Ricerca scientifica
La luce della scienza cerco e 'l beneficio
(Leonardo da Vinci)
Il ruolo della ricerca
di Lucio Bianco
13 febbraio
Oltre 1500 scienziati firmano un appello per protestare contro la direttiva del ministro delle Politiche agricole Alfonso Pecoraro Scanio, che blocca la sperimentazione in campo aperto sugli organismi geneticamente modificati, e in generale per richiamare l'attenzione sul problema della ricerca scientifica in Italia, destinataria soltanto dell'1% del prodotto interno lordo: una situazione che limita fortemente la possibilità di operare in questo settore e incrementa la fuga all'estero dei cervelli migliori.
Una definizione
Quando si parla di ricerca scientifica, all'opinione comune non viene in mente una persona che legge un libro seduta alla scrivania, ma piuttosto un ricercatore in camice bianco davanti a un alambicco o magari davanti a un computer. In sostanza si pensa automaticamente alle cosiddette scienze esatte (physical sciences): la matematica, la fisica, la chimica, la biologia e così via. In realtà, oggi è ricerca scientifica anche scrivere un saggio letterario, produrre libri a mezzo di libri, senza mai entrare in un laboratorio. Anche il lavoro degli studiosi delle scienze sociali e umane (economia, linguistica, storia e via enumerando) è quindi un'attività scientifica. Quest'attività può essere meno esatta, può non avere a che fare con i numeri, ma viene svolta con uguale rigore di quella delle scienze naturali. Ciò che accomuna gli studiosi, infatti, è il metodo di indagine. Sia il ricercatore che opera in laboratorio sia lo studioso umanista seguono un paradigma preciso: chiariscono le fonti, ossia specificano con precisione su quali lavori e quali autori basano la loro ricerca; specificano le ipotesi su cui si fondano le loro tesi; illustrano con chiarezza il processo razionale attraverso cui dall'ipotesi si arriva alla tesi. Questo significa che è ricerca scientifica anche scrivere un saggio su Dante.
Ciò che rende scientifica un'attività è la confrontabilità dei risultati, l'apertura al confronto con gli altri, la ripetibilità degli esperimenti, la cumulatività del sapere. Questo metodo distingue la ricerca scientifica dalla speculazione intesa come elaborazione di tesi, senza chiarire le ipotesi che le sottendono e senza proporre un metodo per convalidare le tesi stesse. Questa visione, probabilmente, non è del tutto rigorosa dal punto di vista della filosofia della scienza, ma è utile a sostenere l'obsolescenza del modello delle due culture, che tende a vedere come mondi separati le scienze esatte e le scienze umane. Oggi non esiste più una rigida separazione tra le singole discipline, ma prevale l'approccio interdisciplinare ai problemi, perché i settori più innovativi sono proprio quelli che si collocano alla linea di confine tra ambiti disciplinari diversi. In questo contesto la contaminazione tra scienze esatte e scienze umane non soltanto è feconda di nuovi risultati, ma è talvolta necessaria per raggiungere traguardi importanti. Uno degli esempi più significativi è quello della ricerca nel campo dei beni culturali e ambientali, particolarmente interessante per il nostro paese; in questo settore chimici, fisici, ingegneri, informatici, archeologi e storici lavorano insieme per la conservazione, la valorizzazione e la fruizione del patrimonio artistico, culturale e ambientale.
Fatta questa premessa, occorre sottolineare che il tema della ricerca scientifica è oggi più che mai all'attenzione dei governi e dell'opinione pubblica perché, negli ultimi decenni e in particolare negli ultimi anni, sono emersi problemi di carattere generale che non riguardano tanto questo o quel settore, ma che mettono in discussione tutto l'agire scientifico. I temi più rilevanti sono due. Il primo è quello del rapporto tra ricerca scientifica, sviluppo tecnologico e sviluppo socioeconomico. Si fa un gran parlare, in Italia e nel mondo, dell'esigenza di una maggiore connessione tra ricerca scientifica e sistema produttivo, nella consapevolezza, sempre più diffusa, del valore strategico che la ricerca può avere per il miglioramento della qualità della vita delle nazioni. Il secondo tema attiene alla cosiddetta etica della scienza. Prodotti transgenici, impiego degli embrioni, sistemi tecnologici ed energetici suscitano perplessità e generano paure che possono indurre atteggiamenti antiscientifici e pongono problemi etici e di coscienza di non facile soluzione. Analizzeremo queste problematiche sulla base dell'esperienza accumulata e tenendo presente l'esigenza di un approccio fondato su un sistema di valori condivisi. Ciò è necessario affinché sia possibile, come si dice oggi, 'vivere in rete'.
Scienza, tecnologia e sviluppo economico
Due secoli fa la macchina a vapore di James Watt dava inizio a un processo di trasformazione di dimensioni e profondità tali da sconvolgere in pochi decenni un modo di vivere consolidato nel corso dei secoli. Infatti, la ferrovia, il battello a vapore e il telegrafo prima, il motore a scoppio, l'automobile, l'aereo, il telefono, la chimica e l'elettricità successivamente, hanno dato luogo a un nuovo assetto della società, delle città e delle campagne e quindi a una nuova organizzazione sociale, che è sostanzialmente quella in cui noi siamo inseriti. Se si guardano gli ultimi due secoli ci si accorge che si è trattato di un processo di trasformazione globale che affonda le sue radici nel Rinascimento e che è stato alimentato dalla convinzione profonda che la ricerca scientifica e l'approccio razionale ai problemi sono indispensabili per il progresso.
Questa fiducia nella scienza, nata con Galileo Galilei e limitata dapprima a certi ambienti intellettuali, si è estesa poi a tutti i settori, facendo sì che oggi la scienza e la tecnologia penetrino, per mille vie diverse, nel tessuto stesso della nostra società e della vita individuale. Numerosi e diversificati sono gli esempi di esperienze di ricerca fondamentale, magari cominciate semplicemente nei laboratori, che hanno portato a una serie di applicazioni e di trasformazioni nell'industria e nei servizi. Si è consolidata la convinzione che esista un legame stretto tra l'avanzamento delle conoscenze, che è il risultato della ricerca scientifica, l'applicazione, in modo organizzato, di queste conoscenze a scopi pratici, che dà luogo alla tecnologia, e l'innovazione tecnologica, che si riferisce alla trasformazione di un'invenzione in un prodotto o in un processo nuovo o migliorato.
Il problema nasce quando si vuole analizzare questo legame e si vogliono definire le interazioni tra scienza e tecnologia, ricerca scientifica e innovazione tecnologica. Si tratta di interazioni complesse, non statiche e non unidirezionali. La tecnologia ha infatti iniziato lo sviluppo poco più di un secolo fa, subentrando alla tecnica intesa come insieme di invenzioni empiriche e ingegnosità artigiana. Facciamo una breve parentesi e diamo una definizione di tecnologia, come entità diversa dalla tecnica e dalla scienza. La scienza è la ricerca di principi fondamentali e generali; la tecnica è l'applicazione pratica di questi principi. La tecnologia è qualcosa di più sottile e pervasivo, ragione per cui occorrono più parole per definirla. È, per es., il sistematico prendere appunti mentre si fanno le cose (la produzione industriale in particolare), è prendere nota di fatti, anche minimi, che tuttavia stanno tra i principi generali e l'efficace risultato pratico della loro applicazione. La tecnologia è, per dirla con Dante, il continuo lottare contro la "materia ... sorda a l'intenzion de l'arte". Questi appunti vanno poi riletti, sistematizzati e trasmessi a un numero notevole di persone, soprattutto a persone non di scienza ma operative. Questo processo si chiama knowledge management (gestione della conoscenza): è noioso, ma è l'ultima tappa che conta per arrivare a lanciare sul mercato un prodotto migliore del precedente o del tutto nuovo.
La tecnologia è andata dunque evolvendosi con ritmi e velocità crescenti e con interazioni con la scienza sempre più forti. Queste interazioni non vanno solo dalla scienza alla tecnologia, ma anche dalla tecnologia alla scienza, in un concatenarsi di azioni e reazioni che è diverso da settore a settore. La storia della scienza e della tecnologia è disseminata di esempi che convalidano questo intreccio. Il risultato di tutto ciò è che oggi viene generalmente riconosciuto come un'adeguata attività di ricerca sia condizione necessaria, anche se non sufficiente, per l'innovazione tecnologica e per lo sviluppo socioeconomico. Non vi sono esempi di paesi con elevato tasso di innovazione tecnologica in cui non vi sia anche una consistente attività di ricerca, mentre si possono citare esempi di paesi, o settori, in cui anche un elevato livello di ricerca scientifica non riesce ad assicurare lo sviluppo tecnologico ed economico. Questo dipende dalla circostanza che l'innovazione tecnologica, conseguenza del livello tecnologico di un paese, si realizza in concreto attraverso processi di ingegnerizzazione, produzione e commercializzazione che si sviluppano in un contesto condizionato spesso in maniera decisiva da scelte politiche, economiche e sociali. Si fa ricerca, quindi, perché essa consente di acquisire conoscenze nuove, utili al benessere economico e al miglioramento della qualità della vita. Questa è l'esperienza della storia dell'umanità. Ciascuno fissi la propria data di inizio: dai fenici, dagli egizi, dai romani o, più recentemente, da Galileo Galilei, a cui risale la scienza moderna.
L'attuale processo di innovazione tecnologica
L'innovazione tecnologica è sempre stata, in senso generale, una spinta continua al cambiamento della struttura e dei contenuti professionali della forza-lavoro nella società. Per secoli, tuttavia, e fino a non molto tempo fa, il ritmo di cambiamento delle tecnologie è stato così lento che, nell'arco della vita lavorativa media di un uomo, cioè nell'arco di alcuni decenni, i cambiamenti che si verificavano non riuscivano a modificare in modo consistente i contenuti fondamentali di un'attività lavorativa o di una professione. Ogni lavoratore poteva quindi basare la sua crescita professionale e sociale sull'esperienza progressivamente acquisita. Negli ultimi tempi, però, soprattutto con lo sviluppo delle comunicazioni e con l'allargamento dei mercati, il ritmo di evoluzione dell'innovazione tecnologica ha raggiunto valori talmente elevati da mettere sempre più a dura prova le capacità di adeguamento degli uomini e delle strutture produttive ai cambiamenti che si verificano. Si determinano così nuove attività lavorative, o si modificano le preesistenti, con un ritmo sempre crescente, facendo sì che le conoscenze necessarie per svolgere tali attività debbano essere acquisite in tempi sempre più brevi. In definitiva, la preparazione professionale acquisita con la scuola e durante l'inizio dell'attività lavorativa richiede un continuo aggiornamento e, in alcuni casi, anche drastiche riconversioni. Questo ovviamente ha riflessi fondamentali anche sui modelli formativi che, ai vari livelli, la scuola può proporre.
Ritornando all'innovazione, il processo relativo, che è un fatto prevalentemente, ma non esclusivamente, tecnologico, può essere visto come una catena a maglie continue che va dalla ricerca fondamentale (o di base) alla ricerca applicata, allo sviluppo, alla dimostrazione e infine all'industrializzazione e alla commercializzazione. Eventuali anelli non sufficientemente robusti di questa catena rendono precaria, se non impossibile, la 'messa in trazione' dell'intero processo. In sostanza, il meccanismo che consente l'innovazione risiede in un processo evolutivo in cui sistema produttivo e sistema tecnico-scientifico interagiscono in modo complesso, dando luogo a un ciclo che, favorendo il trasferimento verticale della tecnologia, genera il cambiamento tecnologico. Questo è lo schema classico. In realtà il problema, in questi ultimi anni, si è ulteriormente complicato a causa della crescente diffusione delle cosiddette tecnologie avanzate (microelettronica, informatica, telecomunicazioni, materiali intelligenti ecc.) che sono tecnologie di tipo orizzontale, in quanto incorporabili in beni di produzione diversi. Per questa ragione esse sono anche etichettate come infratecnologie e hanno dato luogo a un fenomeno di invasione tecnologica che travalica i confini dei singoli settori produttivi. Ci troviamo di fronte a una crescente intersettorialità della tecnologia, che ha reso obsoleto il tradizionale schema tendente a distinguere i settori in crescita o avanzati, come quelli appena citati, dove l'innovazione è sostanziale, da quelli cosiddetti maturi, dove l'innovazione è meno visibile.
Il superamento di questa distinzione fra diversi settori deriva dalla constatazione che il successo dei rami avanzati dipende fortemente dal grado di investimenti proprio nei settori maturi, che rappresentano i clienti di riferimento su cui innovare (leading edge customers, "clienti di frontiera"). Un esempio tipico è il campo dei trasporti e in particolare quello degli autoveicoli, dato per moribondo qualche decennio fa; esso ha avuto una ripresa in questi ultimi anni proprio grazie all'innovazione tecnologica di processo e di prodotto.
In sostanza, il cambiamento tecnologico intervenuto dagli anni Ottanta in poi appare caratterizzato da un processo innovativo che coinvolge orizzontalmente le strutture produttive e l'attività produttiva in generale, andando a toccare punti nevralgici dell'attività economica, al di là delle tradizionali separazioni settoriali (automobili, tessili, edilizia ecc.) che caratterizzano le innovazioni ad azione verticale. Proprio questa propagazione orizzontale della tecnologia è il dato più significativo dell'attuale processo di innovazione tecnologica.
Nuove tecnologie e occupazione
Parlare del rapporto tra nuove tecnologie e occupazione non è facile perché si rischia di cadere in luoghi comuni, addebitando alle nuove tecnologie l'aumento della disoccupazione, oppure vedendo in esse la strada per nuove opportunità di lavoro, per nuovi mestieri impensabili senza di esse. Proveremo perciò a restare lontani da entrambe le suggestioni per tentare di analizzare questo rapporto nel modo più distaccato possibile.
La prima considerazione da fare è che comunque il problema dell'occupazione dipende non solo dalle tecnologie, ma anche dal contesto generale e dai contesti specifici di riferimento. In relazione al contesto generale, possiamo provare a riassumere i processi in atto: l'ondata di innovazione generata da un gruppo di tecnologie sempre più interagenti (basti pensare alla progressiva convergenza tra informatica e telecomunicazioni oggi e, nel prossimo futuro, tra materiali e biologia). Siamo, a giudizio di molti, di fronte a uno di quei cicli di innovazione che si verificano circa ogni 50 anni (cicli di Kondriatev); la mondializzazione, che sta provocando una ristrutturazione del mondo in grandi aree, con un progressivo indebolimento delle frontiere nazionali e della relativa sovranità; la modificazione innegabile dell'ambiente naturale, che ha portato all'introduzione del concetto di sviluppo sostenibile e di sostenibilità e ha fatto nascere complessi problemi etici come conseguenza della possibilità di intervenire nel cuore stesso della materia e della vita.
Un tale contesto pone problemi di controllabilità, cioè di capacità di guidare i processi. L'esperienza storica dimostra che il grado di controllabilità della tecnologia è molto ridotto e, in ogni caso, si riduce a mano a mano che l'onda d'innovazione si propaga. Peraltro, la tradizionale catena lineare (ricerca - innovazione - sviluppo - crescita - occupazione) non interpreta più la complessità delle interazioni in gioco. Le nuove tecnologie provocano mutamenti quantitativi e qualitativi nell'occupazione che hanno assunto, a partire dagli anni Ottanta, dimensioni rilevanti e per certi aspetti preoccupanti, in quanto apparentemente non governabili dall'uomo. Il problema è quindi cercare di capire la complessità dei fenomeni in gioco, per ricavarne elementi utili ad accrescere il loro grado di controllabilità.
Proviamo pertanto ad analizzare quali sono gli effetti che le nuove tecnologie provocano negli altri settori produttivi, agendo in modo trasversale rispetto a essi. Sintetizzando si può dire che gli effetti sono di due tipi: diretti e indiretti. Effetti diretti sono, per es., un miglioramento della conoscenza dei processi e dei fenomeni a cui le nuove tecnologie sono applicate; un avanzamento qualitativo e quantitativo degli stessi processi e fenomeni, sia nel modo in cui vengono realizzati sia nel loro controllo; maggiori affidabilità e sicurezza delle tecnologie, dovute al fatto che l'uomo interviene sempre meno in modo diretto nel loro normale funzionamento. Effetti indiretti sono, per es., l'innalzamento della qualità professionale media degli addetti al settore; l'aumento delle conoscenze generali del settore stesso e quindi la sua evoluzione complessiva verso migliori prestazioni e risultati; la dinamicità e l'espansione del mercato di ogni singolo settore con il miglioramento dei prodotti esistenti e l'individuazione di prodotti nuovi. Da tali caratteristiche deriva che l'introduzione di queste nuove tecnologie ha un impatto immediato e significativo sul mercato del lavoro e quindi sull'occupazione, impatto sul cui segno occorre riflettere a fondo e sul quale esiste ampia divergenza di opinioni.
Molti sostengono che queste tecnologie, essendo labor-saving, provocano un'immediata e consistente espulsione di forza-lavoro dai settori occupati, con drammatiche conseguenze socioeconomiche. A questa tesi altri controbattono con tre argomentazioni: innanzi tutto le nuove tecnologie, cambiando il modo di produrre in certi settori, provocheranno una riduzione di manodopera meno qualificata, ma accresceranno sia l'esigenza di manodopera più qualificata, sia quella di servizi tecnici e amministrativi; inoltre queste tecnologie, rivitalizzando i settori più maturi, ne aumenteranno la capacità produttiva, con conseguente produzione di nuovi beni e servizi che darà luogo a successivi incrementi di reddito prodotto e quindi di opportunità occupazionali nel medio periodo; infine le nuove tecnologie consentiranno di creare posti di lavoro ex novo perché permetteranno di espandere le possibilità di lavoro (tramite Internet e la new economy).
È ovvio che vi è del vero in entrambe le posizioni e che il nodo del problema è sulla possibilità di equilibrio temporale tra questi effetti contrastanti e soprattutto sulla capacità di governare la transizione da una situazione all'altra. A questo proposito occorre avere acquisito due consapevolezze. La prima è che l'innovazione nei settori maturi deve, per definizione, portare a una riduzione dell'occupazione negli stessi settori, come conseguenza dell'incremento di produttività non sempre sostenibile con un aumento di presenza internazionale (come, per es., nel caso dell'industria automobilistica). La seconda è che è impossibile realizzare una graduazione nel tempo degli effetti negativi sull'occupazione e ciò per almeno tre ragioni: competitività internazionale, per cui l'occupazione diminuirebbe ugualmente a causa del ridursi delle quote di mercato; rallentamento nello sviluppo di nuove tecnologie a livello nazionale, con accresciuta dipendenza dall'estero; ritardo nell'avvio di quel processo di creazione di nuovi prodotti e servizi su cui può basarsi l'incremento occupazionale nel medio periodo.
In sostanza un processo di innovazione lento, o comunque più lento di quello dei concorrenti, non avrebbe effetti positivi sull'occupazione nel breve periodo e rischierebbe addirittura di vanificare i potenziali benefici futuri. Il rapporto tra nuove tecnologie e occupazione è complesso e, nell'immediato, contraddittorio. Per renderlo positivo occorre inquadrarlo in un'ottica di medio periodo e mettere in atto le politiche conseguenti. La fuga dalla tecnologia, tuttavia, garantirebbe soltanto arretratezza.
Scienza ed etica
Dopo le motivazioni pratiche della ricerca, esaminiamo le questioni di coscienza che essa coinvolge. Da sempre la ricerca scientifica pone problemi alla coscienza dell'uomo. Già Tibullo si chiedeva: Quis fuit horrendos primus qui protulit enses?, "chi fu che per primo produsse le orrende spade?"; se non fossero state inventate le armi, gli uomini non si sarebbero fatti tutto il male che ancora si fanno. Il senso traslato di questa considerazione è: poiché la scienza può produrre mostri, risolviamo il problema alla fonte, proibendo la ricerca scientifica. Il problema etico è riassumibile nelle domande, che molti si pongono: perché conoscere cose che potrebbero danneggiarci? E inoltre, quale significato ha cercare di spiegare su basi scientifiche il senso della vita?
In questa materia occorre evitare eccessi di scientismo. Peccano in questa direzione gli scienziati, che vedono nella scienza la risposta a ogni problema, ma sono viziate dallo stesso peccato anche molte critiche alla scienza. Nel campo della ricerca sui meccanismi della vita, per es., la scienza potrà illuminarci sui fenomeni biochimici di base, ma non potrà mai svelare il senso profondo della vita, perché non è ciò che cerca e perché non è questo il suo compito. Vietare che la scienza progredisca non dirada né infittisce il mistero del creato; ci rende solo meno motivati a vivere.
L'uomo fa ricerca scientifica, infatti, non solo perché ha fame di benessere, ma anche perché ha sete di conoscenza. In sostanza, si fa ricerca scientifica perché non si può fare a meno di farla. È un imperativo biologico, come quello di avere figli. È ben noto l'aneddoto del fisico Michael Faraday che, a chi gli chiedeva a cosa servissero le sue scoperte, rispondeva: "A che serve avere un figlio?". In questa risposta sono sintetizzate le ragioni che spingono l'uomo a spostare sempre più in avanti le frontiere della conoscenza.
Nel difficile rapporto tra etica e scienza occorre tuttavia distinguere il sapere dalle azioni, in quanto le azioni umane non dipendono solo dal sapere, ma soprattutto dalla dirittura morale di chi le compie. Non si possono mettere conoscenze scientifiche in mano a persone irresponsabili, ma dare la responsabilità non è compito della scienza e l'assenza di responsabilità in alcuni non è ragione per vietare la scienza.
In definitiva, la scienza non va limitata, per ragioni di base e per ragioni di opportunità. Le ragioni di opportunità sono banali: se non lo facciamo noi, lo farà qualcun altro e comunque ne subiremo le conseguenze; meglio quindi essere preparati. Le ragioni di base si possono sintetizzare tornando di nuovo a Tibullo, che aggiunge alla invettiva già citata una considerazione moderata: "Forse il poveretto che ha inventato le spade non ha colpa; siamo noi che abbiamo rivolto contro noi stessi strumenti destinati a difenderci dalle belve feroci". Il male generato dalle armi non è solo un problema di chi le costruisce. La conoscenza è come il pensiero dell'individuo: si può pensare di tutto, anche le cose peggiori, sia pure per un solo istante. L'azione dell'individuo è un'altra cosa, che deve essere temperata dalla volontà e dal consiglio. A livello sociale tale azione deve trovare una regolamentazione nel modo che ogni società riterrà più opportuno, ma questo non rappresenta un motivo per rifiutarsi di conoscere. In conclusione, la ricerca scientifica non va limitata nel suo svolgimento. Farlo sarebbe illiberale e soprattutto inutile: produrrebbe soltanto clandestinità e ci lascerebbe più arretrati di quanto non siamo, non solo sul piano tecnico, ma anche sul piano morale. Ci farebbe trovare meno preparati il giorno in cui la novità - che, come l'acqua, va dappertutto - arrivasse alle nostre porte. La ricerca scientifica è un problema troppo serio perché se ne scarichi il peso sui soli operatori: la società nel suo complesso deve decidere che fare della scienza e non può lavarsene le mani semplicemente impedendo agli scienziati di ricercare. La maturità deve essere di tutti.
La ricerca italiana nel contesto europeo e internazionale
Il nostro paese è stato finora caratterizzato da una scarsa propensione all'innovazione, avendo basato la competitività del proprio sistema produttivo prevalentemente sul basso costo del lavoro e sulla possibilità di svalutazione della moneta. La concorrenza dei paesi emergenti e l'ingresso nel sistema della moneta unica europea hanno ormai tolto ogni efficacia a questi fattori, per cui in futuro la competitività sarà sempre più fondata sulla qualità e sulla capacità di innovazione del prodotto. Entrambe queste caratteristiche presuppongono un forte sistema scientifico e formativo. Tale consapevolezza comincia a essere diffusa ai diversi livelli decisionali, ma non si è ancora concretizzata in decisioni operative significative. Gli avvenimenti più rilevanti degli ultimi anni sono stati la riforma del sistema della ricerca pubblica e l'approvazione del Programma nazionale della ricerca (PNR), avvenuta nel dicembre 2000, che definisce un quadro di interventi prioritari sufficientemente puntuali da configurare una strategia in termini di politica della ricerca. Tuttavia, anche nelle recenti riforme, ogni ministero ha la sua ricerca: ognuno è committente di sé stesso, non vi sono alterità e confronto, non vi è sinergia. Resta inoltre ancora da definire un quadro di risorse finanziarie significativo, corrispondente agli ambiziosi obiettivi del PNR.
A causa di questa situazione, non è ancora cambiata sostanzialmente la posizione dell'Italia rispetto alle altre nazioni europee. Infatti, il nostro paese, dove soltanto l'1% circa del PIL è investito in ricerca e sviluppo, occupa uno tra gli ultimi posti in Europa, fortemente staccato da Germania, Francia e Regno Unito - che sono le nazioni più vicine per dimensioni ed esigenze di ricerca -, nonostante il Trattato di Maastricht preveda l'allineamento anche di questo parametro, oltre a quelli più noti dell'inflazione e del rapporto tra deficit pubblico e PIL. Inoltre, il commissario europeo alla ricerca scientifica, Philippe Busquin, ha lanciato il progetto di uno spazio comune europeo per la ricerca (European research area) che dovrebbe essere un primo passo verso un'integrazione dei sistemi scientifici nazionali in un sistema europeo. Anche il Parlamento europeo ha sollecitato i paesi membri a uno sforzo in questo settore, che porti la media degli investimenti europei al 3% del PIL, nella convinzione che sia questa la strada per poter competere con le altre aree forti del mondo (Stati Uniti e Giappone).
Peraltro, ritornando alla situazione italiana, ogni azione tendente a modificare questo stato di sottodimensionamento del nostro sistema scientifico richiederebbe di analizzare meglio la percentuale, pari all'1,1%, di investimenti nel settore della ricerca scientifica e tecnologica. Ci accorgeremmo allora della coesistenza di due problemi. Il primo è che il gap con gli altri paesi è dovuto molto di più alla scarsa quota di investimenti privati che alla quota di investimenti pubblici; occorre quindi un'azione governativa mirata a incentivare l'intervento privato nella ricerca. Il secondo problema è che la cifra spesa dall'Italia è perfettamente coerente con il numero di addetti alla ricerca, cioè con la nostra capacità di sviluppare attività scientifica; da questo punto di vista la situazione italiana è allineata a quella degli altri paesi europei. La questione è che le nostre esigenze di ricerca sono largamente superiori alle nostre potenzialità, per cui l'adeguamento delle risorse finanziarie non può essere considerato a sé stante, come spesso avviene nei numerosi dibattiti sull'argomento, ma deve essere correlato con l'aumento degli addetti alla ricerca sia nel settore pubblico, sia in quello privato. Occorrono, in sostanza, un grande piano di formazione di nuovi ricercatori e contemporaneamente un aumento delle risorse finanziarie per consentire loro di fare ricerca. Una tale azione potrebbe contribuire a risolvere altri due problemi che spesso vengono evidenziati: l'età media elevata del nostro personale di ricerca e la cosiddetta fuga di cervelli, che spesso si verifica a causa della mancanza di opportunità.
Conclusioni
La ricerca scientifica è destinata ad assumere nel mondo moderno un ruolo sempre più decisivo per lo sviluppo socioeconomico. Nello stesso tempo, lo sviluppo tecnologico e le nuove frontiere della biologia pongono problemi etici che non possono essere elusi con atteggiamenti di rifiuto o di limitazione della scienza. Occorre anzi aumentare lo sforzo nella ricerca di base, proprio per approfondire le conoscenze necessarie a dare risposte adeguate alle sfide che l'umanità deve affrontare. In questo contesto, è necessario che l'Europa rafforzi il proprio sistema scientifico per dialogare alla pari con Stati Uniti e Giappone. Nel quadro europeo uno sforzo particolare deve essere fatto in Italia. Oggi che nel nostro paese è stata attuata una riforma del sistema della ricerca pubblica e che si è dato avvio anche all'attività di monitoraggio e valutazione dei risultati, è venuto il momento di affrontare la questione di un adeguamento sia delle risorse finanziarie, sia di quelle umane. In questo contesto occorre avere la consapevolezza che il ritorno di un tale investimento è, per sua natura, differito nel tempo e quindi difficilmente fruibile da chi se ne facesse promotore. Il Programma nazionale della ricerca, promosso dal ministro dell'Università e della ricerca scientifica e tecnologica e approvato dal CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica), si muove in questa direzione; il Parlamento dovrà dimostrare lungimiranza politica nel sostenerlo concretamente, perché investire nella ricerca scientifica e nella formazione è il miglior modo di investire nel nostro futuro.
Tabella
repertorio
I laureati Nobel della scienza italiana
Il contributo italiano all'avanzamento della conoscenza scientifica, pur nella ridotta percentuale di risorse poste a disposizione della ricerca e dei ricercatori in Italia, computata negli ultimi anni e al presente con riferimento al prodotto interno lordo del paese, è stato qualitativamente di alto livello. Ne danno testimonianza, nei vari campi della scienza, i premi Nobel attribuiti dall'Accademia delle Scienze svedese a scienziati italiani, di nascita o per adozione del luogo di attività.
Nel seguito, limitatamente a quelli delle cosidette scienze esatte, si delineano brevemente le ricerche e i risultati da loro conseguiti.
Camillo Golgi
Il Premio Nobel per la fisiologia o la medicina fu assegnato a Camillo Golgi, insieme allo spagnolo Santiago Ramón y Cajal, nel 1906, "in riconoscimento del loro lavoro sulla struttura del sistema nervoso".
Golgi nacque a Corteno (Brescia) il 7 luglio 1843. Figlio di un medico, frequentò la facoltà di medicina dell'Università di Pavia, avendo docenti illustri come B. Panizza, P. Mantegazza, E. Ohel, e si laureò, a soli 22 anni, con una tesi Sull'eziologia delle alienazioni mentali, di cui fu relatore C. Lombroso. Dopo la laurea, entrò come assistente nell'Ospedale S. Matteo di Pavia, dove ebbe modo di frequentare diversi reparti specializzati, come quelli di clinica psichiatrica, di chirurgia, di dermosifilopatia; il suo interesse prevalente, tuttavia, fu riservato all'anatomia microscopica, a cui era stato indirizzato da G. Bizzozero, direttore del laboratorio di patologia sperimentale.
Nel 1872 ebbe un posto di medico primario nella Casa degli Incurabili di Abbiategrasso e fu in un piccolo laboratorio della sua nuova sede che, nel 1873, proseguendo nei tentativi già iniziati a Pavia, mise a punto un importante metodo di ricerca microscopica, chiamato della reazione nera o della reazione cromoargentica (successivamente noto come metodo di Golgi), consistente nella fissazione di tessuto nervoso con bicromato di potassio e nella sua impregnazione con nitrato d'argento. Il preparato in tal modo ottenuto rivelava al microscopio tutte le strutture della cellula nervosa, colorate in nero e perfettamente nitide, con una netta visualizzazione dei contorni cellulari e dello sviluppo dei prolungamenti. Applicando il metodo della reazione nera, al quale apportò continui miglioramenti, Golgi compì fondamentali osservazioni al microscopio di parti di tessuto nervoso (corteccia cerebrale, cervelletto, piede d'ippocampo, corpo calloso, bulbi olfattori, midollo spinale, fibre nervose ecc.). Pubblicò le sue ricerche su varie riviste italiane; in particolare, una serie importante di articoli, apparsi tra il 1882 e il 1885 sulla Rivista sperimentale di freniatria, fu raccolta nel volume Sulla fina anatomia degli organi centrali del sistema nervoso (1886).
I primi risultati conseguiti con il suo metodo gli avevano intanto aperto la carriera accademica: incaricato nel 1875 dell'insegnamento di istologia a Pavia, nel 1879 vinse la cattedra di anatomia a Siena e l'anno successivo fu chiamato a Pavia come professore di istologia e poi di patologia generale. Nel 1890 fu nominato rettore dell'Università di Pavia e socio nazionale dell'Accademia dei Lincei, e nel 1900 fu eletto senatore del Regno. Durante la Prima guerra mondiale diresse l'Ospedale militare di Pavia, dove creò un centro per lo studio e il trattamento delle lesioni nervose periferiche e un centro di terapia meccanica per la riabilitazione dei feriti. Morì a Pavia il 21 gennaio 1926.
Con i suoi studi Golgi fornì una descrizione completa e precisa della cellula nervosa, distinguendo nettamente il neurite dai prolungamenti protoplasmatici; offrì una classificazione delle cellule in base alla struttura del loro prolungamento nervoso, che può andare a formare il cilindrasse di una fibra nervosa oppure suddividersi in un fitto intrico di rami; dimostrò che i prolungamenti protoplasmatici, dopo essersi ramificati, terminano liberi, cioè non vanno a formare una rete anastomizzandosi con i dendriti di altre cellule, così come sosteneva la teoria allora più accreditata dell'istologo J. von Gerlach. Sulla base delle osservazioni compiute, Golgi prospettò, invece, una sua teoria anatomofisiologica del sistema nervoso, la quale ipotizzava l'esistenza nella sostanza grigia di un'intricatissima, fine e fitta rete di filamenti provenienti dai neuriti di diversi tipi di cellule, che Golgi chiamò rete nervosa diffusa. Questa struttura, traente origine dai prolungamenti nervosi e perciò essenzialmente diversa da quella supposta da Gerlach, apparve ai suoi occhi come l'organo principale del sistema nervoso, quello in grado di collegare tra loro anatomicamente e funzionalmente, attraverso un esteso insieme di maglie, le cellule di diverse regioni cerebrali. La teoria della rete nervosa diffusa, sottesa da un presupposto olistico accettato da Golgi, cioè da un'idea-guida secondo cui il sistema nervoso centrale ha una struttura reticolare e trasmette l'impulso nervoso con un'azione d'insieme, fu criticata da Ramón y Cajal. Questi, sviluppando il metodo di osservazione microscopica di Golgi (conosciuto con un certo ritardo in ambito internazionale), formulò, a partire dal 1888, la teoria del neurone (termine coniato nel 1891 da W. Waldeyer), che si opponeva sia alla tesi dell'italiano (con il quale ebbe una vivace polemica), sia alle altre teorie reticolariste dominanti in quegli anni.
Altro contributo essenziale di Golgi alla ricerca scientifica fu, nel 1898, la scoperta nel citoplasma della cellula di una struttura, da lui chiamata apparato reticolare interno e in seguito conosciuta come apparato o corpo del Golgi, formata da un insieme di cavità appiattite, in cui sono contenuti i prodotti di secrezione della cellula. Golgi compì inoltre importanti studi sulla malaria, descrivendo, tra il 1885 e il 1893, il ciclo evolutivo dei parassiti della terzana e della quartana, con l'individuazione dei rapporti tra le fasi del loro sviluppo e l'insorgenza dell'accesso febbrile, e la precisazione della patogenesi della perniciosa.
Guglielmo Marconi
Guglielmo Marconi fu insignito del Premio Nobel per la fisica nel 1909, insieme a Karl Ferdinand Braun, "in riconoscimento del loro contributo allo sviluppo della telegrafia senza fili".
Marconi nacque a Bologna il 25 aprile 1874. Di padre italiano e madre irlandese, compì i suoi studi per lo più privatamente, salvo un breve periodo in cui frequentò prima l'istituto privato Cavallero a Firenze, poi l'istituto tecnico a Livorno. Dal 1892 A. Righi gli consentì di frequentare il suo laboratorio e la sua biblioteca presso l'Istituto di fisica dell'Università di Bologna, dove in quel periodo venivano condotti studi ed esperimenti sulle onde elettromagnetiche. Qui Marconi ebbe modo di familiarizzarsi con oscillatori hertziani, risonatori di vario tipo, inclusi quelli progettati da Righi stesso, e vari altri apparati. Fu in seguito a queste esperienze che Marconi intuì la possibilità di utilizzare le onde elettromagnetiche nella trasmissione dei segnali a distanza, senza fare ricorso all'uso di fili elettrici.
Nell'inverno 1894-95, nella villa paterna di Pontecchio, presso Bologna, Marconi si dedicò a un paziente e tenace lavoro di esperimenti, guidato da una mirabile genialità d'intuito. Condusse le prime prove usando come generatore di onde elettromagnetiche un oscillatore di Righi e come rivelatore un coherer a limatura metallica; scoprì che per avere apprezzabili effetti a distanza occorreva connettere le estremità dell'oscillatore e del circuito rivelatore da un lato a un conduttore interrato nel suolo (terra) e dall'altro lato a un conduttore isolato (antenna), alto il più possibile sul suolo stesso. La geniale invenzione del sistema antenna-terra gli permise, nella primavera del 1895, di ricevere segnali telegrafici intelligibili sino a 2400 m di distanza, mentre altri, sperimentando con apparecchi molto simili, non erano riusciti ad andare oltre poche decine di metri.
Conscio della grande importanza del risultato e delle sue future applicazioni, dopo aver inutilmente cercato di coinvolgere le autorità italiane nel suo progetto di telegrafia senza fili, Marconi si recò, per consiglio della madre, in Inghilterra, dove riuscì a interessare alla sua invenzione sir W. Preece, ingegnere capo del Post Office inglese, e a ottenere (2 giugno 1896) il brevetto del nuovo sistema di trasmissione degli impulsi e segnali elettrici, e dove riprese i suoi esperimenti, arrivando a estendere a 14 km la portata utile del suo sistema (primavera 1897). Lo straordinario interesse suscitato nel mondo intero da questi risultati gli valse un invito ufficiale perché ripetesse in Italia le sue esperienze. Nel luglio 1897 Marconi compì perciò una serie di esperimenti nel Golfo della Spezia, instaurando con la Marina italiana una collaborazione che doveva rivelarsi proficua negli anni seguenti. Per molto tempo il centro naturale della sua attività fu tuttavia l'Inghilterra, dove aveva fondato (agosto 1898) la Marconi's wireless telegraph and signal company, destinata a diventare, anche grazie alle sue doti di organizzatore, il più poderoso mezzo di sviluppo della sua invenzione.
I progressi del nuovo sistema telegrafico furono rapidissimi. È del 1898 l'invenzione del sistema sintonico, basato sull'uso di un oscillatore in ricezione, accordato (sintonizzato) sulla frequenza di trasmissione; con questo Marconi risolse il grave problema costituito dall'interferenza tra più stazioni emittenti. Con gli apparati sintonici fu possibile aumentare gradualmente la portata delle comunicazioni; nel 1899 si arrivò a qualche centinaio di kilometri e già nel 1901 (12 dicembre) si poté stabilire il primo collegamento telegrafico transatlantico senza filo, da Poldhu in Cornovaglia a San Giovanni di Terranova. Seguirono, nel giugno-ottobre 1902, una grande campagna radiotelegrafica marina, eseguita sulla nave Carlo Alberto della Marina italiana, e l'inaugurazione, il 20 dicembre 1902, del servizio radiotelegrafico regolare Europa-America.
In seguito altri perfezionamenti furono apportati al sistema marconiano dallo scienziato stesso e dai suoi collaboratori. Nel 1904, successivamente all'invenzione del diodo da parte di J.A. Fleming, fu introdotto il sistema delle valvole; nel 1916 iniziarono fondamentali esperienze con onde corte e nel 1923 quelle con onde corte e cortissime a fascio; al 1920 risale l'ideazione del primo radiofaro marittimo e al 1922 l'indicazione di come usare onde elettromagnetiche per rivelare l'esistenza di oggetti (navi, automobili ecc.) a distanza, cioè il principio del funzionamento del radar.
Un sistema di telegrafia senza fili analogo a quello di Marconi fu elaborato in Germania da Braun (sistema Braun-Siemens).
Dell'importanza delle ricerche di Marconi e della priorità delle sue scoperte fu prova l'unanime ed esplicito riconoscimento di quelli che sono spesso citati quali suoi precursori: sir O. Lodge e sir W. Preece in Inghilterra, A. Slaby in Germania, E. Branly in Francia e A.S. Popov in Russia. Membro di accademie e istituti scientifici internazionali, dottore honoris causa di numerose università, Marconi fu socio nazionale dei Lincei (1912), senatore del Regno (1914), delegato alla Conferenza della pace di Versailles (1919), primo presidente del Consiglio nazionale delle ricerche (1928), presidente della Reale Accademia d'Italia (1930) e dell'Istituto della Enciclopedia Italiana (1933-37), professore di onde elettromagnetiche all'Università di Roma (1935), accademico pontificio (1936). Morì a Roma il 20 luglio 1937.
Enrico Fermi
Il Premio Nobel per la fisica fu attribuito a Enrico Fermi nel 1938 "per la sua dimostrazione dell'esistenza di nuovi elementi radioattivi prodotti dall'irradiazione dei neutroni e la conseguente scoperta di reazioni nucleari indotte da neutroni lenti".
Fermi nacque a Roma il 29 settembre 1901. Accostatosi allo studio della fisica fin dall'adolescenza, alla fine del liceo entrò alla Scuola normale superiore di Pisa. Subito dopo la laurea, conseguita nel 1922, discutendo una tesi sulla diffrazione dei raggi X, Fermi si presentò, per avere suggerimenti sulla strada da intraprendere, a O.M. Corbino, direttore dell'Istituto di fisica dell'Università di Roma. Questi riconobbe subito l'eccezionalità del giovane e da allora in poi si adoperò per promuoverne la carriera accademica e successivamente per aiutarlo a creare una sua scuola. Grazie all'interessamento di Corbino, nel 1923 Fermi si recò con una borsa di studio a Gottinga presso M. Born e poi a Leida presso P. Ehrenfest. Al ritorno, nel 1925, conseguita la libera docenza, andò a Firenze come professore incaricato di meccanica razionale e di fisica matematica; lì, oltre a proseguire le ricerche in diversi settori della fisica teorica, eseguì vari esperimenti di ottica in collaborazione con F. Rasetti, che era stato suo collega universitario. Nel 1926, venuto a conoscenza del principio di esclusione di W. Pauli, lo inglobò nella formulazione della sua meccanica statistica delle particelle con spin semintero: fu questo il maggior contributo teorico di Fermi alla nuova fisica quantistica, noto con il nome di statistica di Fermi-Dirac (P.A.M. Dirac, qualche tempo dopo, arrivò indipendentemente agli stessi risultati), alla quale obbediscono elettroni, protoni, neutroni e altre particelle che oggi vengono genericamente dette fermioni.
Grazie alla notevole fama acquisita con questa scoperta e ancora su proposta di Corbino, a Fermi fu assegnata la cattedra di fisica teorica istituita presso l'Università di Roma, la prima in Italia. Così nell'autunno del 1926 Fermi si trasferì a Roma nell'Istituto di via Panisperna, dove chiamò intorno a sé un efficientissimo gruppo di collaboratori: il primo fu lo stesso Rasetti, poi si aggiunsero E. Segrè, E. Amaldi, E. Majorana, O. D'Agostino, B. Pontecorvo. Per Fermi teoria ed esperimento erano inseparabili: come altri grandi fisici del passato, per tutta la vita egli tenne sempre ferma, e realizzò nella propria attività di ricerca, l'esigenza di una stretta unità di competenze e di capacità teoriche e sperimentali. A quest'epoca si dedicava maggiormente alla fisica teorica (per es., riformulando in modo semplice e chiaro la teoria quantistica del campo elettromagnetico), ma si interessava attivamente anche ai lavori sperimentali. I 'ragazzi di via Panisperna' si occuparono inizialmente di spettroscopia atomica (per es., dell'effetto Raman o delle strutture iperfini) ma ben presto fu chiaro a Fermi che nuove prospettive si aprivano nello studio del nucleo atomico. Per impadronirsi delle nuove tecniche sperimentali i suoi collaboratori soggiornarono in vari periodi presso alcuni dei più attrezzati laboratori europei, mentre Fermi stesso si recò nel 1930 all'Università del Michigan, ove tenne una serie di lezioni sulla teoria quantistica della radiazione.
Nel 1933, poco dopo la scoperta del neutrone, Fermi elaborò la teoria del decadimento , basata sul formalismo della teoria quantistica dei campi e sull'ipotesi fisica avanzata da W. Pauli che un neutrone del nucleo decada in un protone, un elettrone e un neutrino (termine coniato da Fermi per indicare una particella senza carica e con massa assolutamente trascurabile rispetto a quella delle altre particelle in questione). Questa teoria, che metteva per la prima volta in evidenza l'esistenza di una nuova forza, l'interazione debole o fermiana, caratterizzata da una costante universale, apriva nuovi orizzonti alla fisica teorica, della quale costituisce una delle pietre miliari. All'inizio del 1934, avuta notizia della scoperta dei coniugi F. Joliot e I. Curie della radioattività provocata bombardando nuclei stabili con particelle , Fermi intuì che i neutroni (essendo sprovvisti di carica elettrica e potendo quindi facilmente penetrare nel nucleo) sarebbero stati proiettili assai più efficaci delle particelle nel provocare la radioattività indotta e cominciò una serie di esperimenti in proposito, usando sorgenti radon-berillio di neutroni. Furono bombardati quasi tutti gli elementi in ordine di numero atomico crescente: il primo elemento a mostrare una radioattività indotta dai neutroni fu il fluoro. Seguì una rapida serie di importanti risultati, tra cui la scoperta di una trentina di nuclidi radioattivi artificiali. Nell'autunno dello stesso 1934 si arrivò alla scoperta della grande efficacia dei neutroni lenti (ottenuti per collisione dei neutroni veloci con nuclei leggeri, soprattutto idrogeno) nel produrre le reazioni nucleari. Questo fu il più importante risultato conseguito dal gruppo di via Panisperna, il cui lavoro sui neutroni proseguì intensissimo nel 1935, finché sul finire di quell'anno Rasetti si recò in America, Pontecorvo a Parigi, Segrè come professore a Palermo. Fermi e Amaldi proseguirono le ricerche, scoprendo l'assorbimento risonante dei neutroni da parte di determinati nuclei. In quello stesso periodo Fermi scrisse anche un lavoro sulla teoria del rallentamento dei neutroni che conteneva molte delle idee fisiche e dei metodi matematici che dovevano formare la base della teoria dei reattori nucleari.
La promulgazione delle leggi razziali, che colpivano direttamente la sua famiglia, essendo ebrea la moglie Laura, indusse Fermi ad accettare la proposta di coprire la cattedra di fisica alla Columbia University di New York, lasciando l'Italia. Così alla fine del 1938, da Stoccolma dove si era recato per ricevere il Nobel, Fermi proseguì direttamente per gli Stati Uniti, dove si stabilì prendendo la cittadinanza americana nel 1944.
A New York, sollecitato dalla scoperta della fissione nucleare da parte di O. Hahn e F. Strassmann, si dedicò a studiare se i neutroni secondari prodotti nella fissione potessero a loro volta produrre nuove fissioni e dare luogo a una reazione a catena con la liberazione dell'energia nucleare a livello macroscopico: la sua profonda conoscenza della teoria, combinata con un'eccezionale abilità sperimentale, gli permise di raccogliere rapidamente risultati rilevanti. Questi costituirono uno degli elementi che spinsero il governo americano a promuovere un programma segreto di ricerche sulle reazioni a catena, mirato alla realizzazione di una pila a fissione. Vari gruppi di lavoro furono concentrati in un laboratorio dell'Università di Chicago, dove sotto la direzione di Fermi fu realizzato il primo reattore nucleare, detto anche pila di Fermi, che entrò in funzione nel dicembre 1942.
Nel 1944 Fermi, che già dal 1942 aveva dato la sua adesione al progetto Manhattan, per l'utilizzazione bellica dell'energia nucleare, si trasferì a Los Alamos, dove sotto la direzione di R.J. Oppenheimer, operavano nuovi laboratori per la realizzazione di una bomba a fissione. In questi, senza avere incarichi specifici, Fermi prestò un'opera di consulenza generale. Fu nei laboratori di Los Alamos che furono costruite le bombe atomiche sganciate nell'estate del 1945 su Hiroshima e Nagasaki. Fermi, tuttavia, si era apertamente espresso contro l'uso degli ordigni nucleari su bersagli civili.
Subito dopo la fine della guerra, Fermi fece ritorno a Chicago, dove si dedicò a studi teorici sulla fisica delle particelle elementari (atomi mesici, reazioni ad alta energia, origine dei raggi cosmici). Nel frattempo partecipava attivamente alla costruzione di un acceleratore in grado di produrre mesoni; in quest'ambito, nel 1951, condusse lo studio sperimentale della collisione pione-protone, osservando il primo stato isobarico del nucleone. A Chicago Fermi morì, il 28 novembre 1954.
Daniel Bovet
Daniel Bovet ricevette il Premio Nobel per la fisiologia o la medicina nel 1957 "per le sue scoperte relative ai composti sintetici che inibiscono l'azione di certe sostanze presenti nel corpo e in particolare la loro azione sul sistema vascolare e sui muscoli scheletrici".
Bovet nacque in Svizzera a Neuchâtel il 23 maggio 1907. Compì i suoi studi a Ginevra e nell'Università di quella città si laureò in biologia nel 1927 e conseguì il dottorato di ricerca con una tesi di zoologia e anatomia comparata nel 1929. Si trasferì poi a Parigi dove lavorò all'Istituto Pasteur, nel laboratorio di chimica terapeutica, di cui divenne direttore nel 1939. Al Pasteur conobbe la figlia dell'ex presidente del Consiglio italiano F.S. Nitti, Filomena, che divenne poi sua moglie e la sua più valida collaboratrice.
Nel 1947 Bovet, invitato dal direttore dell'Istituto superiore di sanità, G. Marotta, a organizzare un laboratorio di chimica terapeutica, si trasferì in Italia. Lo stesso anno prese la cittadinanza italiana. Rimase all'Istituto superiore di sanità fino al 1964. Poi, fra il 1964 e il 1971 fu professore di farmacologia all'Università di Sassari e dal 1971 al 1982 professore di psicobiologia all'Università di Roma. Diresse inoltre il laboratorio di psicobiologia e farmacologia del Consiglio nazionale delle ricerche (1969-75). Morì a Roma l'8 dicembre 1992.
Oggetto primario delle importanti ricerche che Bovet svolse nel campo della farmacologia e della chimica terapeutica furono le relazioni tra attività biologica e struttura chimica. Negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale, il gruppo dell'Istituto Pasteur di cui Bovet faceva parte mise a punto la sintesi di una serie di derivati sulfamidici, efficaci nelle infezioni da streptococchi, gonococchi e meningococchi, che contribuirono in maniera decisiva a limitare le perdite umane durante il conflitto. Successivamente, lo stesso gruppo si dedicò allo studio dell'istamina, ormone che se presente nell'organismo umano in forma libera e in quantità eccessive, causate in genere da risposte antigeniche, provoca shock anafilattico, e riuscì nella sintesi di diversi composti antistaminici, ponendo in questo modo le basi per la produzione di una classe di farmaci di importanza fondamentale.
Dopo il suo trasferimento in Italia, Bovet si diede ad analizzare in particolare i problemi farmacologici connessi ai composti del curaro di cui, per la loro capacità di provocare il rilassamento della muscolatura liscia, si ventilava l'ipotesi di utilizzo come coadiuvanti dell'anestesia; lo scienziato riuscì a individuare farmaci di sintesi curarosimili, dotati delle stesse proprietà dell'alcaloide, ma di cui era possibile prevedere e tenere sotto controllo gli effetti fisiologici indesiderati.
Il capitolo finale delle ricerche di Bovet riguardò la correlazione fra malattie mentali e gli effetti di composti chimici presenti nel sistema nervoso centrale, la biochimica dei processi mnemonici e della trasmissione sinaptica, lo studio delle modificazioni del comportamento indotte dagli psicofarmaci in animali da laboratorio.
Emilio Gino Segrè
Il Premio Nobel per la fisica venne conferito nel 1959 a Emilio Segrè, che era allora già cittadino statunitense, e a Owen Chamberlain "per la loro scoperta dell'antiprotone".
Segrè nacque a Tivoli il 1° febbraio 1905. Dopo essersi iscritto a ingegneria all'Università di Roma, durante gli studi universitari conobbe E. Fermi che esercitò su di lui un tale fascino da indurlo a lasciare il suo corso di laurea per trasferirsi a fisica; nella stessa decisione lo seguì un altro futuro 'ragazzo di via Panisperna', E. Majorana. Laureatosi nel 1928 e compiuti brevi soggiorni di studio ad Amsterdam e ad Amburgo, Segrè divenne assistente di O.M. Corbino ed entrò a far parte del gruppo di ricerca che collaborava con Fermi all'Istituto di via Panisperna, dedicandosi inizialmente a lavori di spettroscopia, per passare poi a ricerche di fisica nucleare, in particolare sulla radioattività artificiale provocata dai neutroni e sulle proprietà dei neutroni lenti. Nel 1936 ottenne la cattedra di fisica sperimentale all'Università di Palermo. Allo stesso anno risale la sua scoperta, in collaborazione con C. Perrier, del primo elemento chimico ottenuto artificialmente, il tecnezio (dal greco technetós, "artificiale"), prodotto bombardando il molibdeno con neutroni.
Nel 1938, mentre si trovava negli Stati Uniti, Segrè apprese che, a causa delle leggi razziali promulgate in Italia, era stato privato della sua cattedra e decise quindi di fermarsi in America. Prese la cittadinanza statunitense nel 1944. All'Università della California a Berkeley Segrè individuò, grazie all'uso del ciclotrone e in associazione con altri scienziati, altri due elementi: l'astato (1940) e il 239plutonio (1941). Fra il 1943 e il 1946 prese parte al progetto Manhattan che portò alla realizzazione delle prime armi atomiche statunitensi nei laboratori di Los Alamos; in particolare, in collaborazione con G.T. Seaborg, dimostrò la possibilità di impiegare il plutonio come combustibile ed esplosivo nucleare.
Nel dopoguerra le ricerche di Segrè, che dal 1948 fu professore di fisica a Berkeley, riguardarono principalmente problemi relativi alle strutture nucleari e alle interazioni fra particelle. La costruzione, presso il Lawrence radiation laboratory di Berkeley, di un acceleratore, il Bevatron, in grado di fornire energia sufficiente perché nelle collisioni potesse essere prodotto l'antiprotone, consentì al gruppo di ricerca guidato da Segrè e da Chamberlain, e del quale facevano parte anche Edward Lofgren, Clyde Wiegand e Thomas Ypsilantis, di dimostrare, nel 1955, l'esistenza di questa antiparticella.
Nel 1974 a Segrè fu assegnata la cattedra di fisica nucleare nell'Università di Roma. Negli ultimi anni si dedicò a studi di storia della fisica. Morì il 22 aprile 1989 a La Fayette, in California.
Giulio Natta
L'unico Premio Nobel per la chimica assegnato a un italiano fu conferito nel 1963 a Giulio Natta, insieme a Karl Ziegler, "per le loro ricerche nel campo della chimica e della tecnologia degli alti polimeri".
Natta nacque a Porto Maurizio il 26 febbraio 1903. Ottenuta la maturità scientifica a soli 16 anni, iniziò a Genova gli studi di ingegneria che completò nel 1924 al Politecnico di Milano. Qui, entrato nell'Istituto di chimica generale diretto da G. Bruni, condusse studi approfonditi sulla struttura di leghe e composti inorganici utilizzando la tecnica, da poco introdotta, dell'analisi röntgenografica. Fin dall'inizio, le indagini di Natta non ebbero esclusivo carattere teorico ma si indirizzarono verso la ricerca applicata e verso la possibilità di utilizzarla nella produzione industriale. Così, l'individuazione della correlazione fra la struttura reticolare cristallina dei catalizzatori e la loro attività chimica consentì a Natta, già alla fine degli anni Venti, di mettere a punto un processo di sintesi del metanolo che, realizzato nello stabilimento Montecatini di Merano (1931), infranse il monopolio tecnico-scientifico detenuto nel settore dalla tedesca BASF.
Nel 1932 Natta si recò a Friburgo per apprendere le tecniche più avanzate di diffrazione elettronica e in quella Università, in cui insegnava H. Staudinger, ebbe il suo primo incontro con la stereochimica delle macromolecole, che sarebbe divenuta l'oggetto d'eccellenza delle sue ricerche. Ottenuta nel 1933 la cattedra di chimica generale a Pavia, dopo essere stato per brevi periodi a Roma e a Torino, nel 1939 venne chiamato al Politecnico di Milano alla cattedra di chimica industriale, da cui a causa delle leggi razziali era stato allontanato M.G. Levi. Manterrà tale incarico, e quello di direttore dell'Istituto omonimo, fino al suo passaggio fuori ruolo, nel 1973.
Dopo la guerra Natta, le cui ricerche durante il periodo bellico avevano portato ad altri importanti processi (produzione della gomma sintetica, mediante separazione del butadiene; ossosintesi), avviò con la Montecatini, allora diretta da L. Morandi, quella proficua collaborazione che portò lo scienziato al Nobel e l'impresa a un impetuoso sviluppo nel settore petrolchimico. Nel 1952, Natta iniziò a interessarsi della reazione di 'montaggio' (Aufbau) dei polimeri lineari scoperta da Ziegler, così che, mentre il chimico tedesco nell'autunno del 1953 sintetizzava il polietilene lineare, nel marzo 1954 lo scienziato italiano otteneva i primi campioni di polipropilene lineare.
Con l'aiuto finanziario della Montecatini Natta aveva costituito nel suo Istituto un centro di ricerca di livello internazionale, per i giovani ricercatori che lo affiancavano e per i mezzi disponibili. Natta e i suoi collaboratori studiarono da ogni punto di vista la nuova sostanza, la prima di un'intera classe di polimeri, detti isotattici in quanto nella loro catena si replicano carboni terziari aventi uguale configurazione. La produzione di questi polimeri, che presentavano eccellenti proprietà chimiche e meccaniche, diede origine a un intero nuovo comparto industriale. In particolare il polipropilene isotattico poté essere utilizzato come materia plastica (Moplen), come fibra tessile (Meraklon) e per film di imballaggio (Moplefan).
Dopo il conseguimento del Nobel, Natta continuò a essere impegnato nei campi più avanzati della chimica organica industriale. Morì a Bergamo il 2 maggio 1979.
Salvatore Edoardo Luria
Come Segrè, anche Salvatore Edoardo Luria ricevette il Premio Nobel quando era già cittadino degli Stati Uniti. Gli fu conferito quello per la fisiologia o la medicina nel 1969, insieme a Max Delbrück e ad Alfred D. Hershey, "per le loro scoperte riguardanti i meccanismi di moltiplicazione e la struttura genetica dei virus".
Luria nacque a Torino il 13 agosto 1912. Iscrittosi alla facoltà di medicina all'Università di Torino, dove fu allievo di G. Levi, si dedicò anche a studi di matematica e di fisica. Conseguita la laurea nel 1935, decise di specializzarsi in radiologia, disciplina che riteneva intermedia fra la medicina e la fisica, e si trasferì a Roma, dove lavorò per qualche tempo presso l'Istituto di fisica diretto da E. Fermi, occupandosi di radiobiologia. Fu lì che, stimolato dalla conoscenza delle teorie di Delbrück sulla natura molecolare del gene, iniziò una serie di esperimenti sui batteriofagi, virus parassiti specifici dei batteri.
Nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali, Luria decise di lasciare l'Italia. Visse per due anni a Parigi, dove lavorò all'Istituto radiologico, poi dopo l'occupazione tedesca della città si rifugiò in America. Qui ottenne, grazie all'interessamento di Fermi, un incarico presso la Columbia University di New York, e poi nel 1943 fu nominato professore di batteriologia e virologia all'Università di Bloomington (Indiana). Riprendendo le sue ricerche sulla moltiplicazione e la mutabilità dei batteriofagi, arrivò alla formulazione della teoria della mutazione spontanea, regolata dal caso, del genoma batterico, dimostrando che le mutazioni sono eventi pre-adattativi, cioè che non dipendono dall'ambiente nel quale gli organismi vivono. Messosi in contatto con Delbrück, che contemporaneamente compiva analoghi studi, insieme a lui mise a punto una tecnica semplice di misura quantitativa delle mutazioni. Successivamente Luria e Delbrück formarono insieme a Hershey il Phage Group, le cui ricerche costituirono una tappa fondamentale per gli studi quantitativi in biologia molecolare.
Nel 1951 Luria, che dal 1947 aveva preso la cittadinanza statunitense e nel 1950 era divenuto professore di batteriologia all'Università dell'Illinois, dimostrò sperimentalmente la nascita di cloni mutanti nella riproduzione di fagi sottoposti a bombardamento radioattivo. Le scoperte compiute l'anno seguente sulla restrizione e la mutazione del DNA aprirono la strada al successivo sviluppo della tecnologia del DNA ricombinante. Nel 1958 Luria fu nominato direttore del dipartimento di microbiologia al Massachusetts institute of technology, dove divenne nel 1964 professore di biologia. All'MIT le ricerche sue e dei suoi collaboratori si focalizzarono sulle solicins, proteine estremamente violente in grado di uccidere i batteri interferendo con le normali funzioni cellulari, e poi sullo studio dei meccanismi di lisogenia e di trasduzione e delle caratteristiche virali controllate dall'ospite. Nel 1974 fu nominato direttore del centro di ricerche sul cancro dell'MIT. Morì a Lexington (Massachusetts) il 6 febbraio 1991.
Renato Dulbecco
Renato Dulbecco ha ricevuto il Premio Nobel per la fisiologia o la medicina nel 1975, insieme ai suoi allievi David Baltimore e Howard Martin Temin, "per le loro scoperte sull'interazione fra i tumori e il materiale genetico delle cellule".
Dulbecco è nato a Catanzaro il 22 febbraio 1914. Si laureò in medicina nel 1936 presso l'Università di Torino, dove aveva avuto come compagni di studi S.E. Luria e R. Levi-Montalcini. Dopo la guerra, che lo vide ufficiale medico sul fronte francese e su quello russo e poi fra le unità partigiane piemontesi, fu assistente alla cattedra di anatomia comparata, di cui era titolare G. Levi.
Nel 1947 Dulbecco fu invitato da Luria all'Università di Bloomington (Indiana) e si trasferì negli Stati Uniti, di cui divenne cittadino nel 1953. A Bloomington si dedicò a ricerche sui batteriofagi, scoprendo la fotoriattivazione del DNA di quelli inattivati con radiazioni ultraviolette. Nel 1949 fu chiamato da M. Delbrück al California institute of technology, dove fu professore prima associato poi ordinario. Lì applicò le metodologie utilizzate per lo studio dei batteriofagi allo studio dei virus delle cellule animali in coltura, arrivando a individuare una procedura per ottenere ceppi virali geneticamente puri e a isolare il primo mutante del virus della poliomielite (1955), due scoperte che si sarebbero rivelate di fondamentale importanza nella preparazione del vaccino antipolio.
Nel 1960 Dulbecco iniziò a interessarsi alla ricerca oncologica, studiando l'azione dei virus oncogeni sulle cellule normali e le modalità della trasformazione di queste ultime in cellule cancerogene e riuscendo a dimostrare che il DNA del virus viene incorporato nel materiale genetico cellulare, inducendo nella cellula un'alterazione permanente trasmissibile alle cellule-figlie. Fra il 1972 e il 1976 sede delle sue ricerche oncologiche fu l'Imperial cancer research fund di Londra; poi tra il 1982 e il 1990 Dulbecco tornò negli Stati Uniti, dove fu presidente del Salk Institute di La Jolla (California).
Nel 1986 Dulbecco ha proposto un programma per la decodificazione della mappa del genoma umano: il Progetto Genoma, divenuto in seguito un programma a collaborazione internazionale. Dal 1990, rientrato in Italia, è responsabile della parte italiana del Progetto Genoma presso il CNR di Milano; in questo ambito nel giugno 2000 ha annunciato l'individuazione del gene responsabile dell'osteopetrosi maligna, una malattia genetica recessiva che si manifesta come alterazione della struttura ossea e porta rapidamente alla morte.
Carlo Rubbia
Carlo Rubbia è stato insignito del Premio Nobel per la fisica nel 1984, con Simon van der Meer, "per il loro decisivo contributo al grande progetto che ha portato alla scoperta delle particelle elementari subatomiche W e Z, trasmettitrici di interazione debole".
Rubbia è nato a Gorizia il 31 marzo 1934. Dopo essersi laureato presso la Scuola normale superiore di Pisa, lavorò presso la Columbia University di New York e l'Università 'La Sapienza' di Roma (1960), per entrare poi, nel 1960, come ricercatore al Consiglio europeo per la ricerca nucleare di Ginevra (1960), dedicandosi prevalentemente allo studio sperimentale delle interazioni deboli tra particelle elementari. In particolare, Rubbia indicò la via diretta per arrivare all'osservazione dei bosoni W e Z, proponendo di modificare il superprotosincrotrone del CERN in modo tale da convertirlo in un anello di collisione per protoni e antiprotoni; allo scopo furono sviluppate, sotto la guida di van der Meer, tecniche particolari per produrre antiprotoni e confinarli in un fascio concentrato. La conversione della macchina permise di conseguire energie sufficientemente elevate per produrre particelle massive come i bosoni intermedi, che hanno massa pari a circa 100 volte quella del protone. Attraverso lo studio di un enorme numero di collisioni protone-antiprotone poterono essere identificati quegli eventi rari che fornivano l'evidenza della produzione dei bosoni W e Z. Nel 1983 il gruppo di oltre 100 scienziati della collaborazione internazionale diretta da Rubbia fu così in grado di annunciare l'importante scoperta che confermava definitivamente l'unificazione delle interazioni elettromagnetiche e deboli.
Dal 1971 al 1988 Rubbia è stato professore di fisica presso la Harvard University. Dal 1989 al 1994 ha avuto l'incarico di direttore generale del CERN, dove è stato fra i promotori del collisionatore LEP. Dal 1994 al 1999 è stato direttore dell'International center for theoretical physics di Trieste. Dal 1999 è direttore dell'ENEA (Ente nazionale per le energie alternative). La sua intensa attività di ricerca lo ha portato a occuparsi anche dello studio dei neutrini provenienti dal Sole o da altre stelle più lontane, della verifica della stabilità del protone, della realizzazione di un nuovo tipo di reattore nucleare a fissione basato sull'impiego del torio.
Franco Modigliani
Il Premio Nobel per l'economia è stato assegnato a Franco Modigliani nel 1985 "per la sua pionieristica analisi del risparmio e dei mercati finanziari".
Modigliani è nato a Roma il 18 giugno 1918. Iscrittosi a giurisprudenza presso l'Università di Roma, nel 1938, a causa delle leggi razziali, si trasferì a Parigi, facendo ritorno a Roma solo per discutervi la tesi (1939). Immediatamente dopo partì per New York, dove si stabilì, divenendo cittadino statunitense nel 1946. In America si dedicò a studi di economia ed econometria, pubblicando nel 1944 un importante articolo sulla teoria dell'interesse e della moneta, primo contributo allo sviluppo e alla revisione critica delle teorie keynesiane. Docente prima alla Columbia University, in seguito all'Università di Chicago, alla Northwestern University e infine al Massachusetts institute of technology, ha affrontato un ampio spettro di temi, soprattutto di indirizzo econometrico. In particolare, ha avuto grande seguito la sua ipotesi del 'ciclo vitale', relativa ai consumi e ai risparmi familiari, che collega il risparmio aggregato al tasso di sviluppo dell'economia, ai fattori demografici, alla struttura per età della popolazione, alla sua speranza di vita. Al nome di Modigliani è poi legato il teorema di Modigliani-Miller, concernente l'effetto della struttura finanziaria e della politica dei dividendi sul valore di un'impresa sul mercato. Modigliani ha inoltre approfondito la tematica del debito pubblico, evidenziando, anche riguardo alla situazione italiana, gli effetti negativi delle sue dimensioni eccessive.
Fra le opere principali di Modigliani figurano L'ipotesi del ciclo vitale del risparmio (1963); Mercato del lavoro, distribuzione del reddito e consumo privato (1975); Consumo, risparmio e finanza (1992).
Rita Levi-Montalcini
Nel 1986 il Premio Nobel per la fisiologia o la medicina fu assegnato a Rita Levi-Montalcini e a Stanley Cohen in riconoscimento della "loro scoperta dei fattori di accrescimento".
Rita Levi-Montalcini è nata a Torino il 22 aprile 1909. Vinta la resistenza della famiglia la quale non voleva che si dedicasse a studi di medicina, si iscrisse all'Università di Torino, frequentando l'istituto di anatomia umana diretto da G. Levi. Dopo la laurea non poté continuare gli studi all'università a causa delle leggi razziali e proseguì le ricerche che aveva intrapreso sui processi del differenziamento del sistema nervoso prima in Belgio e in seguito di nuovo a Torino dal 1940, in un piccolo laboratorio allestito privatamente con Levi. Durante l'occupazione tedesca trascorse un periodo di clandestinità a Firenze, per tornare alla fine della guerra a Torino, dove per due anni fu assistente di Levi. Nel 1947 si trasferì negli Stati Uniti, invitata da V. Hamburger presso la Washington University di St. Louis (Missouri), dove tenne la cattedra di biologia dal 1956 al 1977.
Studi condotti su tessuti neoplastici portarono Rita Levi-Montalcini alla scoperta dell'NGF (Nerve growth factor), sostanza secreta dai tessuti periferici dell'organismo e trasmessa per via umorale, che stimola e regola la crescita delle fibre nervose. La ricerca, che durò 16 anni e alla quale si associò in un secondo tempo Cohen, consentì successivamente l'individuazione della natura proteica del NGF.
Nel 1961 la Levi-Montalcini aprì a Roma un centro di ricerca sull'NGF, sovvenzionato prima dai National institutes of health e poi dal CNR. Tornata definitivamente in Italia nel 1977, assunse la direzione del Laboratorio di biologia cellulare del CNR.
In riconoscimento dell'importanza delle sue scoperte, oltre al Nobel, le è stato conferito dall'Accademia nazionale dei Lincei il premio Feltrinelli internazionale per le scienze mediche (1969). Rita Levi-Montalcini è stata inoltre la prima donna a essere ammessa all'Accademia pontificia delle scienze (1974). Oltre alle numerose pubblicazioni su riviste scientifiche relative alle sue importanti scoperte nel campo della neurobiologia, è autrice anche di un libro, a carattere divulgativo, sulla sua principale scoperta scientifica (NGF: apertura di una nuova frontiera nella neurobiologia, 1989). Ha pubblicato inoltre un'autobiografia, L'elogio dell'imperfezione (1987) e varie altre opere: Il tuo futuro (1993); Senz'olio, controvento (1996); L'asso nella manica a brandelli (1998); La galassia mente (1999); Cantico di una vita (2000). Nel 1992, in memoria del padre Adamo, ha creato, insieme alla sorella gemella Paola, la Fondazione Levi-Montalcini, che ha lo scopo di favorire l'orientamento dei giovani nel campo degli studi e del lavoro, in particolare in quello dell'artigianato. Dal 1993 al 1998 è stata presidente dell'Istituto della Enciclopedia Italiana. Nell'agosto 2001 è stata nominata senatore a vita.