ridere [la forma ridia, ind. imperf. III singol., è adoperata in Fiore CXLI 5]
Il verbo è di largo impiego nella Commedia (ma escluso, non casualmente, dalla prima cantica) e inoltre provvisto di molteplici connotazioni espressive, alcune prima di D. sconosciute; mentre sull'intera gamma semantica getta una trepida luce d'intimità la stupenda definizione di Cv III VII 11. (E che è ridere se non una corruscazione de la dilettazione de l'anima, cioè uno lume apparente di fuori secondo sta dentro?), spesso richiamata dagli esegeti per il disïato riso di If V 133 o per le diverse rappresentazioni di Beatrice nel Paradiso.
Nel valore intransitivo più consueto (a volte con particella pronominale pleonastica o col pronome dativo), " atteggiare la bocca a gioia ", " manifestare ilarità o sentimenti simili " con una composta mimica facciale, " sorridere ": con una connotazione di misura (deferente all'ideale classico del decoro come costante senso di equilibrio), che risulta bene da Cv III VIII 11 si conviene a l'uomo, a dimostrare la sua anima ne l'allegrezza moderata, moderatamente ridere, con onesta severitade e con poco movimento de la sua [f]accia. In varie gradazioni, il semantema può applicarsi a personaggi femminili: Vn XVIII 3 n'avea certe che si rideano tra loro; Rime LVIII 10 (per Violetta); LXVII 48 (Beatrice, piuttosto che la Donna gentile); Pg XVI 87; o alle anime del secondo regno: Pg XXV 103 Quindi [cioè per mezzo del ‛ corpo aereo '] parliamo e quindi ridiam noi. Ma è adibito anche ad Amore: Vn XXIV 7 6, XXV 2 Dico anche di lui che ridea, e anche che parlava; le quali cose paiono essere proprie de l'uomo, e specialmente essere risibile (cfr. Ep XIII 74 Si homo est, est risibile); Rime CXI 4 come sotto lui si ride e geme (secondo un ‛ topos ' ripreso da Petrarca, nel Tr. Cupid. III 151 ss.); o ad altra entità morale egualmente personificata: Cv III XV 19 essa filosofia pareva a me... fiera, ché non mi ridea (cfr. Riso). Tuttavia, è soprattutto verbo-chiave e quasi motivo conduttore della Beatrice ultraterrena, in una progressiva sublimazione spirituale quasi prefigurata dalla serenità prodigiosa di Matelda (in Pg XXVIII 67 e 76): da Pg VI 48 tu la vedrai... ridere e felice (qui anche la variante, men buona, ridente, in codici antichi e in edizioni moderne; cfr. Petrocchi, ad l.), a Pd XVI 14 ridendo, parve quella che tossio / al primo fallo scritto di Ginevra; XXI 4 e quella non ridea; ma " S'io ridessi "..., e 63; XXII 11 Come t'avrebbe trasmutato il canto, / e io ridendo (" se avessi sorriso "); XXV 28, XXVII 104. Si può in qualche modo ragguagliare a Cv III XV 19 il Crucciosa so ch'era, che non ridia, di Fiore CXLI 5.
Nell'infinito sostantivato (oltre che in Cv III VIII 11) ricorre in Pg XXI 122 del rider ch'io fei (cfr. un lampeggiar di riso al v. 114), e 127 Se cagion altra al mio rider credesti: si tenga conto che l'intero canto è tramato sulla dominante tematica del ‛ sorriso ', e qui sul cenno d'intesa fra D. e Virgilio captato da Stazio.
In sede di rima, il participio presente con valore di aggettivo (" sorridente lieto ", " palesante nel sorriso la beatitudine ") è - come il gerundio di Pd XXV 28 e XXVII 104 - connotazione quasi esclusiva dello sguardo di Beatrice (non rientra infatti in questo paragrafo Rime LXXXIII 39): per il sintagma occhi ridenti, in Pd III 42 e X 62; in altre ‛ iuncturae ', in XIV 79 e XXVII 96.
Sfuma invece nel significato affine di " ridere per sollazzo e divertimento ": Rime LXXXIII 39 e 43 E altri son che, per esser ridenti [Contini: " facili al riso "], / d'intendimenti / correnti voglion esser iudicati / da quei che so' ingannati / veggendo rider cosa [" che si ride di tal cosa "] / che lo 'ntelletto cieco non la vede; cui si accoda Fiore LXIV 2 s'ella ride, ridi, o balla, balla (nell'‛ ensenhamen ' di Amico ad Amante).
In costrutti diversi (determinati o meno da un complemento), ma sempre intransitivo, per " ghignare ironicamente ", " sghignazzare ", " irridere ", sciolto da un preciso rapporto col piano fisico della bocca nella sua varia mimica, e piuttosto orientato verso un atteggiamento mentale: Cv IV XV 6 forte riderebbe Aristotile udendo fare spezie due de l'umana generazione; XXVII 14, Pg XX 108; Pd V 81 'l Giudeo di voi tra voi non rida!; XXVIII 135 (accortosi in cielo della sua erronea opinione, Gregorio di se medesmo rise); XXIX 116.
Come " dileggiare ", " deridere ", regge il complemento oggetto nella dittologia sinonimica di Cv III IV 8 ridea e scherma la laidezza del suo corpo.
Una peculiare accezione tra il familiare e il gergale in Pd VI 131 i Provenzai che fecer contra lui / non hanno riso, cioè " non hanno avuto di che rallegrarsi " o (senza litote) " piansero, furono puniti della loro colpa " (Benvenuto: " Amare fleverunt et saepe suspiraverunt Romeum; nam officiales regis Franciae et Caroli non fuerunt postea ita benigni et gratiosi erga eos, sicut fuerat Raymundus comes et Romeus vicecomes "). In modo conforme, per " gioire " o " godere ", in Pd IX 103 Non però qui si pente, ma si ride, / non de la colpa, ch'a mente non torna, / ma del valor ch'ordinò e provide.
Più significativo che D. deduca dagli autori classici (Virgilio e Ovidio) l'espressivo traslato di r. per " avere un aspetto sereno ", " brillare ", " splendere ", " rifulgere ", " sfavillare " (di spettacoli celesti o naturali), giunto pari pari fino al Carducci (dov'è una vera costante stilistica): Pg I 20 rider l'orïente; all'ingresso di Beatrice in Mercurio la stella si cambiò e rise (Pd V 97; Buti:" come l'uomo quando ride dimostra la letizia dell'animo, così quel pianeto gittando maggior splendore dimostrò la natura sua più eccellente "); XXIII 26 Trivïa ride; XXVIII 83 'l ciel ne ride.
In un caso, r. si riferisce alla bellezza cromatica delle miniature: Pg XI 82 più ridon le carte / che pennelleggia Franco bolognese (" Quasi meglio sono illuminate ", postilla elegantemente il Landino). Di qui l'infinito sostantivato, per " splendore ", " luminosità " (cfr. Riso), in Pd XXX 77 'l rider de l'erbe, del prato fiorito intorno al miro gurge.
Si procede così fino alla metafora-chiave dello " splendere-tripudiare ", dunque " godere " o " gioire " paradisiaco, secondo il rapporto spontaneo che s'istituisce fra intimo ardore di carità e irraggiare esterno di fiamma viva (cfr. Amore 24.)
Possono servire di trapasso Giustiniano (Pd V 126 come tu t'annidi / nel proprio lume, e che de li occhi il traggi, / perch'e' corusca sì come tu ridi) e Cacciaguida, la luce in che rideva il mio tesoro (XVII 121); mentre rientrano pienamente in questa estensione figurata X 61 sì se ne rise / che lo splendor de li occhi suoi ridenti / mia mente unita in più cose divise (in un passo incentrato sulla ‛ reduplicatio ' delle parole-tema di ‛ gioia '-‛ luce '); X 118 Ne l'altra piccioletta luce ride / quello avvocato de' tempi cristiani (probabilmente Mario Vittorino, e non Orosio o s. Ambrogio); XXXI 134 Vidi a lor giochi quivi e a lor canti / ridere una bellezza, che letizia / era ne li occhi a tutti li altri santi: al tripudio festante degli angeli la bellezza di Maria " rifulgeva " irradiandosi negli sguardi dei beati, che rispecchiavano l'interno godimento.