Riforma dello stato di Firenze (Ricordo e Minuta)
Il Ricordo al Cardinale Giulio sulla riforma dello stato di Firenze (titolo editoriale) è un frammento di discorso o appunto indirizzato al Medici in vista della riforma delle istituzioni fiorentine che avrebbe dovuto entrare in vigore all’inizio di maggio 1522. Il frammento, autografo e anepigrafo, è conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, con la segnatura: Strozziane I, 137, c. 200r.
La Minuta di provvisione per la riforma dello stato di Firenze l’anno 1522 presenta il testo di una legge costituzionale, che definisce la struttura e il funzionamento delle istituzioni fiorentine che M. propone di fare entrare in vigore il 1° maggio 1522. Il testo, autografo e anepigrafo, è conservato presso la Biblioteca nazionale centrale di Firenze, con la segnatura CM I 79. Si tratta di due bifoli (4 cc.) delle solite dimensioni delle carte di cancelleria.
La morte di Lorenzo di Piero de’ Medici, il 4 maggio 1519, è seguita da un periodo di crisi istituzionale a Firenze. Mentre il passato governo mediceo viene criticato, o per le sue debolezze o per il suo eccessivo autoritarismo, si confrontano proposte per modificare l’assetto istituzionale della Repubblica. Gli uni propugnano un governo ‘largo’, aperto a un’ampia collaborazione con i ceti borghesi, comunque abbienti, che dovrebbero deliberare in un Consiglio maggiore; gli altri mirano a un governo ‘stretto’, in mano alla vecchia oligarchia costituita da poche famiglie di tradizione magnatizia. Il cardinale Giulio de’ Medici – il futuro Clemente VII – compie lunghi soggiorni a Firenze per trovare una soluzione e, più che altro, per garantire ai Medici la supremazia in un governo di apparenza repubblicana. Dovendo recarsi a Roma nell’ottobre del 1519, dove rimarrà fino a metà febbraio dell’anno seguente, affida a Goro (Gregorio) Gheri la luogotenenza del governo e lo incarica di raccogliere proposte di riforme. Nella sintesi che consegna poco dopo, Gheri raccomanda il ritorno al regime vigente sotto Cosimo il Vecchio, quello cioè della supremazia di casa Medici. L’incertezza prosegue anche l’anno seguente e si protraggono le consultazioni, alle quali partecipano anche vari personaggi che frequentano gli Orti Oricellari (→), il cenacolo filosofico-politico di cui M. è uno dei membri più ascoltati. Dopo la riconciliazione con i Medici, in occasione di un incontro con il cardinale Giulio a Firenze tra il febbraio e il marzo 1520, M. viene probabilmente consultato ed espone le linee generali del suo progetto nel testo intitolato Discursus florentinarum rerum (→) scritto tra la fine del 1520 e l’inizio del 1521. La morte di Leone X il 1° dicembre 1521 rilancia la discussione e nei primi mesi del 1522 il dibattito sul regime politico che Firenze avrebbe dovuto assumere qualora fosse scomparso anche il cardinale Giulio – signore di fatto di Firenze – si riattiva. Non sappiamo che peso abbiano avuto le proposte di M. e quale sia stata la loro diffusione all’infuori della cerchia degli Orti Oricellari e delle persone vicine al cardinale. Una sola reazione ci è pervenuta, che probabilmente rispecchia l’opinione della maggior parte di chi aveva letto il Discursus: è un discorso inviato da Alessandro de’ Pazzi al cugino Lorenzo, cardinale, in cui disapprova la proposta di M. «perché è insolita a questa città e stravagante». Il Pazzi non si riferisce esplicitamente al Discursus, ma è lecito supporre che si tratti di questo testo o comunque di una proposta analoga. Il risorgere nel 1522 dell’interesse per questa problematica istituzionale incita gli intellettuali fiorentini a partecipare a nuove discussioni che si protraggono per alcuni mesi, con l’elaborazione di vari progetti. Ma la scoperta, il 19 giugno 1522, della congiura di Zanobi Buondelmonti e di Luigi Alamanni, che mira all’assassinio del cardinale Giulio – in occasione della quale viene fatto, senza prova alcuna, anche il nome di M. –, pone fine a ogni progetto di riforma.
Sebbene il frammento del Ricordo sia troppo breve e troppo vago per consentire una datazione precisa, si può tuttavia ipotizzare che lo scritto, nel suo ribadire la conformità del progetto con la tradizione istituzionale di Firenze, risponda alle critiche, mossegli da Alessandro de’ Pazzi e forse da altri, di avere formulato progetti «insolit[i] a questa città e stravagant[i]». Il fatto che nella lettera si citi soltanto il cardinale Giulio come realizzatore della riforma fa supporre che al momento della stesura Leone X fosse già deceduto. D’altra parte, visto che il testo della Minuta precisa che l’entrata in funzione delle nuove istituzioni dovrebbe «cominciare il tempo del primo Gonfaloniere a dì primo di maggio prossime futuro», si può supporre che i due scritti siano stati redatti in rapida successione nel primo trimestre del 1522 e che addirittura la redazione del Ricordo sia stata sospesa per essere sostituita da quella della Minuta.
Il Ricordo al cardinale Giulio, nel brevissimo frammento iniziale pervenutoci, si apre con la riaffermazione di due punti saldi della riforma proposta: il ripristino del gonfalonierato «per assai tempo» e la riapertura del Consiglio maggiore, presentati come condizioni indispensabili a un «comune vivere» a Firenze (§§ 1-2). Ammesso il principio, varie concessioni sarebbero possibili, come l’abbassamento sotto i mille della soglia minima dei partecipanti al Consiglio o il controllo diretto o indiretto dell’elezione del gonfaloniere da parte del cardinale Giulio (§§ 3-6). Altre misure collaterali andrebbero prese per rafforzare e dare maggiore coerenza all’assetto istituzionale, grazie all’aumento delle competenze di alcuni organi «legislativi» e la soppressione di altri (§ 7); a questo scopo viene proposta l’abolizione del Consiglio del popolo e dei Cento sostituiti dal nuovo Consiglio grande (§ 8); ma il testo s’interrompe quando l’autore si accinge a trattare dell’ampliamento dei poteri di altri organi (§ 9).
La Minuta ricalca la struttura della «provvisione», cioè di una legge costituzionale – che crea un nuovo organo, come era stato il caso per la Provisione della Ordinanza (→ Ordinanza, Scritti sull’) del 1506, o che, come in questo caso, pone le basi per il funzionamento dello Stato. Di conseguenza la struttura del testo è tripartita: le ragioni che determinano la riforma e gli ideali a cui si ispira (§ 1); la riforma vera e propria descritta nei particolari dei suoi organi, dei rispettivi poteri e del loro funzionamento (§§ 2-17); le misure transitorie da adottare per continuare ad assicurare il potere ai Medici e permettere una progressiva transizione «democratica» (§§ 18-29).
Il preambolo della provvisione può essere letto come il testamento politico di M. per quanto riguarda il funzionamento «democratico» ideale di una repubblica: è una riflessione che riprende considerazioni espresse nelle opere maggiori, e in particolare i Discorsi, ma con un occhio più attentamente rivolto alle peculiarità fiorentine, come è il caso nelle contemporanee Istorie fiorentine. Come nel primo libro dei Discorsi viene esaltato, in quanto suprema missione politica, l’atto di dotare la repubblica di leggi che mantengano vivi i diritti e la libera espressione dei cittadini, che salvaguardino l’indipendenza dei governanti dalle pressioni degli interessi privati, che assicurino il rispetto e gli onori ai cittadini virtuosi e che bandiscano le rivalità di parte. In una visione retrospettiva, che ricorda la grande opera storica in corso di redazione, vengono evocate succintamente le vicende subite dalla città per la non osservanza di questi principi, e viene sottolineato il bisogno per Firenze di potersi amministrare e governare liberamente, seppur attentamente guidata dal cardinale in questi primi passi verso il ritorno a una forma di regime democratico. Rispetto al Discursus dell’anno precedente, sia l’analisi della situazione, sia le caratteristiche del processo democratico, segnato da un rimpasto delle istituzioni, sotto la guida del cardinale, potrebbero parere simili. Tuttavia, tanto nel Ricordo quanto nella Minuta, M. sembra avere ampiamente tenuto conto delle critiche che gli erano state mosse, probabilmente da alcuni concittadini o forse dal cardinale stesso, a proposito di un progetto di riforma che, come si è visto, Alessandro de’ Pazzi considerava «insolita a questa città e stravagante». Mentre la riapertura del Consiglio grande determinava nel primo progetto un rimpasto totale delle altre istanze deliberative ed elettive, designate anche con i termini nuovi di Consiglio dei Sessantacinque, dei Duecento e dei Mille, e mentre la preminenza sembrava data a quelli più ristretti, questo progetto prevede il ritorno di fatto al regime anteriore alla cacciata dei Medici e alla creazione del gonfalonierato a vita, più precisamente a quello istituito da Girolamo Savonarola dopo il 1494, con solo due Consigli: quello maggiore e quello dei Cento (che riprende le funzioni del vecchio Consiglio degli Ottanta). Inoltre la preminenza viene data al Consiglio maggiore, magnificato ed esaltato come fulcro della democrazia repubblicana. A esso spetta in particolare l’elezione del gonfaloniere di giustizia – capo del potere esecutivo, che rimarrà in funzione per tre anni (non a vita, come dal 1502 al 1512; ma nemmeno per un bimestre, come nella consuetudine fiorentina) – e la competenza fiscale. Il ritorno ancora più radicale al regime repubblicano è segnato non solo dalla riapertura di un Consiglio ad ampia partecipazione dei cittadini, per un numero non inferiore a 800, ma anche da due misure molto drastiche e dal forte valore simbolico: una, legislativa, che annulla tutte le disposizioni che possano limitare il potere del Consiglio, e l’altra, materiale, che prevede l’abbattimento delle pareti divisorie nel Palazzo della Signoria per fare nuovamente posto alla grande aula dell’assemblea dei cittadini:
si provede che, subito dopo la finale conclusione di questa, gli operai di Palagio [i magistrati incaricati di sovrintendere a manutenzione e ripristino del Palazzo della Signoria] sieno obligati e debbino restituire la sala antica dove detto Consiglio si ragunava, acciò che ora vi si possa ragunare ne’ pristini e antichi ordini suoi (Minuta, § 3).
In questa materialità dell’intervento degli «operai» sulle strutture simboliche del Palazzo e in questa evocazione dei «pristini e antichi ordini suoi» è evidente la nostalgia di M. per una libertà perduta. Anche nella terza parte della Minuta, in cui, come già nel Discursus, l’autore deve pur fare i conti con l’esigenza dei Medici di mantenere la loro autorità sulla città, il progetto è molto più ardito nella proposta di una rapida liberazione dalla tutela medicea. Mentre nel Discursus l’intervento dei Medici era onnipresente nelle elezioni ai Consigli e agli organi dirigenti, tanto che M. non esitava ad affermare che, almeno nell’immediato, questa democrazia di facciata nascondeva una monarchia assoluta di fatto, nel progetto del 1522 vengono distinte chiaramente le aree di competenza, sia nel funzionamento delle istituzioni sia nella durata. Il largo potere d’intervento dato ai Riformatori – un Consiglio di dodici ‘savi’ designati dai signori filomedicei – e al cardinale implica l’annullamento dell’onnipotente Balìa istituita nel 1512 ed esclude o ne limita il potere decisionale in alcuni ambiti, come il numero e le prerogative dei membri del Consiglio maggiore, le elezioni alle magistrature, tranne le prime Signorie e i primi Otto di guardia. Inoltre – e questa è l’innovazione assoluta del progetto – la durata dell’organo dei Riformatori, e dell’autorità data a esso e al cardinale, viene strettamente limitata a un anno: «non duri detta autorità data a’ detti Riformatori [...] e a detto Monsignore Reverendissimo de’ Medici, più che uno anno, da cominciare a dì primo di maggio prossime futuro» (§ 21). Al di là di quella scadenza, Firenze avrebbe ritrovato il suo pieno statuto di repubblica libera e «democratica»: ciò che può sembrare piuttosto utopistico vista l’indiscutibile volontà dei Medici di continuare a tenere lo Stato di Firenze sotto il loro stretto controllo, seppur con una parvenza repubblicana, come faranno fino alla loro cacciata nel 1527.
Bibliografia: Fonti: Frammento, in L. Passerini, Di una lettera inedita, «Lo statuto», appendice letteraria, 1849, 1, pp. 1-2; Minuta, in A. D’Ancona, Due scritture inedite di Niccolò Machiavelli, Pisa 1872 (per nozze Cavalieri-Zablan, XVI ottobre 1872); Edizione nazionale delle Opere di Niccolò Machiavelli, I. Opere politiche, 3° vol., L’arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi, Roma 2001 (in partic. Frammento, pp. 642-44; Minuta, pp. 645-54).
Per gli studi critici di vedano: G. Guidi, Niccolò Machiavelli e i progetti di riforme costituzionali a Firenze nel 1522, «Il pensiero politico», 1969, 2, pp. 580-96; G. Inglese, Il Discursus florentinarum rerum di N. Machiavelli, «La cultura», 1985, 23, 1, pp. 203-28; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, Bologna 1993, pp. 651-94.