RIFORMA DEL LAVORO.
– L’Italia e il jobs act
L’Italia e il Jobs act. ‒ La grande recessione, dal 2007, ha provocato la perdita di milioni di posti di lavoro e ha sollecitato nell’Unione Europea una messa in discussione dei meccanismi del mercato del lavoro. Sopraffatti anche dalla debolezza politica delle istituzioni comunitarie di fronte alla crisi, la risposta di molti Paesi europei all’elevata disoccupazione e agli squilibri di finanza pubblica è stata quella di ridurre gli strumenti di intervento statale considerati distorsivi del libero dispiegarsi del mercato per stimolarne i meccanismi autopropulsivi, intaccando anche la struttura del welfare state, del lavoro e dei diritti a esso collegati, che rappresentano un terreno particolarmente delicato e di complessa gestione su cui difficilmente si incontra una uniformità di giudizio. Esigenze di modernità sono alla base della riforma italiana del diritto del lavoro (d. l. 20 marzo 2014 nr. 34, l. 10 dic. 2014 nr. 183 e relativi decreti attuativi del 2015) definita Jobs act (nome che deriva da quello della legge statunitense del 2012 sulle piccole imprese, il Jumpstart our business startups act ). Fra le principali novità vi è l’introduzione del nuovo tipo di contratto lavorativo ‘a tutele crescenti’ per i nuovi assunti a tempo indeterminato, che prevede un sistema di garanzie destinate ad aumentare con l’anzianità del lavoratore.
Particolarmente controverse sono le modifiche all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (ulteriori rispetto a quelle già previste dalla legge nr. 92 del 2012): tranne che nei casi di licenziamenti nulli e discriminatori e specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, la tutela reintegratoria viene sempre esclusa per i licenziamenti economici e permane soltanto una tutela indennitaria-risarcitoria collegata all’anzianità di servizio. Sono inoltre introdotti nuovi istituti (flexicurity): la NASPI (Nuova prestazione di Assicurazione Sociale Per l’Impiego), un sussidio per il lavoratore rimasto disoccupato che partecipa a iniziative di attivazione lavorativa o di riqualificazione professionale; la Dis-Coll (Disoccupazione per i Collaboratori), ancora sperimentale, l’ASDI (ASsegno di DIsoccupazione) per i lavoratori in condizione «economica di bisogno» che al termine della NASPI non hanno trovato impiego. È modificata la CIG (Cassa Integrazione Guadagni) ordinaria e straordinaria (tetto limitato a 24 mesi in un quinquennio mobile o 36 mesi con il ricorso esclusivo ai contratti di solidarietà). La riforma inoltre amplia il sistema degli ammortizzatori sociali alle piccole imprese con oltre i 5 dipendenti (includendo così 1,4 milioni di lavoratori prima esclusi). Sono introdotte agevolazioni per le donne: maggiore flessibilità per il congedo parentale (esteso alle lavoratrici autonome, o iscritte alla Gestione separata INPS), part-time, ferie solidali, congedo dal lavoro per le donne vittime di violenzadi genere e così via. È abolita la categoria dei contratti di collaborazione a progetto, i discutibili co.co.pro., ed estese le norme del lavoro subordinato a tutti i rapporti di collaborazione «continuativi ed etero-organizzati». Sono introdotti incentivi alle imprese che assumono con contratto a tempo indeterminato, orari lavorativi meno rigidi e forme di telelavoro; è ampliata la digitalizzazione delle comunicazioni verso la Pubblica Amministrazione. Il datore di lavoro acquisisce maggiore discrezionalità sulle mansioni e può collocare il lavoratore sul livello di inquadramento inferiore (mantenendo, tranne la parte accessoria, il medesimo trattamento economico) in caso di ristrutturazione o riorganizzazione dell’impresa o effettuare controlli a distanza (fortemente criticati), dietro informazione preventiva ai lavoratori, anche a fini disciplinari. Sono istituiti l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL) e l’Ispettorato nazionale del lavoro, e vengono rafforzati i Centri per l’impiego (problematica è l’assegnazione delle competenze prima attribuite alle Province ora abolite).