Castravilla, Ridolfo
, Forse è lo pseudonimo di Leonardo Salviati; ma sussistono ancora dubbi (cfr. Vallone, p. 61). È autore di un Discorso nel quale si mostra l'imperfettione della Commedia di D. contro al " Dialogo delle lingue " del Varchi, conosciuto in diverse copie manoscritte sin dal 1572, poco dopo la pubblicazione del lavoro del Varchi e della Poetica di Aristotele del Castelvetro. Nel 1608 se ne ebbe la prima edizione a Siena, per cura di B. Bulgarini, edizione poi ristampata, sulla scorta del codice Magliabechiano IX 125, da M. Rossi, unitamente al Discorso in difesa di D. di F. Sassetti (Città di Castello, 1897).
L'opera sollevò subito grande scalpore, più di quanto la consistenza delle accuse meritasse: in difesa di D. intervennero il Sassetti, G. B. Vecchietti, A. Degli Albizzi, B. Gratarolo, I. Mazzoni, V. Borghini. L'episodio è significativo del clima aristotelico del tardo Cinquecento, nel quale si riconoscono e si accomunano così gli attacchi come le apologie per il loro " discorrere molto ma difendere poco " (Rossi). Se si esclude il pensiero del Borghini e, in parte, quello del Mazzoni, la diatriba non uscì dai limiti dell'arida precettistica dell'epoca. L'occasione all'irriverenza del C. fu offerta dal giudizio del Varchi che D. " non adegua Homero ma lo eccelle ". La smania retorica dei confronti giustificava qualunque eccesso, in un senso come nel suo opposto, e il C., con la speciosità del rigore sillogistico, poteva ribattere che la Commedia " tantum abest che e' sia quel che e' dice, che non è pur poema, e, dato, e non concesso, che fosse poema, non è poema heroico, e, dato, e non concesso, che fosse poema heroico, è in fra' poemi heroici malo poema, ed è tutto pieno d'imperfezioni in tutte le sue parti; cioè nella favola (dato e non concesso che habbia favola) e nel costume e nella dianea, o vuoi dire concetto, e nella dizione, o vuoi dire elocuzione " (ediz. Rossi, 20).
L'aristotelismo del C. non conosce ostacoli per giungere alla conclusione prestabilita: non è poema perché non è favola, non è favola perché non è " imitazione d'azione ", non è imitazione d'azione, perché è " sogno raccontato " (ibid. 21). In luogo dell'eroe, voluto dalla Poetica, c'è il " cittadino privato, di quelli che non dalli tragici o dalli epici, ma dalli comici s'inducono in scena " (p. 23). Sicché, le " imperfezioni " non si contano: vi sono ignorate, o conculcate, le leggi della " verisimiglianza, unità, semplicità, peripezia, agnizione ", ecc.; e Virgilio, che sa emulare Omero, viene invece " storpiato " da D., che " confonde e riempie [l'invenzione] d'episodi alieni et indecenti a materia heroica, e d'interessi privati et abietti" (p. 25); e la morale è intessuta di " disonesti e laidi concetti" (p. 31); e la dottrina è " un guazzabuglio delle lezioni che egli doveva udir da questo frate e da quello " (p. 31); e la elocuzione non conosce " osservanza di grammatica né rispetto o verecundia di vocabuli" (p. 32). Il C. conclude che null'altro lo ha indotto al suo Discorso se non " l'amor della verità ".
Bibl. - M. Rossi, Il C. smascherato, in " Giorn. d. " v (1897) 1-18; M. Barbi, Della fortuna di D. nel sec. XVI, Pisa 1890, 38 ss.; A. Vallone, Aspetti dell'esegesi dantesca nei secoli XVI e XVII attraverso testi inediti, Lecce 1966, 61-73, 75, 77, 79, 80.