaduto se il principio del ‘gioco’ si fosse affermato. Né è difficile comprendere con chi Bruno se la prenda, scrivendo lo Spaccio. Ai suoi occhi, questo era la iustitia sola fide di Lutero: un ‘gioco’, destinato a distruggere la «civile conversazione» – come in effetti era accaduto –, con l’affermazione che il merito, di fronte a Dio, non aveva alcun valore.
Bruno aveva, in altri termini, un problema civile che Pomponazzi non sentiva, almeno con la stessa urgenza e intensità. Ma il tema del ‘gioco degli dei’ è destinato anch’esso a essere ripreso variamente e in molti contesti, connettendosi, da un lato, a quello del rovesciamento; dall’altro, a quello della maschera e del mondo come teatro universale.
Già Alberti nel Momus aveva accennato a temi di questo tipo, e anche Guicciardini in un ‘ricordo’ riprende il tema del teatro; ma è soprattutto nei testi di Campanella che i tre motivi si fondono insieme in una sintesi originale, in cui si esprime – e si potenzia – una precisa concezione dell’uomo e della vita.
Gli uomini, scrive Campanella nelle Poesie, sono tutti mascherati, e svolgono il compito che il «Senno» – cioè Dio – ha assegnato a ciascuno nel teatro del mondo. La vita è un gioco, e ogni uomo recita la sua parte; ma non c’è rapporto tra quello che si è e il ruolo che, in questo gioco, ci viene assegnato; tra la virtù di ogni uomo e la funzione che egli svolge nella rappresentazione. Tutto può essere capovolto, rovesciato: gli ignobili possono avere posti di comando e di responsabilità; mentre accade che i capaci siano ridotti in ruoli servili e subalterni.
A conferma, però, di quel nesso tra ‘utopia’ e ‘disincanto’, tra ‘sogno’ e ‘delusione’ di cui sopra si diceva, Campanella non condivide l’idea di un’eterna vicissitudine senza senso; ma non accede neppure alla concezione ‘civile’ bruniana, stabilendo un nesso tra merito e virtù che valga per questa vita, per questo mondo, come avviene nello Spaccio. Ritiene però che la vita non si risolva tutta in gioco, che il teatro del mondo abbia una fine, che le maschere finiranno per cadere. Ma proietta tutto questo nell’al di là, nel giorno del Giudizio: allora si saprà finalmente chi ciascuno sia, e ognuno sarà riconosciuto e retribuito per quello che effettivamente è.
È lo stesso motivo che si ripropone in Torquato Accetto, che però lo connette – e questo è interessante – a un altro tema cui si è fatto cenno in queste pagine, quello della dissimulazione: nel giorno del Giudizio ciascuno potrà finalmente essere se stesso, gettando una volta per sempre la maschera che ha dovuto, per difendersi, portare nella vita, smettendo così di dissimulare. Ma siamo ormai nei primi decenni del Seicento, in un periodo coevo a quello di Paolo Sarpi, il quale dichiara in modo esplicito che in Italia non si può vivere senza maschera, ma aborre l’idea del teatro: è già sufficiente – scrive nei Pensieri medico-morali – il teatro che ciascuno allestisce per se stesso. Sarpi, però – come si è già avuto modo di dire –, nella cultura italiana è minoritario, rappresenta una vicenda eccezionale, senza riscontri, almeno alla sua altezza.
Vale invece la pena di ricordare che questi motivi hanno largo spazio nella cultura europea, specie in quella inglese. Nell’Introduzione generale si è già ricordata la presenza, dominante, del tema della dissimulazione in Shakespeare; così come si è sottolineata la ripresa, nei suoi testi (ad esempio nel Re Lear), del tema dell’uomo come ‘gioco degli dei’. Il Rinascimento italiano, specie quello di tipo ‘radicale’, ha inciso in Europa, e in punti assai alti, molto più di quanto si possa pensare.
***
Da quanto si è detto, appaiono chiare almeno due cose: la complessità di linee e di tendenze del Rinascimento italiano; i limiti dell’interpretazione dei ‘moderni’, e quindi del loro Rinascimento. Né era possibile farlo senza discutere, come si è cercato di fare nella prima parte di questo testo, il nesso tra storia e storiografia da cui il Rinascimento ‘moderno’ è stato generato, mostrando come esso sia andato in crisi nel corso del Novecento, quando si sono aperte nuove piste di ricerca e nuove prospettive critiche.
Il Rinascimento – si è visto dai pochi sondaggi fatti in queste pagine – è stato un’epoca drammatica, in alcuni momenti anche tragica, animata da una permanente tensione fra ‘utopia’ e ‘disincanto’, ma in una costante fedeltà alla ‘sapienza civile’ che la caratterizza. Essa si esprime nelle pagine di Alberti; nelle opere di Machiavelli e Guicciardini; nel De incantationibus di Pomponazzi; nelle grandi utopie di Bruno e Campanella – dallo Spaccio alla Città del Sole; nell’azione di fra Paolo Sarpi, teologo e consultore della Repubblica veneta, impegnato a rivendicare, quotidianamente e in modo inflessibile, i poteri dello Stato, contrastando le pretese della Chiesa romana: «Essi – scrive a proposito degli inquisitori e dell’Indice dei libri proibiti – pretendono proibir dovunque si dice che il prencipe per necessità del ben pubblico può far contribuir gl’ecclesiastici; che per diffesa del proprio stato può tener commercio e valersi degl’aiuti d’ogni infedele. Se – precisa con durezza – per tal cause si vorrà vietar un libro, sarà giusto impedirne la proibizione» (Opere, a cura di G. Cozzi, L. Cozzi, 1969, p. 602).