Ricerca archeologica. Lo scavo nei contesti urbani
Si potrebbe facilmente sostenere che l'archeologia all'interno delle città non ha tempo, essendo gli insediamenti urbani naturali serbatoi di depositi antropici e dunque segmenti di territorio privilegiati per più o meno incidentali scoperte di antichità (e di questi non sempre consapevoli ritrovamenti riscontriamo ampia testimonianza nelle fonti scritte del passato). Ma se anche gli antichi potevano vantare una loro archeologia, è solo con l'epoca medievale che le scoperte all'interno delle città si fanno più frequenti, quando i ritrovamenti vengono talora percepiti come segni divini e i manufatti recuperati non mancano di essere connotati, nel riuso, sul piano ideologico. L'archeologia, invece, intesa come consapevole strumento di conoscenza dell'antico, nasce in epoca molto più recente. Fino agli anni Settanta del XX secolo, pur nella varietà di caratteri che contraddistingue le varie archeologie nazionali, l'archeologia urbana si identificava quasi esclusivamente con una pratica passiva connessa con il casuale ritrovamento o l'incidentale controllo di attività di escavazione promosse da altri con finalità non scientifiche. Tale prassi sfociava solo raramente in interventi di scavo su grandi aree; in quest'ultimo caso l'archeologia superava di fatto il suo ruolo passivo, ma i metodi applicati non si discostavano concettualmente da quelli praticati sul sepolto al di fuori dei centri a continuità di vita (città o meno che fossero). Su questi bacini, per le caratteristiche non urbane (o non più urbane) dei siti, l'archeologia aveva da tempo avuto modo di avviare con maggiore tranquillità le proprie ricerche e di sperimentare le proprie tecniche di indagine. La qualità di questa archeologia praticata in città cambia a seconda dei periodi e delle aree geografiche e segue, sul piano del metodo, il percorso delle varie archeologie nazionali. Gli scavi di G. Boni a Venezia (alla fine dell'Ottocento) e soprattutto quelli ai Fori Imperiali a Roma (agli inizi del Novecento), ad esempio, sono stati da tempo riconosciuti tra le migliori e più formative esperienze della nostra archeologia tardopositivista. Boni, addirittura, aveva sperimentato proprio in ambito urbano i metodi e le strategie di scavo da cui aveva tratto norme di comportamento più generali per il suo lavoro sullo scavo archeologico. Esperienze di archeologia in un contesto urbano non sembrano peraltro più precoci in Paesi che, dal dopoguerra in poi, saranno all'avanguardia nella conduzione di questo tipo di scavi, come ad esempio l'Inghilterra (il primo scavo urbano di un certa entità è degli anni Trenta). Un regresso nella conduzione degli interventi di archeologia nelle città a continuità di vita, anche se non generalizzabile, si registra tra le due guerre, in particolare in Italia: Roma diviene un grande cantiere nel quale si teorizza e si pratica lo scavo come sterro. Gli interventi realizzati per l'apertura di via dei Fori Imperiali, al di là dei giudizi etico-politici su un'operazione così devastante per il tessuto storico della città, segnano uno dei punti più bassi raggiunti dall'archeologia nel nostro Paese. Agli sventramenti e alle distruzioni delle fasi postantiche, per niente documentate, si accompagnano metodi di ricerca molto superficiali: lo scavo viene sentito come momento di liberazione del monumento dalle superfetazioni, dal terreno e dai segni del tempo. Non molto diverso è il giudizio che possiamo formulare su numerose esperienze di archeologia in città nel secondo dopoguerra, laddove la frettolosità per le ricostruzioni non dovette costituire una buona condizione per produrre risultati significativi. Molti nostri archeologi discendevano, per formazione, dall'archeologia che si era praticata tra le due guerre. Il metodo di scavo aveva raggiunto la sua formulazione più compiuta con A. Maiuri, il quale aveva previsto un approccio di carattere stratigrafico esclusivamente nei casi in cui si fossero dovute indagare le fondazioni degli edifici antichi: ma la sua esperienza, maturata in una città molto particolare (Pompei), poteva anche prestarsi a questo equivoco. La sua applicazione (peraltro anche disattesa) ai casi di città a continuità di vita doveva rivelarsi un alibi devastante. Gli scavi condotti in quegli anni sono sempre occasionali e si riducono, nel migliore dei casi, a sterri periodicamente controllati. Le fasi che emergono da questo tipo di approccio archeologico sono episodiche e generalmente si riferiscono agli aspetti monumentali degli abitati. Per quanto non si percepiscano obiettivi metodologicamente più avanzati, la qualità degli interventi archeologici nelle città dell'Inghilterra, della Germania, della Francia è di segno migliore. Non esiste ancora, in forma compiuta, il concetto di rescue archaeology, ma si comincia a rilevare un interesse ed un'attenzione anche per le stratificazioni postclassiche. I grandi scavi di Londra nel secondo dopoguerra sono principalmente indirizzati alla conoscenza della città romana: qui per la prima volta il documento archeologico si traduce in ricostruzioni d'ambiente, in grandi vedute a volo d'uccello nate dalla penna di A. Sorrell. Tuttavia le stratificazioni più recenti non vengono sistematicamente cancellate, bensì recuperate e descritte, nell'ottica di documentare tutte le fasi di vita della storia della città e, nondimeno, gli aspetti della "cultura materiale": costituiscono cioè gli incunaboli di quel grande archivio di informazioni e di conoscenze della vita materiale del Medioevo londinese che non ha eguali in tutta l'Europa (Medieval Finds from Excavations in London, I-V). Questo atteggiamento, di stampo postpositivista, è naturalmente presente da tempo anche nelle archeologie urbane di quei Paesi non romanizzati o di tardiva formazione della città, dove in molti casi la pratica archeologica coincide con il fare archeologia medievale (come, ad es., in Polonia). Tuttavia gli scavi urbani, quando presenti, non contemplano, se non raramente, il Medioevo. Conseguenza (o forse anche causa) di questo atteggiamento è che la documentazione archeologica non si trasforma ancora in strumento di conoscenza storica; grandi scenari come quelli disegnati da H. Pirenne prima della guerra (1925, 1937) o sintesi sulle città, come quelle di E. Ennen del 1953 e del 1972, sembrano ignorare del tutto l'archeologia. Le potenzialità della ricerca archeologica applicata (scavo stratigrafico, attenzione ai dati naturalistici, utilizzo di analisi fisico-chimiche), maggiormente sperimentate dai ricercatori polacchi negli anni Cinquanta, entrano ancora con difficoltà nella prassi quotidiana, ma tuttavia fanno la loro timida comparsa anche in Italia. Nonostante non fosse archeologo, G.P. Bognetti tentò di utilizzarle per disegnare la fisionomia della città altomedievale italiana, facendosi promotore di ricerche che identificavano nello scavo stratigrafico lo strumento di indagine privilegiato per la conoscenza del passato urbano. Ma l'impatto con i siti a continuità di vita e con le loro esigenze doveva essere sentito ancora come molto forte e lo scavo archeologico percepito come un momento sostanzialmente estraneo alla quotidianità: qualcosa che si doveva praticare al di fuori delle mura cittadine, in aree dove le esigenze della vita moderna erano meno presenti e pressanti. Nonostante l'interesse di Bognetti fosse principalmente rivolto allo studio delle trasformazioni della città antica e alla formazione di quella medievale, non è forse un caso che egli abbia indirizzato i suoi sforzi di organizzatore (e dunque abbia invitato l'équipe polacca ad applicare questi nuovi metodi) su siti che città non erano più (o forse non lo erano mai state, come Castelseprio e Torcello). Le tecniche di scavo praticate in quegli anni seguivano le procedure del cosiddetto "metodo wheeleriano", elaborate empiricamente nell'Inghilterra nel primo dopoguerra in città abbandonate (Camulodunum e Verulamium), ma che si riveleranno poco flessibili se applicate ai contesti a continuità di vita. In Italia fu un archeologo del tutto isolato dall'ambiente accademico, N. Lamboglia, a sperimentarle e applicarle sia su città abbandonate che a continuità di vita nella Liguria di Ponente, senza oltretutto prevedere selezioni cronologiche di sorta (per quanto la sua attenzione maggiore fosse rivolta alle fasi romane e preromane degli abitati). Tuttavia, come è noto, anche l'esperienza di Lamboglia, esportata temporaneamente, e provocatoriamente, a Roma (alla Curia), fece fatica a farsi strada in un ambiente ancora poco recettivo nei confronti di metodi che celavano obiettivi e finalità poco in sintonia con l'archeologia praticata ancora negli anni Sessanta in Italia e che sostanzialmente si identificava con la storia dell'arte. Come questi metodi fossero tuttavia irrelati rispetto ad un interesse per la storia delle città è dimostrato dall'impegno che molti archeologi di quegli anni (anche delle epoche postantiche, come M. Cagiano de Azevedo) vi dedicarono. Senza una pratica sul campo, tuttavia, il loro contributo rimase sostanzialmente limitato alla "pelle" degli abitati, ad un approccio topografico-planimetrico rivolto essenzialmente alla conoscenza della forma geometrica delle città o dei suoi contenuti monumentali (meglio se di epoca classica). I ricercatori anglosassoni fanno terminare il periodo eroico dell'archeologia urbana nel loro Paese intorno ai primi anni Settanta, ma non vi è dubbio che un momento importante e formativo nell'approccio archeologico ai siti a continuità di vita deve essere riconosciuto nell'esperienza maturata da M. Biddle a Winchester, a partire dal 1961. Questo scavo, il primo su grandi aree e praticato per un periodo di tempo sufficientemente lungo, costituì l'esempio sul quale modellare le future esperienze di scavo in città, sia sul piano organizzativo che su quello del metodo. Tuttavia, ancora in quegli anni, l'archeologia urbana tendeva, nel migliore dei casi, a configurarsi come esperienza unica (e irripetibile): una sorta di prestito dalla casistica degli interventi extraurbani, dove era possibile lavorare a lungo su grandi aree libere, non interessate da cogenti problemi di recupero o riutilizzo; un'archeologia che restava abbastanza svincolata sia da un progetto generale di ricerca, sia da un programma organico di conservazione e tutela. Non a caso la grande rivoluzione nelle tecniche di scavo attuata da Ph. Barker in quello stesso periodo e che portò al superamento del metodo wheeleriano avvenne, ancora una volta, in grandi cantieri extraurbani di Wroxeter e Hen Donen. I primi anni Settanta sono particolarmente importanti per l'archeologia urbana: in Gran Bretagna escono due volumi che, sotto aspetti diversi, segnano un momento di svolta. Nel primo (The Erosion of History: Archaeology and Planning) si cerca di quantificare l'entità del patrimonio urbano sepolto ancora conservato: per la prima volta l'archeologia urbana viene associata a parametri concreti, in stretta connessione con i problemi della conservazione, della ricerca e della pianificazione. L'impatto che questo volume ebbe, almeno in Gran Bretagna e nei Paesi del Nord, fu sicuramente forte; favorì ad esempio analoghi progetti in Olanda e fu alla base di programmi di censimento dei bacini archeologici urbani in Svezia, Norvegia e Finlandia. Il secondo volume (The Future of London's Past), uno studio dedicato ad analizzare un singolo caso, cioè la città di Londra, è concepito in modo da ricostruire il divenire storico dell'abitato attraverso le fonti archeologiche note e le ricostruzioni planimetriche. L'aspetto innovativo di questo libro, altrimenti non molto dissimile nella concezione da una tradizionale carta archeologica con mappatura dei siti o dei ritrovamenti, è il rilievo attribuito alla qualità della documentazione archeologica e dunque alla funzione che questo valore riveste nel quadro della pianificazione della tutela. Non solo si utilizza il dato archeologico per comprendere la storia della città, ma si tenta anche di fornire indirizzi e orientamenti più proficui per la ricerca, in relazione proprio alla consistenza e alla natura dei depositi sepolti. Con questo volume l'archeologia in città diviene finalmente archeologia urbana. Come abbiamo detto, l'impatto che queste ricerche esercitarono fu diverso: abbastanza forte nel Nord europeo, meno nei Paesi del Centro e del Sud. L'esperienza di Londra aveva tuttavia innescato un meccanismo irreversibile: per la prima volta ci si rendeva conto che era necessario dotarsi di strumenti di tutela idonei nei confronti di un patrimonio, quello urbano, non solo finito, ma anche sottoposto a sollecitazioni impensabili qualche anno prima. Nel contempo, l'archeologia urbana veniva a profilarsi come un campo di ricerca dalle autonome potenzialità. L'urbanizzazione o la trasformazione delle città nella lunga durata divennero temi storiografici centrali, specie per la medievistica, ai quali ora l'archeologia si sentiva di dare finalmente il proprio contributo. Ma solo avendo chiare e precise le finalità all'interno delle quali si muoveva l'archeologia urbana si sarebbero potuti identificare gli strumenti più idonei per rendere meno aleatori e incidentali gli interventi, per investire correttamente risorse e potenzialità. Anche se il tentativo rimaneva quello di ridurre la distruzione a zero, ci si era resi conto come fosse necessario realizzare programmi di ricognizione quantitativa e di valutazione qualitativa della risorsa archeologica per costruire gerarchie di valori che guidassero la pianificazione o, nel caso, l'emergenza. L'analoga esperienza francese di Tours si ricollegava, anche idealmente, al progetto londinese: le finalità erano quelle di costruire una corretta e aggiornata base di conoscenze archeologiche per la definizione della topografia storica dell'abitato e, contestualmente, identificare e posizionare le distruzioni e verificare le potenzialità dei bacini sepolti residui. Anche Pavia, oggetto di una serie di scavi stratigrafici urbani già a partire dai primi anni Settanta, venne sottoposta ad analogo trattamento, secondo gli stessi principi e gli stessi metodi. Elementi negativi e per niente archeologici, volumi e valori altimetrici entravano per la prima volta all'interno di un quadro diagnostico complessivo, con lo scopo di identificare le aree di maggiore e minore rischio archeologico. Nel caso italiano la proposta si affiancava anche a indicazioni di carattere organizzativo, proponendosi l'attuazione di strumenti locali di tutela preventiva e la creazione di strutture leggere di intervento di scavo. I lavori di censimento e di valutazione avrebbero dovuto costituire la base conoscitiva per mettere in atto procedure di intervento non casuali, secondo una gerarchia di valori che un'approfondita indagine preliminare avrebbe consentito di predisporre. Seppure l'episodio pavese si è rivelato un insuccesso, questo non ridimensiona affatto la bontà della proposta e la qualità del metodo utilizzati in quella circostanza. Ancora in Italia, nei primi anni Ottanta, l'esempio pavese venne esteso a tutta la Lombardia: quasi tutti i capoluoghi di provincia furono analizzati secondo quei criteri e i risultati pubblicati rapidamente in volume (Archeologia urbana in Lombardia). Questo lavoro rappresenta il più esteso tentativo di costruire strumenti di pianificazione archeologica urbana su larga scala, un progetto ambizioso che rimarrà, negli anni successivi, senza seguito. La situazione nel resto dell'Europa non sembra dissimile. Esaurita la spinta innovativa dei lavori del decennio precedente, l'azione sui centri storici torna ad essere più sorvegliata, ma ancora una volta abbastanza disorganica, senza un vero coordinamento di indirizzo e di procedure: aumentano gli interventi di scavo in ambito urbano, ma la loro qualità sembra, ancora una volta, connessa con l'episodicità del caso locale. In questa ottica vanno letti, ad esempio, gli interventi in occasione della realizzazione del Grand Louvre a Parigi, che portano l'archeologia urbana nel cuore della capitale francese con una disponibilità di risorse fino ad allora mai impiegate. Oppure, per tornare in Italia, il progetto romano della Crypta Balbi, grande cantiere al centro della città, che nella prima metà degli anni Ottanta costituì uno dei riferimenti più significativi per la nostra archeologia. Sul piano del metodo di scavo la grande rivoluzione che aveva portato al rinnovamento delle procedure e delle tecniche era avvenuta, lo abbiamo già ricordato, al di fuori delle città, in zone dove l'estensione dell'area da indagare poteva essere più facilmente predeterminata e dove i tempi di realizzazione dipendevano più dalle risorse che da cogenti impegni civici. Anche le caratteristiche della stratificazione, in genere di minore consistenza in ragione di tempi di frequentazione più brevi dei siti, favorivano un approccio archeologico teso ad indagare i depositi su grandi aree, ad evitare l'uso di trincee e di saggi e a ridurre la lettura degli strati (e dunque l'interpretazione della sequenza) in norma verticale. Le critiche mosse ai precedenti metodi di scavo erano del tutto condivisibili; tra l'altro i principi messi in atto da Ph. Barker (meglio sarebbe definirli le sue strategie di scavo) avevano dato grandi risultati. Dopo la pubblicazione del suo manuale (o anche prima, perché i suoi metodi erano già noti), queste tecniche vennero applicate anche in altri Paesi al di fuori dell'Inghilterra. Tuttavia la loro inconciliabilità con gli interventi in ambito urbano apparve quasi immediatamente evidente: la demonizzazione di procedure che avevano guidato gli approcci stratigrafici fino agli anni Settanta rischiava di ritorcersi sulle giovani archeologie urbane europee. Soprattutto M.O. Carver si pose nell'ottica di discutere e criticare questi metodi, dimostrandone, come era stato a suo tempo per i principi wheeleriani, la loro scarsa flessibilità, resa ancora più evidente nel caso delle città a continuità di vita. Lo stesso Carver aveva portato alle estreme conseguenze i processi di analisi previsionale dei depositi archeologici, costruendo un famoso quanto sintetico progetto su quaranta città francesi. Quando E.C. Harris pubblicò il suo libro sui principi della stratificazione archeologica (1979) la lunga traiettoria del dibattito sul metodo poteva dirsi conclusa. La codificazione delle regole che governano la formazione dei depositi antropici e la costruzione di un diagramma che ne esemplifica le relazioni discendevano da una lunga e non scritta tradizione di ricerca, dall'empirismo della sperimentazione avviata nei cantieri urbani ed extraurbani soprattutto del mondo anglosassone. Nel contempo, la consapevolezza della complessità e soprattutto della diversità dei bacini archeologici poneva il problema di come adattare quei principi alla specificità delle singole situazioni. Il dibattito sul metodo si era trasferito dalle tecniche di scavo alle strategie, oggi sicuramente il terreno sul quale è necessario investire le maggiori risorse, anche a livello teorico. L'archeologia urbana è, da questo punto di vista, un settore privilegiato, in quanto coagula, al massimo delle potenzialità, molte delle variabili che determinano il nostro operare sul campo (tempo, risorse, complessità e spesso frammentazione della stratificazione archeologica). È evidente come non si possa, sulla base di tali presupposti, prefigurare metodi standardizzati d'approccio archeologico ai bacini sepolti delle città, tanto più se, per la varietà e la complessità delle situazioni prospettate dalle città a continuità di vita, queste possono a ragione configurarsi come una sorta di summa delle stratificazioni possibili. Negli anni Ottanta l'archeologia discuteva la plausibilità dei metodi di scavo su grandi aree anche in ambito urbano. Il passaggio dallo sterro incontrollato ai rigorosi principi della documentazione stratigrafica rappresentava gli estremi di un percorso metodologico che stentava a trovare un centro di equilibrio tra le istanze di un'archeologia sempre più vicina alle scienze esatte e le peculiarità di un processo conoscitivo comunque non riproducibile. Il grande cantiere della Crypta Balbi, più volte citato, costituiva l'esempio più tangibile di come, anche all'interno di una grande città, era possibile praticare uno scavo in estensione, con tempi e modi attuabili spesso solo al di fuori dei centri a continuità di vita. Nel contempo, la selettività adottata ed esplicitata dello scavo condotto a Brescia da G.P. Brogiolo (1988) rappresentava un altro modo, altrettanto plausibile, di come rapportarsi alle stratificazioni urbane nel caso in cui tempo e risorse disponibili non fossero sufficienti. Nonostante gli opportuni e giustificati tentativi di svincolare dall'empiria i procedimenti di scavo attraverso una loro formalizzazione, l'automaticità (o la tendenza all'automaticità) nella registrazione archeologica resta, a nostro giudizio, se non utopica, sicuramente di difficile applicazione. Allora, se lo scavo in estensione e la lettura delle relazioni stratigrafiche in norma orizzontale costituisce sicuramente, sul piano del metodo, la strada maestra da seguire, la scelta di percorsi più veloci e semplificati di registrazione della sequenza non può essere aprioristicamente rigettata, anzi può essere consigliata proprio dalle caratteristiche e dal grado di conservazione dei depositi stessi. Il concetto di flessibilità applicato alle strategie, verso il quale ci stiamo muovendo, non significa dunque un ritorno all'anarchia, bensì una più attenta e meditata riflessione sulle condizioni dell'intervento, le cui scelte non devono discendere esclusivamente da cogenti condizionamenti economici e temporali, ma anche da valutazioni di merito sulle potenzialità archeologiche dei bacini sepolti. I depositi archeologici, dunque anche quelli urbani, non sono infiniti: il problema della loro conservazione resta ancora una priorità. Per quanto ci siano progetti di ridurre il rischio di distruzione quasi a zero, la stragrande maggioranza delle città europee è ancora governata da una tutela puntiforme e non coordinata. Il superamento della soglia cronologica oltre la Tarda Antichità ha significato una grande conquista per l'archeologia, ma ha sicuramente posto ulteriori problemi allargando a dismisura, sul piano quantitativo, il già cospicuo patrimonio sepolto da preservare. Se un tempo infatti si praticava, più o meno consapevolmente, una tutela sulla scorta della posizione cronologica dei depositi, oggi la scelta deve scaturire da altri elementi di valutazione. La costruzione di gerarchie di rischio e di una selettività qualitativa nella conservazione e nell'indagine dei contesti archeologici resta dunque l'impegno primario da raggiungere e da estendere in maniera sistematica. Nel contempo, l'abbassamento della soglia cronologica ci pone, per la prima volta, a diretto contatto con i temi dell'archeologia urbana dei Paesi extraeuropei, sprovincializzando anche tematicamente il nostro approccio. Per quanto concerne le tecniche di scavo, infine, l'estensione dei metodi di analisi stratigrafica agli elevati ha aperto nuovi bacini di indagine e ha posto, per la prima volta, il problema di una gradazione del rischio anche per il patrimonio sopravvissuto. Gli scavi urbani devono tenere in debito conto anche questi documenti, spesso estremamente ricchi per le fasi tardo- e postmedievali della storia delle città.
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