Ricerca archeologica. I metodi di datazione
di Daniele Manacorda
"È molto difficile stabilire con precisione l'origine e l'età dei monumenti antichi scoperti casualmente, se non vi si trovano iscrizioni, bassorilievi, sculture, incisioni, né ornamenti che possano servire alla cronologia; o se nella Storia non si reperisce nulla di preciso su cui poter basare le proprie congetture". Questa confessione di P. Le Brasseur, erudito francese del XVIII secolo (Histoire civile et ecclésiastique du compté d'Evreux, Paris 1722, in Schnapp 1994), testimonia nella sua semplicità la difficoltà di un compito che l'archeologia antiquaria sentiva ancora impari alle proprie forze, prima che lo sviluppo dei metodi dell'archeologia moderna rendesse praticabile un percorso di conoscenza autonomo su uno dei temi cruciali della ricerca archeologica: la datazione di un oggetto, di un contesto, di un sito. L'interpretazione di ogni forma di documentazione di carattere materiale dipende infatti dalla collocazione che ad essa si dà nella scala del tempo. La cronologia assoluta di un insediamento, di una sequenza stratigrafica, di un manufatto in termini di anni consente di disporre gli eventi nelle loro reciproche relazioni e di valutare, ad esempio, la durata di alcuni fenomeni storici fondamentali, la velocità delle trasformazioni che si sono susseguite e la loro eventuale simultaneità nelle diverse regioni del mondo. Ma datare non basta. La definizione della cronologia di un evento acquista senso, infatti, se essa si pone come punto di partenza per elaborare e applicare modelli che consentano di offrire una spiegazione culturale, sociale, economica, insomma storica, delle testimonianze raccolte. "Se anche conoscessimo la data esatta di ogni manufatto ‒ è stato osservato ‒ non sapremmo nulla di più sulle vicende degli uomini del passato senza aver ricostruito, con i metodi dell'archeologia e della storia, questa catena di manifestazioni (che usiamo denominare 'cultura'), cogliendone l'intimo significato" (D'Agostino 1981). Il processo tradizionalmente seguito dagli archeologi per stabilire le cronologie è tutt'altro che lineare e, in prima battuta, può anche prescindere dalla datazione di un determinato evento: basti pensare alla costruzione ottocentesca del "sistema delle tre età", basato sull'analisi tecnologica delle materie (la pietra, il bronzo, il ferro) utilizzate per la produzione di strumenti e di altri manufatti, per comprendere come l'approccio al problema cronologico possa seguire diverse strade, le quali dovranno tuttavia convergere verso un risultato finale convincente e coerente, che nel caso citato fu sottoposto alla ripetuta verifica delle indagini stratigrafiche. I metodi scientifici che negli ultimi cinquant'anni hanno rivoluzionato l'archeologia, offrendo possibilità di datazioni cronometriche un tempo impensabili, non hanno tolto valore al bagaglio tradizionale dell'archeologo, che si basa sull'intreccio virtuoso di tre approcci: stratigrafico, tipologico e tecnologico. Questi mantengono intatte le loro capacità di definizione della cronologia relativa, che è il punto di partenza per il raggiungimento di datazioni assolute. La cronologia relativa permette di stabilire la maggiore o minore antichità di un contesto rispetto ad un altro e ha come obiettivo la costruzione di sequenze che dispongano ordinatamente nel tempo singoli oggetti, strati o eventi a qualunque scala: dal susseguirsi delle diverse glaciazioni nel Quaternario alla ricostruzione della catena di procedimenti artigianali che è alla base della produzione di un manufatto o della costruzione di un edificio. Definito l'ordine cronologico relativo tra le diverse componenti della sequenza, sarà compito dell'archeologo tentare di stabilire per ciascuna di esse una datazione in termini assoluti. Lo strumento fondamentale, che è alla base della costruzione della cronologia relativa in campo archeologico, è l'indagine stratigrafica. I diversi eventi che compongono la stratificazione attraverso azioni di apporto o sottrazione di materia si sovrappongono nel corso del tempo l'un l'altro, secondo un ordine che rispecchia il momento della loro formazione e che spetta all'archeologo individuare e trasformare in una sequenza. Questa si baserà sul principio che l'unità stratigrafica più antica sarà coperta da quella più recente e quest'ultima da quella più recente ancora, ma nessuna di queste unità potrà a sua volta coprire un'unità formatasi in età successiva. Questa sequenza sarà dunque disposta al suo interno secondo un ordine cronologico ben definito, ma questa catena di eventi avrà una collocazione fluttuante nella scala del tempo. Con maglie ora più larghe ora più strette, essa potrà spostarsi verso età a noi più vicine o verso età più remote a seconda dell'età delle singole componenti, che, nel caso di una stratificazione, sarà indicata dai reperti presenti al loro interno. Solo attraverso questi ultimi sarà possibile infatti desumere l'età di formazione dei singoli strati e calare quindi la cronologia relativa definita dall'osservazione stratigrafica in una cronologia assoluta. La datazione degli strati attraverso i reperti in essi contenuti avviene tramite un procedimento cronotipologico basato sulla constatazione della variabilità della forma dei manufatti nel corso del tempo, e quindi sul loro implicito valore di documento cronologico, secondo lo stesso procedimento concettuale che ha presieduto alla costruzione delle cronologie geologiche in seguito all'individuazione di fossili "diagnostici". Questi hanno trovato ampia applicazione nell'archeologia preistorica attraverso la cosiddetta "datazione faunistica", che, con il riconoscimento delle diverse forme evolutive delle specie animali, la scomparsa e l'alterazione di una vecchia specie o la comparsa di una nuova nel corso del tempo, ha reso possibile la datazione di contesti che ne conservavano i resti (senza dimenticare tuttavia che l'estinzione di una specie in una determinata regione non ne implica la scomparsa anche in altre regioni più o meno lontane). Qualunque oggetto in qualunque modo databile presente in uno strato indicherà la data dopo la quale (terminus post quem) deve essersi necessariamente formato il contesto che lo contiene. Quando uno strato restituisce una quantità di reperti elevata, il terminus post quem sarà comunque indicato dal reperto più recente, purché sia certo che la sua presenza (anche isolata) in quel contesto non sia il risultato di un processo postdeposizionale, provocato dall'infiltrazione di materiali di piccole dimensioni tra le radici di un albero o tra gli interstizi di una struttura muraria o nelle cavità di una tana. In tal caso, il reperto deve infatti considerarsi intrusivo e di esso l'archeologo non dovrà tenere alcun conto per la datazione dello strato. Il reperto più recente presente in uno strato potrà tuttavia indicare una data anche molto lontana dall'età di formazione dello strato stesso; esso potrà essere infatti un residuo, di scarsa o nessuna utilità per la datazione di un evento accaduto molto tempo dopo la produzione di quel reperto. In assenza di materiali coevi o prossimi all'età di formazione dello strato, il terminus post quem sarà comunque offerto dalla datazione dello strato che precede immediatamente quello in esame all'interno della sequenza. Analogamente, anche la data prima della quale (terminus ante quem) debba porsi la formazione dello strato che si sta esaminando è indicata dal punto di vista stratigrafico dalla cronologia dell'unità stratigrafica immediatamente successiva a quella che occorre datare. Ma anche in questo caso la datazione può essere ulteriormente precisata da un'analisi più dettagliata dei reperti, che valuti ‒ oltre alle presenze di data più recente ‒ anche le eventuali assenze di materiali non ancora entrati in produzione. Il procedimento è dunque in genere piuttosto complesso e non può prescindere da una comprensione da parte dell'archeologo della natura del sito e delle attività che vi si svolgevano, dei processi di stratificazione che vi si sono succeduti e più in generale delle forme in cui si manifestava la cultura dell'insediamento oggetto di indagine. I reperti mobili presenti negli strati sono in genere materiali scartati, sepolti o perduti, e quindi usciti dal ciclo culturale di utilizzo, ma la data del loro ingresso nello strato non coincide necessariamente con la data del loro scarto. Essi potrebbero infatti provenire a loro volta da altri contesti nei quali erano stati già gettati prima di venirne rimossi; mentre altri reperti, al contrario, potrebbero essere entrati per la prima volta in un deposito dopo aver circolato per decine o centinaia di anni prima di essere scartati. Nell'analisi dei reperti presenti nei contesti stratigrafici appare quindi fondamentale determinare se essi si trovino in giacitura primaria (occupino cioè più o meno il posto in cui si trovavano quando hanno cessato di essere utilizzati) o in giacitura secondaria, come avviene nella maggioranza dei casi. Il riconoscimento della posizione in giacitura secondaria dei manufatti presenti in un contesto dipende dunque il più delle volte dalla capacità dell'archeologo di riconoscerli in base a loro determinate caratteristiche formali, decorative o tecniche. Talvolta anche l'osservazione diretta dello stato di conservazione dei reperti (molto frammentati o consunti) può essere indizio di diverse azioni di rimaneggiamento a cui sono stati sottoposti dal momento del loro scarto e può quindi testimoniare del fatto che essi non si trovano in giacitura primaria. Il rinvenimento di manufatti in giacitura primaria è dunque condizione assai favorevole per l'interpretazione archeologica, che si verifica prevalentemente nel caso di strutture o siti abbandonati e non più disturbati o ‒ assai più raramente ‒ nel caso di siti la cui vita sia stata improvvisamente interrotta da eventi distruttivi più o meno catastrofici, che abbiano lasciato testimonianza di quelle associazioni di manufatti in uso contemporaneamente. Questa è la caratteristica propria dei cosiddetti "contesti chiusi", che restituiscono, per definizione, oggetti che non possono essere più recenti del deposito stesso. Anche in questo caso occorre tuttavia distinguere tra la contemporaneità di formazione del deposito e della sua "sigillatura" e la contemporaneità di produzione o di utilizzazione dei reperti in esso contenuti, che è molto più difficile da stabilire e argomentare. Prima di utilizzare le informazioni cronologiche offerte dai manufatti è quindi necessario che l'archeologo osservi e ricostruisca i processi culturali di formazione che sono all'origine del contesto in esame. Nonostante queste difficoltà e cautele, una grande quantità di punti fermi nella costruzione della cronologia assoluta degli insediamenti archeologici è stata fissata grazie al rinvenimento di reperti in contesti chiusi, che si sono potuti mettere in relazione con eventi storici comunque databili sulla base di altri sistemi di fonti, ad esempio letterarie o epigrafiche. Molto dipende naturalmente dall'attendibilità del contesto. Il caso di Pompei e delle altre città distrutte dall'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. è universalmente noto, ma già molto più problematiche si fanno le interpretazioni cronologiche desunte dalle presunte correlazioni di contesti chiusi derivati, ad esempio, dagli effetti di un terremoto con eventi sismici determinati e ben datati dalle fonti storiche. I "contesti chiusi" prodotti da un'azione di sigillatura volontaria (come nel caso di una deposizione funeraria) o naturale/ accidentale (un relitto sottomarino, un incendio, un terremoto, un'eruzione vulcanica) offrono comunque alte possibilità di datazione, perché possono indicare l'età prima della quale il fenomeno deve essersi prodotto, cioè il suo terminus ante quem. Quest'ultimo potrà anche essere assai preciso in presenza di eventuali fonti storiche che datino l'evento; nel caso di eventi non datati si gioverà comunque dell'analisi complessiva dei reperti contemporaneamente presenti nel contesto. L'associazione di oggetti trovati insieme sul pavimento di una casa può testimoniare infatti che essi fossero in uso, sotto qualsiasi forma, quando la casa fu abbandonata, specie se l'abbandono fu causato da una fuga repentina o dalla distruzione violenta dell'insediamento. Analogamente, gli oggetti depositati in una tomba mai più rivisitata furono certamente deposti assieme per qualche ragione, anche quando essi, ad un'analisi tipologica o tecnologica, palesino di appartenere ad epoche anche considerevolmente lontane nel tempo. Il problema si pone in termini diversi quando le fonti storiche invece di datare un evento di "sigillatura" di un contesto, ne datino piuttosto la formazione, come nel caso non infrequente della nascita di un insediamento. La data di fondazione tramandata dalle fonti indicherà in questo caso in linea di massima il terminus post quem per tutti i materiali presenti sul sito; a loro volta, i reperti raccolti negli strati di fondazione dell'insediamento e nei settori più antichi delle sue necropoli saranno da mettere in relazione cronologica con la nascita dell'insediamento stesso, sempre che l'interpretazione che ne è stata data sia sufficientemente argomentata e quindi attendibile. Grazie ai collegamenti che si possono istituire con le cronologie assolute indicate da fonti documentarie scritte di qualunque natura (testi letterari, documenti d'archivio, iscrizioni), è dunque possibile datare singole attività archeologiche o anche fenomeni insediativi più complessi, come è avvenuto, ad esempio, nel caso delle colonie greche d'Occidente, di cui gli autori antichi tramandano le date di fondazione. Questi stessi riferimenti cronologici indicano anche per implicazione il periodo di uso di manufatti e strutture di ogni tipo presenti in quegli insediamenti. Gli scavi stratigrafici, in particolare quelli condotti in contesti che possono essere datati grazie ad uno o più sistemi di fonti, hanno quindi consentito di stabilire ‒ specie per le produzioni ceramiche ‒ serie evolutive nelle quali è possibile inserire per confronto, a mano a mano che gli scavi li riportano alla luce, nuovi manufatti. Questi vengono in tal modo a godere di una sempre più dettagliata possibilità di inquadramento cronologico e consentono la costruzione di serie tipologiche datate, da utilizzarsi a loro volta per la datazione di contesti presenti su altri siti di cronologia più incerta che abbiano restituito manufatti analoghi. Il riconoscimento di contesti datati su basi storiche e la costruzione di tipologie e di seriazioni attendibili sono pertanto alla base del metodo della datazione incrociata, che si fonda sul seguente principio: se manufatti già noti in contesti ben datati compaiono con forme, decorazioni e tecniche uguali o molto simili in un altro contesto archeologico, quest'ultimo può a sua volta fornire eccellente materiale comparativo da utilizzare, per associazione secondaria, ai fini della datazione di altri contesti. La datazione dei reperti sarà comunque tanto più agevole quanto più i singoli oggetti siano intrinsecamente databili, sulla base di messaggi di diversa natura di cui si trovino ad essere essi stessi portatori. Nei casi più fortunati, gli stessi manufatti possono riportare addirittura una data, come si verifica in termini particolarmente evidenti nel caso delle monete, spesso riferibili ad un anno preciso, o almeno ad un ristretto arco di tempo pari al periodo in cui fu attiva l'autorità emittente, o nel caso delle iscrizioni. Queste ultime possono infatti contenere o i nomi di personaggi di cronologia già accertata o dati che possono essere comunque ricondotti ad una determinata epoca storica e a periodi di tempo anche particolarmente definiti, sulla base del loro contenuto sia linguistico che testuale, da mettere a sua volta in relazione con i caratteri esterni, cioè con le caratteristiche più propriamente archeologiche del loro supporto. Anche alle iscrizioni e alle monete, come ad ogni altro manufatto, l'archeologo potrà infatti applicare di volta in volta quelle analisi tecnologiche, tipologiche, iconografiche e stilistiche che sono proprie del suo metodo di lavoro e che gli consentiranno un inquadramento del reperto nell'ambito della cultura che lo ha prodotto. La scelta di una determinata forma o immagine o di uno stile riflette infatti fenomeni culturali che occupano posizioni precise nella scala del tempo e si collocano quindi necessariamente non prima dell'epoca storica che li ha introdotti. Altrettanto si dica per le soluzioni tecnologiche che presiedono alla produzione dei singoli manufatti e più in generale per gli aspetti complessivi della cultura materiale di ogni particolare comunità, il cui riconoscimento si traduce direttamente nella definizione di un terminus post quem per la datazione dei contesti che restituiscano reperti con le caratteristiche proprie di ciascuna cultura. Questa analisi culturale dei reperti può investire dunque ogni tipo di manufatto, sia mobile che strutturale, e quindi anche le murature, che, per i materiali impiegati e per le tecniche edilizie con le quali sono stati messi in opera, offrono indicazioni preziose per la cronologia dei contesti. Tale analisi può essere applicata anche ai rinvenimenti di natura biologica, quando la loro presenza in un contesto geografico particolare sia indizio certo dell'intervento dell'uomo, e quindi di un fenomeno culturale, spia di una datazione storicamente ricollegabile a quell'intervento. A puro titolo di esempio, si consideri l'importanza del rinvenimento di ossa animali che indicano l'avvenuta domesticazione di una determinata specie; oppure come la presenza di ossa di tacchino in un contesto archeologico europeo possa dare sicura testimonianza di una datazione ad età posteriore all'introduzione di quella specie dalle Americhe. I reperti che si prestano più di altri alle determinazioni cronologiche sono tuttavia i reperti ceramici, sui quali si basa nella stragrande maggioranza dei casi la possibilità di datazione archeologica dei contesti. Grazie ad una ormai antica tradizione di studi tipologici e tecnologici, la ceramica offre infatti per le diverse culture un'amplissima gamma di "fossili-guida" che consentono l'individuazione di periodi e fasi cronologiche storicamente definite, anche più di quanto talora non possano indicare le stesse monete o le iscrizioni. Intere epoche della storia antica sono state indagate alla luce dei dati cronologici offerti dalla ceramica. Nel campo dell'archeologia classica, ad esempio, gli archeologi possiedono oggi uno strumentario ceramologico sufficiente a definire nel dettaglio una griglia cronologica che copre oltre un millennio e mezzo di storia, dall'età geometrica alle soglie del Medioevo, continuamente verificata dall'apporto di nuovi dati stratigrafici, mentre nel corso dell'ultima generazione sono state gettate basi solidissime per la costruzione di repertori analoghi anche per le diverse culture archeologiche medievali e moderne. La ceramica decorata, come la celebre produzione dipinta di area greca e magnogreca, associa ad un variegato repertorio morfologico la particolare ricchezza dei suoi corredi iconografici, che consentono attribuzioni anche stilistiche a singoli artigiani; mentre nel mondo romano, alle opportunità di classificazione tipologica offerte dallo sviluppo delle produzioni ceramiche di serie, si affianca la presenza non infrequente di dati epigrafici attraverso l'uso diffuso dei marchi di fabbrica. La datazione di questi ultimi, per i manufatti di età più recente, può essere verificata a sua volta anche dall'eventuale disponibilità di materiali archivistici. Naturalmente gli studi ceramici hanno conseguito i loro risultati migliori nel campo del vasellame più fine, la cui diffusione, per quanto capillare, non fu mai uniforme e conobbe nel tempo numerose soluzioni di continuità. Ma ciò non ha impedito che, anche nel caso di produzioni ceramiche più comuni, ripetute osservazioni stratigrafiche abbiano consentito di articolarne la cronologia in base al diverso indice di popolarità dei singoli tipi, testimoniato dalla loro maggiore o minore presenza nei contesti. La tipologia mira infatti a classificare oggetti e manufatti disponendoli in serie, secondo un ordine tale da far supporre che, all'interno di una stessa area o cultura, un determinato gruppo di reperti possa essere collocato con un certo grado di probabilità nel tempo o prima o dopo o contemporaneamente ad altri gruppi. I raggruppamenti in serie possono essere definiti sulla base di diversi tipi di attributi. In archeologia si preferisce prevalentemente definire insiemi omogenei dal punto di vista sia funzionale che tecnologico ed operare al loro interno raggruppamenti di carattere morfologico che tengano conto anche delle variabili decorative e stilistiche. Queste ultime possono essere decisive, dal momento che, mentre le forme dei manufatti possono a volte perdurare immutate per un lungo periodo di tempo, i sistemi decorativi tendono a mutare più rapidamente e possono quindi divenire indicatori cronologici particolarmente sensibili. Il metodo cronotipologico è stato applicato non solo a singoli manufatti, ma anche alle associazioni di manufatti nei singoli contesti, che vengono messe in relazione fra di loro e quindi disposte in successione (seriazione di contesti) secondo un ordine interpretato come indicatore della loro successione cronologica. La cosiddetta "seriazione di frequenza" si basa invece sulla misurazione delle variazioni riscontrabili nei rapporti proporzionali di presenza di un determinato tipo nei contesti posti a confronto. Questi rapporti sono espressi mediante diagrammi che offrono una rappresentazione quantitativa della dinamica di introduzione, affermazione e obsolescenza dei manufatti e sono particolarmente utili nell'analisi degli abitati e in genere dei contesti non sigillati, perché possono contribuire a identificare quella che è stata definita come "soglia di residualità" del tipo, che consente all'archeologo di valutare il grado di affidabilità dei singoli reperti per la definizione della cronologia degli insediamenti. Si tenga comunque presente che l'ordine costruito mediante seriazioni, che operano in condizioni di cronologia relativa, non riflette direttamente la complessità dei fenomeni culturali che presiedono alla distribuzione dei manufatti, la cui analisi non può prescindere dall'interpretazione archeologica complessiva della realtà che si sta indagando. In conclusione, le procedure tradizionalmente applicate per la datazione archeologica hanno consentito l'apprestamento di complessi schemi di cronologie comparate. Ancorandosi alle cronologie storiche del Vicino Oriente, essi sono serviti, ad esempio, come strumento per le datazioni assolute della preistoria recente dell'Europa, le quali si sono basate prevalentemente sul riconoscimento di analogie formali tra i materiali archeologici delle diverse regioni, ma non hanno retto il confronto con le datazioni raggiunte con l'introduzione di nuovi sistemi basati su analisi naturalistiche e fisico-chimiche, in particolare sui metodi del radiocarbonio e della dendrocronologia. Quest'ultima, anche se non è sempre applicabile dal momento che il legno si conserva prevalentemente in ambienti molto umidi o molto secchi, è in grado di collegare alberi attualmente vivi ad alberi morti anche migliaia di anni fa. La dendrocronologia si sta rivelando uno degli strumenti più sensibili e precisi per la determinazione delle cronologie assolute dei manufatti e dei contesti delle età protostorica e storica, i quali finora, per la solidità dei metodi di datazione archeologica tradizionali, hanno tratto scarso giovamento dallo sviluppo delle tecniche di datazione basate sulle proprietà fisicochimiche dei materiali, che hanno invece rivoluzionato in ogni parte del mondo le cronologie delle età più remote.
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di Mario Fornaseri
La datazione, ovvero l'accertamento del tempo in cui un determinato evento si è verificato, può compiersi o con riferimento ad una determinata "scala dei tempi", l'origine della quale può essere convenientemente scelta, o in base alla valutazione cronologica relativa di due o di una serie di eventi, indipendentemente da una qualsiasi scala cronometrica. Due eventi A e B possono essere contemporanei, oppure l'evento A può essere antecedente (o posteriore) rispetto all'evento B. In questo caso si parla di datazione relativa e, con lo stesso principio, si possono costruire delle scale relative dei tempi. Un esempio di queste è la scala geologica che si estende dall'Archeano (Precambriano) fino al Quaternario recente. Quando viceversa una datazione venga riferita ad una scala dei tempi numericamente definita, essa potrà definirsi assoluta qualora sia possibile esprimere la data in termini di tempo sidereo, cioè come un numero di anni accompagnato dalla precisazione del calendario usato, ad esempio a.C., d.C. per il calendario cristiano, a.H., d.H. per il calendario musulmano, dove H sta per hiǵra (ègira). Seguendo questa definizione, gli antichi annali e le iscrizioni databili forniscono un mezzo di datazione assoluta se la loro cronologia può essere collegata al tempo sidereo mediante il riferimento ad eventi astronomici. Così, ad esempio, la successione dei re egiziani del Medio Regno ha un punto di riferimento astronomico nella levata eliaca di Sirio nel XIX sec. a.C. e di conseguenza si possono considerare assolute le datazioni della stessa successione e delle iscrizioni ad essa riferibili. Lo studio di fenomeni naturali il cui andamento dipende dal tempo fornisce un mezzo validissimo e spesso insostituibile per la valutazione del tempo trascorso da un determinato evento ad oggi, quindi per la datazione dell'evento stesso. Tuttavia, il fatto stesso che la valutazione del tempo ottenuta con questi metodi sia inevitabilmente affetta quanto meno da un certo errore di misura non consente, a rigore, di considerare le datazioni che se ne possono ottenere come datazioni assolute, se non in casi particolari di cui sarà fatto ulteriormente cenno. Come ha chiaramente espresso A. Holmes (1962), uno dei pionieri della moderna geocronometria: "Una determinata età non diviene assoluta solo in virtù del fatto di essere espressa mediante un'unità di tempo, quale un 'anno' (...). Il termine non solo è ridondante e privo di significato filosofico e scientifico, ma è anche fuorviante poiché suscita l'impressione che esso abbia maggiore precisione di quanto giustificabile effettivamente". Più aderente al concetto espresso sarà allora la locuzione "datazioni numeriche" e, nel caso che siano ottenute in base ai processi di decadimento radioattivo, "datazioni radiometriche" o "isotopiche", seguendo il suggerimento di G. Faure (1986). È peraltro da notare che nell'uso corrente molti autori continuano ad usare promiscuamente i termini "datazioni radiometriche", "datazioni nucleari" o anche "datazioni assolute", queste ultime da considerare puramente in contrapposizione a quelle "relative". Dopo questa premessa, indispensabile per sgomberare il terreno da possibili malintesi, possiamo analizzare con maggiore senso critico in qual modo e in quale misura lo studio dei menzionati fenomeni naturali possa fornirci i mezzi per la valutazione del tempo trascorso.
Fenomeni geologici dipendenti dal tempo in grande scala sono notoriamente i processi di erosione e di sedimentazione. Benché l'esatta dipendenza dal tempo di questi fenomeni sia questione controversa, pure la loro valutazione ha consentito, fin dal secolo scorso, una stima della durata complessiva del tempo geologico (Schuchert 1931). In piccola scala i fenomeni di erosione sono stati recentemente chiamati in causa (Bednarik 1992) per la datazione dei petroglifi. Dipendente dal tempo risulta anche il rapporto, misurabile nella "vernice del deserto" (rivestimento ricco in manganese che ricopre molte superfici di interesse geomorfico e archeologico), fra gli elementi geochimicamente mobili (potassio, calcio) e l'elemento meno mobile, il titanio. Viene offerto in questo modo un metodo di datazione estremamente interessante (Dorn 1983). Molto più raffinate valutazioni cronometriche si possono ottenere col metodo delle varve: trattandosi di sedimentazioni ritmiche stagionali, per mezzo di esse è possibile valutare con grande precisione intervalli di tempo. Qualora la datazione di una determinata varva sia nota con riferimento al calendario, il metodo delle varve è in grado di fornire datazioni assolute. Le variazioni di composizione che gli oggetti di interesse archeologico subiscono durante il seppellimento e che ‒ nel caso di resti di organismi animali o vegetali ‒ fanno parte dei processi chimici che accompagnano la fossilizzazione, sono anch'essi fenomeni dipendenti dal tempo e possono venire chiamati in causa per concorrere alla risoluzione di problemi di datazione. La fissazione di elementi come il fluoro e l'uranio nelle ossa fossili, che procede gradualmente col tempo di permanenza delle ossa nel suolo, come pure la graduale diminuzione del contenuto di azoto, legata alla degradazione del contenuto proteico delle ossa stesse, possono fornire utilissimi elementi ai fini di una loro possibile datazione. Allo stesso scopo può essere utilizzata la graduale trasformazione dalle forme L alle forme D degli aminoacidi presenti nei sedimenti marini e nelle ossa fossili. E, ancora, la misura dello strato di idratazione dell'ossidiana, che è funzione del tempo durante il quale l'oggetto è stato esposto agli agenti atmosferici (umidità) dal momento della sua lavorazione, è alla base di un metodo di valutazione cronologica che ha avuto largo impiego. I fenomeni menzionati, tutti dipendenti dal tempo, sono alla base di altrettanti "metodi di datazione" che sono stati usati, o lo sono tuttora, con varia fortuna. Il punto debole di molti dei procedimenti accennati risiede nel fatto che il decorso nel tempo dei fenomeni su cui si basano è fortemente influenzato dalle condizioni ambientali. Il contenuto di fluoro e di uranio nelle ossa, ad esempio, non dipende soltanto dal tempo di permanenza del reperto nel suolo, ma dalla concentrazione dei due elementi nel suolo stesso, dalla loro mobilità geochimica, dalla circolazione delle acque e così via. Così pure la graduale diminuzione del contenuto in azoto delle ossa fossili è fortemente condizionata dalla temperatura, dall'acidità del suolo, dalla presenza di microrganismi produttori di enzimi. Anche l'estensione della racemizzazione degli aminoacidi e lo spessore dello strato di idratazione dell'ossidiana non dipendono soltanto dal tempo, ma dalle condizioni climatiche e in particolare dalla temperatura, per cui risulta difficile, servendosi di questi criteri, giungere ad una attendibile datazione numerica. Ciò non toglie interesse ai procedimenti accennati, in quanto essi possono concorrere validamente alla risoluzione di problemi di cronologia relativa e i dati numerici da essi deducibili possono assumere un buon grado di affidabilità qualora sia possibile realizzare una "calibrazione" o "taratura" del sito. Una considerazione a parte meritano i procedimenti basati sulle variazioni secolari del campo magnetico terrestre. Il magnetismo termoresiduo di alcune rocce effusive fornisce indicazioni sulle antiche direzioni del campo magnetico terrestre e di conseguenza può fornire un criterio di datazione anche molto preciso che, nell'ipotesi che si possa disporre di adeguate curve di riferimento, si può considerare assoluto. Un'ulteriore possibilità di stima del tempo trascorso, e di conseguenza di datazione, deriva dal carattere ritmico di eventi climatici, che trova la sua espressione nel succedersi delle stagioni. Notoriamente le piante che crescono in territori dove si verificano variazioni climatiche periodiche a ciclo stagionale sono caratterizzate dalla presenza di "anelli di accrescimento", il conteggio e la misura dei quali costituiscono il fondamento metodologico della dendrocronologia. Come nel caso delle varve, le sequenze locali hanno il significato di cronologie fluttuanti ( floating chronologies) fin tanto che tali cronologie non possano venire ancorate ad una data storica o alla curva dendrocronologica di riferimento generalizzata; in questo caso i risultati dendrocronologici acquistano il carattere di datazioni assolute. La dendrocronologia, che si estende attualmente a più di 8000 anni dal presente, oltre a consentire la datazione di manufatti lignei, riveste la massima importanza perché consente una verifica fino a questo limite delle datazioni ottenibili col metodo del radiocarbonio.
La disintegrazione spontanea (o decadimento) degli atomi degli elementi radioattivi offre per conto proprio una vasta gamma di metodi di misura del tempo trascorso. Anche se, in base alle premesse enunciate, questi metodi non si possono a rigore considerare assoluti, sta di fatto che il decadimento radioattivo si verifica con leggi definite, costanti nel tempo e indipendenti dai fattori ambientali, almeno per quanto riguarda le condizioni alle quali i materiali terrestri sono comunemente soggetti. Lo sviluppo di questi metodi si ricollega alla scoperta della radioattività da parte di H. Becquerel nel 1896 e alla successiva enunciazione, da parte di E. Rutherford nel 1900 e di E. Rutherford e F. Soddy nel 1902, delle leggi generali che regolano il decadimento radioattivo. I processi radioattivi sono reazioni nucleari spontanee che decorrono con velocità misurabile e caratteristica e sono accompagnate dall'emissione di radiazioni particolari. Nella seguente esposizione verranno descritti alcuni tipi di decadimento radioattivo.
1) Decadimento α: consiste nell'emissione di una particella α, ossia di ioni elio con due cariche positive; ne risulta che l'emissione di una particella α determina una diminuzione di quattro unità nel numero di massa e di due unità nel numero atomico. A titolo di esempio riportiamo:
²³⁸ ₉₂U → ²³⁴ ₉₀Th + ⁴ ₂He
uranio-238 → torio-234 + α.
2) Decadimento β‒: si ha quando nel nucleo si verifica la trasformazione di un neutrone in un protone con emissione di una particella β (elettrone). In seguito alla perdita di un elettrone l'elemento sale di un'unità nella scala dei numeri atomici, mentre il numero di massa rimane invariato. Come esempio citiamo la reazione
¹⁴ ₆C → ¹⁴ ₇N + β,
fondamentale per le datazioni col metodo del radiocarbonio.
3) Cattura di un elettrone (cattura K): la cattura K è un processo radioattivo che si verifica quando un elettrone che si trova in una delle orbite di un atomo viene "catturato" dal nucleo. Gli elettroni dell'orbita K, essendo questa la più vicina al nucleo, hanno la maggiore probabilità di "cadere" nel nucleo e perciò sono quelli che più spesso sono soggetti a quel processo di cattura che si chiama pertanto cattura K. La cattura di un elettrone da parte del nucleo determina la diminuzione di una unità di carica positiva dello stesso, perciò nella cattura K da parte di un nucleo a numero atomico Z il nuovo atomo prodotto corrisponde ad un elemento avente numero atomico Z‒1, mentre il numero di massa rimane invariato. La più comune manifestazione esterna della cattura K è la successiva emissione di raggi X dovuta al fatto che si fa libero un posto nello strato K, il quale viene rioccupato da un elettrone proveniente da un livello più esterno. Si avrà di conseguenza emissione di energia sotto forma di radiazione caratteristica dell'elemento avente numero atomico Z‒1. Inoltre, trovandosi il nucleo dopo la cattura in uno stato eccitato, emetterà una radiazione γ nel tornare allo stato fondamentale. Esempio tipico di cattura K è la seguente reazione, molto importante per la cronologia radiometrica:
⁴⁰ ₁₉K + ⁰ ₁e → ⁴⁰ ₁₈ Ar + radiazioni γ e X
potassio-40 + elettrone → argon-40 + energia.
4) Duplice decadimento: in alcuni casi un nucleo radioattivo può decadere in due (o più) modi diversi, per dare origine a due diversi nuclidi. L'esempio più appropriato è ancora fornito dal potassio-40 che può decadere secondo il seguente schema: argon-40 (cattura K) potassio-40 calcio-40 (decadimento β‒). Oltre ai tipi di decadimento menzionati si conosce un quinto tipo di decadimento, dovuto al fenomeno della fissione nucleare. Nei processi considerati, da un elemento radioattivo (genitore) deriva dunque un altro elemento radiogenico (figlio). Quest'ultimo di per sé può costituire un nuclide stabile oppure instabile, capace di disintegrarsi a sua volta dando origine a tutta una "cascata" di elementi radioattivi, fino a giungere ad un nuclide stabile finale. Elementi di questo tipo costituiscono le cosiddette "serie" o "famiglie radioattive". Ai nostri fini hanno particolare importanza le tre famiglie aventi rispettivamente come capostipiti l'uranio-238, l'uranio-235 e il torio-232 e come prodotti finali stabili del decadimento rispettivamente il piombo-206, il piombo-207 e il piombo-208. L'espressione fondamentale del decadimento radioattivo, come stabilita da E. Rutherford, è data dall'equazione esponenziale P = P₀e‒λt, dove P rappresenta il numero di atomi dell'elemento radioattivo (genitore) ancora presenti al tempo t, P₀ è il numero di atomi presenti all'origine, e è la base dei logaritmi naturali (il suo valore numerico è 2,718...) e λ è la costante di decadimento, caratteristica per ogni nuclide radioattivo. L'equazione ci dice in sostanza che il decadimento radioattivo (cioè la diminuzione del numero di atomi radioattivi) avviene nel tempo con legge esponenziale e che il decadimento sarà tanto più rapido quanto più la costante λ è grande e viceversa. Alla costante di decadimento è legato anche il cosiddetto "tempo di dimezzamento" (t₁/₂), definibile come il tempo necessario perché il numero P₀ di atomi iniziali dell'elemento genitore si riduca a metà. Dalla precedente equazione esponenziale si deduce che il tempo di dimezzamento è in relazione inversa con la costante di disintegrazione λ secondo la relazione t₁/₂ = 0,693/λ. Questo valore può essere usato in alternativa a λ, essendo le due grandezze collegate: ovviamente il decadimento sarà tanto più rapido quanto minore è il valore di t₁/₂. In lingua inglese il tempo di dimezzamento è chiamato half life ("mezza vita") e non deve essere confuso con la "vita media"τ, che si dimostra essere uguale al valore reciproco della costante λ e che esprime la durata media di vita di un singolo atomo radioattivo. Così, ad esempio, il tempo di dimezzamento del carbonio-14 è di 5730 anni, mentre la sua vita media è di 8267 anni. Ciò significa che in una popolazione di atomi di carbonio-14 ogni singolo atomo vive in media, prima di decadere, 8267 anni, ma l'insieme degli atomi di carbonio-14 si riduce della metà dopo 5730 anni. Con semplici ragionamenti, per i quali il lettore è rinviato ai trattati di G. Ferrara (1984) e di G. Faure (1986²), si dimostra che l'età, ossia il tempo trascorso dall'istante iniziale, cioè dal momento in cui il sistema diventa un sistema chiuso senza scambi con l'esterno, può essere misurata: 1) in base alla diminuzione del numero di atomi dell'elemento radioattivo. I metodi che fanno uso di questo principio sono anche chiamati "orologi a decadimento" (decay clock). Può essere qui opportunamente richiamata l'immagine della clessidra, con cui si può misurare il tempo semplicemente dalla diminuzione della quantità di sabbia contenuta nel comparto superiore; 2) in funzione del rapporto, all'istante della misura, fra la quantità di atomi dell'elemento radiogenico (figlio) e dell'elemento radioattivo (genitore). Per questo motivo i metodi che fanno uso di questo principio sono chiamati "orologi ad accumulo" (accumulation clock). Così in una clessidra si potrà anche valutare il tempo dal rapporto fra la quantità di sabbia accumulata nel comparto inferiore e quella ancora presente in quello superiore. I principali metodi radiometrici o "isotopici"- Si conoscono una trentina di nuclidi radioattivi naturali, tutti suscettibili di impiego ai fini cronologici nel senso più vasto: molti di essi sono stati in realtà utilizzati ed alcuni di essi in particolare. Fra questi i più noti sono il carbonio-14, il potassio- 40, il rubidio-87, l'uranio-235, l'uranio-238, il torio-232, sui quali sono basati i metodi di datazione del carbonio-14, del potassio-argon, del rubidio-stronzio e i metodi uraniopiombo e torio-piombo, come si è visto nel quadro riassuntivo in Tabella. È il caso di sottolineare che fra quelli elencati il metodo del carbonio-14 riveste le caratteristiche di "orologio a decadimento", mentre i rimanenti appartengono al gruppo degli "orologi ad accumulo". La possibilità di utilizzare i metodi radiometrici o "isotopici" per la datazione è peraltro subordinata ad alcune condizioni essenziali: 1) conoscenza del processo di disintegrazione; 2) conoscenza della costante di decadimento (o del tempo di dimezzamento; 3) assenza di prodotti di decadimento preesistenti nel materiale da datare, o quanto meno conoscenza della quantità presente al fine di poter apportare nelle equazioni opportuni termini correttivi; 4) esistenza delle condizioni di "sistema chiuso", vale a dire che non si siano verificati né acquisti né perdite nel tempo né dell'elemento radioattivo né dell'elemento radiogenico; 5) coevità del materiale contenente l'elemento radioattivo con la formazione che si intende datare. Il mancato o imperfetto verificarsi delle condizioni accennate, in particolare delle due ultime, può essere causa di invalidità dei risultati; in questi casi l'errore associato alla datazione può superare di molto l'errore statistico associato alla misura fisica. È noto che il campo di applicabilità dei metodi radiometrici è rappresentato da un intervallo di tempo pari a circa dieci volte il valore del tempo di dimezzamento dell'elemento genitore. Infatti è facile vedere che, dopo un lasso di tempo pari a dieci volte il tempo di dimezzamento, l'elemento genitore si riduce a circa un millesimo rispetto alla quantità iniziale. Ciascuno dei metodi di datazione ha perciò un proprio più o meno limitato campo di applicabilità, ma globalmente essi hanno la potenzialità di coprire tutta la storia della Terra e, certamente, l'intero arco di tempo a cui è interessata l'archeologia. Per quanto si riferisce all'applicabilità dei metodi radiometrici ai problemi specifici della ricerca archeologica, quelli che presentano il maggiore interesse sono il metodo del carbonio-14 e del potassio- argon, nonché alcuni metodi più complessi basati sul decadimento di elementi (nuclidi) radioattivi facenti parte della famiglia dell'uranio-238. Seppure in casi limitati, anche il metodo rubidio-stronzio è capace di estendere le sue possibilità alla datazione di eventi vulcanici relativamente recenti (330.000 anni ca. dal presente) di potenziale interesse archeologico (Radicati di Brozolo et al. 1981). Sono collegati ai metodi radiometrici anche alcuni procedimenti che sfruttano i danni provocati dalle radiazioni nucleari nei minerali che contengono elementi radioattivi. Benché in linea generale il termine "danno da radiazione" possa avere diversi significati, in tema di metodi di datazione assume quello più ristretto che sta ad indicare i disturbi strutturali che le radiazioni ad alta energia e le particelle cariche espulse nei processi di decadimento dei nuclidi radioattivi provocano nel loro tragitto attraverso i materiali (minerali, vetri naturali e artificiali). Con riferimento ai singoli metodi di datazione, in molti casi i disturbi anzidetti possono costituire condizioni limitative per la validità dei risultati ottenuti, ossia per le valutazioni dell'età, quando, ad esempio, provocano la perdita dell'elemento radioattivo (ad es., uranio) o dell'elemento radiogenico (ad es., argon, stronzio, piombo). In altri casi, viceversa, si può trarre vantaggio dall'accumularsi nel tempo dei danni stessi, in quanto questi ultimi, opportunamente rivelati, possono dare origine a particolari metodi di misura del tempo trascorso, ossia dell'età.
In conclusione, se la certezza di una data è privilegio delle scienze storiche, i criteri scientifici offrono la possibilità di una ragionevole collocazione nella scala dei tempi di eventi che sfuggono ad una valutazione assoluta nel senso precedentemente discusso. Non si deve dimenticare che le datazioni numeriche esprimono una valutazione del tempo trascorso basata sul risultato di misure di grandezze fisiche, ottenibili attualmente con un alto grado di precisione, ma pur sempre affette da un errore, che uno sperimentatore accurato saprà rendere minimo, ma che inevitabilmente accompagna la misura in questione. All'errore associato alla misura fisica (errori accidentali o casuali di osservazione) si aggiungono malauguratamente altre cause di errore dovute, ad esempio, al mancato o imperfetto verificarsi dei presupposti sui quali un certo metodo è fondato, o alla non precisa conoscenza dei valori di riferimento (costanti di decadimento, impiego di sostanze campione o standard), o ad errata valutazione della collocazione stratigrafica, o ad altri imprevedibili fattori. Questi errori, che si possono raggruppare sotto la denominazione "errori sistematici", sono molto più difficili da valutare degli errori casuali e possono avere, rispetto a questi ultimi, un peso maggiore. La conseguenza è che una misura ottenibile anche con un alto grado di precisione (cioè con un piccolo errore casuale) può, per effetto degli errori sistematici, scostarsi anche notevolmente dal valore effettivo. In altri termini, un'elevata precisione della misura non garantisce automaticamente un altrettanto elevato grado di esattezza, a meno che non sia accertata l'assenza di errori sistematici. Questo non toglie certamente valore ai metodi numerici e ai metodi isotopici in particolare, ma impone cautela e rigore nell'interpretarne i risultati, i quali dovranno in ogni caso essere valutati e discussi in relazione al contesto a cui si riferiscono. Le precedenti considerazioni, unitamente a quelle che verranno espresse nella discussione dei singoli metodi, devono esser tenute ben presenti, affinché l'archeologo possa valutare l'opportunità o meno di sottoporre un reperto alle operazioni descritte e sappia interpretare correttamente i risultati delle misure, evitando di richiedere alle datazioni numeriche un potere risolutivo, una precisione e un'esattezza che sono al di là delle loro possibilità. Nel seguito della presente sezione saranno trattati più specificamente i metodi di datazione aventi particolare interesse archeologico: 1) metodi radiometrici (radiocarbonio, potassio-argon, serie dell'uranio); 2) metodi basati sui danni da radiazione (tracce di fissione, termoluminescenza, risonanza di spin elettronico); 3) metodi basati sul magnetismo terrestre (archeomagnetismo e paleomagnetismo); 4) metodi basati su altri fenomeni cronodipendenti (dendrocronologia, datazione con i pollini, racemizzazione degli aminoacidi, tefrocronologia).
Opere generali:
K. Rankama, Isotope Geology, London 1954; F.E. Zeuner, Dating the Past, London 1958; K. Rankama, Progress in Isotope Geology, New York 1963; H.N. Michael - E.K. Ralph, Dating Techniques for the Archaeologist, Cambridge (Mass.)1971; S. Fleming, Dating Archaeology, London 1976; G. Ferrara, Geocronologia radiometrica, Bologna 1984; E. Roth - B. Poty, Méthodes de datation par les phénomènes nucléaires naturels, Paris 1985; G. Faure, Principles of Isotope Geology, New York 1986².
In particolare:
H. Becquerel, Sur les radiations invisibles émises par phosphorescence, in Comptes Rendus de l'Académie de France, 122 (1896), p. 120; E. Rutherford, A Radioactive Substance Emitted from Thorium Compounds, in Philosophical Magazine, 2 (1900), pp. 1-14; E. Rutherford - F. Soddy, The Cause and Nature of Radioactivity, ibid., 4 (1902), pp. 370-96, 569-85; G. Schuchert, Geochronology, or the Age of the Earth on the Basis of Sediments and Life, in Bulletin of the Natural Research Council, 80 (1931), pp. 10-64; A. Holmes, "Absolute age", a Meaningsless Term, in Nature, 196 (1962), p. 1238; F. Radicati di Brozolo et al., ⁴⁰Ar-³⁹Ar and Rb-Sr Age Determinations on Quaternary Volcanic Rocks, in Earth and Planetary Science Letters, 51 (1981), pp. 445-56; R.L. Dorn, Cation-Ratio Dating: a New Rock Varnish Age- Determination Technique, in QuaterRes, 20 (1983), pp. 49-73; M.J. Aitken, Thermoluminescence Dating, London 1985; A.F. Nobbe - R.I. Dorn, Age Determination for Rock Varnish Formation within Petroglyphs: Cation-Ratio Dating of 24 Motifs from the Olary Region, South Australia, in Rock Art Research, 5 (1988), pp. 108-46; R.G. Bednarik, A New Method to Date Petroglyphs, in Archaeometry, 34, 2 (1992), pp. 279-91.
di Salvatore Improta
Il metodo di datazione con il radiocarbonio (¹⁴C) rappresenta un elemento chiave nella ricerca archeologica, in relazione alla sua capacità di fornire indicazioni temporali su gran parte dei materiali di scavo (carboni, legni, ossa, conchiglie, tessuti e, recentemente, anche inclusioni in materiali ceramici) e di essere un metodo di datazione assoluto in un intervallo temporale che va dal tempo attuale fino a circa 22.000 anni dal presente. A rafforzare l'importanza del metodo concorre l'elevata precisione delle datazioni, dovuta al grande sviluppo che il metodo ha avuto in tempi recenti in altri campi di applicazione, principalmente la paleoastrofisica e la paleoclimatologia, stimolando fortemente la ricerca tecnologica. Il metodo deve essere riguardato come produttore di datazioni assolute, in contrapposizione al concetto di datazione relativa, in quanto in grado di fornire un risultato, l'età del reperto, attraverso una relazione funzionale che consente di ricavarla da altre grandezze determinate sperimentalmente; cioè secondo il concetto di misurazione assoluta comunemente adottato nelle scienze fisiche e sperimentali in generale. Le origini del metodo del ¹⁴C si possono far risalire all'esperimento condotto da W.F. Libby e dai suoi collaboratori su campioni di gas metano prelevato dalle fogne di Baltimora (1946), anche se le prime determinazioni di età furono eseguite l'anno successivo. Per tale scoperta W.F. Libby ricevette il premio Nobel per la chimica nel 1960. La sua felice intuizione consiste nel fatto che egli ipotizzò, nel corso di studi sulle reazioni nucleari, che in natura potesse verificarsi ciò che si andava misurando in laboratorio, cioè la produzione di un isotopo del carbonio per interazione di neutroni termici con nuclei di azoto. Di fatto, come era stato evidenziato da S.A. Korff (1939), esistono in natura neutroni termici che vengono prodotti in alta atmosfera dall'interazione di spallazione dei raggi cosmici galattici. L'interazione di questi con atomi di azoto produce un nuclide secondo la reazione n + ¹⁴N →¹⁴C + p. Si tratta di una tipica reazione in cui viene inglobato un neutrone nel nucleo di azoto ed espulso un protone. Il nuclide prodotto ha le stesse proprietà chimiche di un normale atomo di carbonio e come tale si comporta. Reagisce chimicamente con gli atomi di ossigeno atmosferico, dando luogo alla formazione di anidride carbonica ¹⁴CO₂ che si mescola all'anidride carbonica ordinaria ¹²CO₂ ed entra a far parte dei serbatoi naturali di carbonio: atmosfera, biosfera, acque superficiali e sotterranee, sedimenti, oceano. La maggior parte del carbonio si ritrova appunto nell'oceano e nei sedimenti marini e continentali. La quantità totale di ¹⁴C nel serbatoio globale non si accresce indefinitamente in virtù della continua produzione, in quanto l'isotopo è radioattivo: esso infatti, non appena formato, decade trasformandosi nuovamente in nuclei di azoto secondo la reazione ¹⁴C →¹⁴N + β‒ + ν‒ . L'evento di decadimento è rivelabile a causa dell'emissione di β‒ (non di un antineutrino ν‒ , la cui rivelazione è estremamente complessa) e avviene, secondo un processo statistico, con una velocità ben determinata e caratteristica del processo; inoltre, data una certa popolazione di atomi ¹⁴C, il numero di decadimenti per secondo è direttamente proporzionale all'entità della popolazione. Ne segue che, se la velocità di produzione è costante (essa può essere stimata pari a 8 miliardi di atomi al secondo ca. in seguito all'impatto dei raggi cosmici sull'atmosfera terrestre), si raggiunge un equilibrio dinamico tra produzione e decadimento radioattivo in un tempo stimabile intorno a 60.000 anni, con un errore dell'1‰. Se si ipotizza che questo processo sia iniziato, appunto, più di 110.000 anni fa, si può ritenere che per tutto il tempo in cui la datazione con il ¹⁴C è effettuabile, e cioè dal presente a circa 50.000 anni fa, il sistema Terra e con esso i vari serbatoi di ¹⁴C (l'atmosfera, la biosfera, l'oceano) abbiano goduto di uno stato di equilibrio dinamico, il cui risultato è che la percentuale di ¹⁴C rispetto al carbonio totale, ovunque presente, è rimasta costante. Questo è un punto essenziale per la datazione: come si vedrà in seguito, queste condizioni ideali non si sono realizzate, nel senso che si sono avute in passato significative differenze nella velocità di produzione. Tuttavia il metodo non è stato da queste inficiato nei suoi fondamenti, in quanto si sono apportate "operazioni di salvataggio".
Il reperto archeologico databile con il ¹⁴C deve essere costituito da resti di sostanze organiche, quindi appartenuti a materia vivente. Per capire il principio della datazione il primo passo è quello di studiare l'interazione tra un sistema vivente e il serbatoio di scambio del ¹⁴C durante la vita del sistema medesimo. L'analisi di questo processo, che può essere descritto in termini quantitativi, conduce al seguente risultato: a causa del grande valore del tempo di decadimento del ¹⁴C, un sistema vivente che ha rapidi scambi con il serbatoio acquisisce una quantità di ¹⁴C la cui concentrazione è proporzionale a quella del serbatoio. La proporzionalità, non l'uguaglianza, è dovuta al fatto che alle reazioni biochimiche di scambio non tutti gli isotopi partecipano allo stesso modo. La fotosintesi clorofilliana, ad esempio, che è il processo base di acquisizione di ¹⁴C dell'atmosfera da parte di una pianta, avviene in modo da privilegiare l'assimilazione di ¹²C rispetto agli isotopi più pesanti ¹³C e ¹⁴C. Ne segue che una pianta possiede una concentrazione di ¹⁴C più piccola di quella dell'atmosfera; analoghi risultati si ritrovano negli animali che di vegetali si nutrono. Questi processi di assimilazione diversi dei vari isotopi del carbonio vanno sotto il nome di frazionamento isotopico; la loro influenza tuttavia è valutabile con elevata precisione. È infatti mediante analisi di laboratorio, condotte sull'isotopo stabile ¹³C, che si può quantificare l'entità del frazionamento. Ne deriva che la concentrazione di ¹⁴C di un organismo, durante la sua vita, si può ritenere praticamente coincidente con quella del serbatoio di scambio: l'atmosfera, per alberi e animali, lo strato superficiale dell'oceano (fino a 75 m ca. di profondità) per gran parte di pesci e molluschi. Questa situazione di equilibrio dinamico tra sistema e serbatoio si interrompe al momento della morte dell'organismo: il sistema vivente diventa isolato e la sua quantità globale di ¹⁴C diminuisce per decadimento radioattivo. Il momento della morte è il tempo zero dell'orologio che scandisce il tempo trascorso: a ciascun valore di esso corrisponde un ben determinato valore della concentrazione di ¹⁴C, secondo una legge temporale caratterizzata da una vita media τ pari a 8267 anni. In laboratorio si misura la concentrazione residua, un valore della scala che va da C₀ fino a zero. La curva di decadimento consente di associare univocamente al valore misurato, Cm, il tempo trascorso dalla morte dell'organismo. Tale curva potrebbe costituire la "curva universale di datazione" nell'ipotesi di costanza della concentrazione C₀ del serbatoio di scambio e della conoscenza di tale valore. L'ipotesi di costanza di C₀ è legata, come si è visto, alla costanza a lungo termine della velocità di produzione. Ne segue che, se si può ragionevolmente assumere che il flusso dei raggi cosmici primari che investe la Terra si sia mantenuto costante per gli ultimi 110.000 anni, la costanza di C₀ è assicurata e, in tal modo, vi è la possibilità di datare reperti costituiti da resti di organismi vissuti nell'intervallo temporale compreso tra oggi e circa 50.000 anni fa. Questo limite, che viene considerato comunemente invalicabile dagli specialisti, non deve essere inteso come un limite "naturale", ma esclusivamente strumentale, legato cioè alle caratteristiche delle attuali apparecchiature di misura. Non si può escludere che il perfezionamento delle tecniche sperimentali possa aumentare tale limite "strumentale".
La validità delle assunzioni fatte avrebbe come conseguenza immediata che la concentrazione C₀ di ¹⁴C di un serbatoio di scambio potrebbe essere valutata in un qualunque momento, al tempo presente o in un qualunque istante del passato, sia direttamente sia indirettamente. Ad esempio, volendo determinare la concentrazione di ¹⁴C nell'atmosfera, si potrebbe prelevare una certa quantità di anidride carbonica (misurazione diretta), oppure utilizzare le foglie fresche di un albero o l'alburno di una pianta o un pezzo di tessuto di un animale appena morto. La prima via fu seguita a partire dagli anni Cinquanta, al fine di verificare l'influenza sulla concentrazione di ¹⁴C atmosferico delle forti perturbazioni prodotte dalle esplosioni di bombe termonucleari. Ci si aspettava, e fu facilmente verificata, una forte crescita della concentrazione causata dal brusco aumento della velocità di produzione dovuta all'immissione nell'atmosfera di notevoli quantità di neutroni termici. Il valore di C₀ è stato fortemente alterato, anche se gli effetti in atmosfera, a partire dal 1964, anno in cui iniziò l'era degli esperimenti sotterranei, si sono rapidamente attenuati a causa dei processi di diffusione nell'oceano; tuttavia gli effetti delle perturbazioni sono tuttora notevoli. Misurazioni indirette sono state eseguite, ovviamente, per studiare il valore di C₀ in anni precedenti il 1954, ossia anteriori all'intensificarsi degli esperimenti termonucleari. In questo caso è stato evidenziato un altro effetto: cerchie di alberi, formatesi in anni storicamente e dendrocronologicamente noti, mostravano un contenuto di ¹⁴C più basso di quello aspettato, nella misura del 2÷3%. Fu merito di H. Suess la spiegazione di tale apparente anomalia: si trattava ancora di una perturbazione antropogenica, consistente nell'immissione in atmosfera di una notevole quantità di CO₂ non contenente ¹⁴C, in quanto derivante dalla combustione, per il funzionamento delle fabbriche, di carbone, lignite, antracite di antichissima formazione, in cui il ¹⁴C, presente all'origine, era del tutto decaduto. Tale processo si è instaurato con l'avvento della rivoluzione industriale e tuttora continua, avendo come sorgente diluente del ¹⁴C atmosferico la CO₂ ottenuta per combustione dei derivati del petrolio a scopo di riscaldamento e per il funzionamento dei veicoli a motore a combustione interna. Questi due effetti sono ampiamente utilizzati dal punto di vista scientifico. Il secondo, l'"effetto Suess", ha ispirato e continua ad ispirare ricerche aventi il fine di determinare l'entità dell'inquinamento prodotto nell'ambiente attraverso lo studio della diminuzione di concentrazione di ¹⁴C negli alberi. Il primo, invece, ha un maggiore campo di applicazioni: una molto importante, anche se poco nota, ricade nell'ambito dei beni culturali. Infatti l'eccesso di concentrazione di ¹⁴C esistente in atmosfera dopo il 1954 consente di discriminare tra resti di organismi vissuti prima e dopo tale anno. Pertanto possono essere identificati falsi di quadri per i quali è stata usata tela o cornice "recente", così come falsi di stampe eseguite su carta fabbricata anch'essa in anni recenti. In questo caso la datazione può essere molto precisa, anche se la curva alla quale ci si riferisce presenta ambiguità in relazione alla precisa determinazione dell'anno di abbattimento dell'albero da cui è tratto il supporto materiale dell'opera d'arte.
Se si escludono alcune perturbazioni antropogeniche, dovute alle attività umane che hanno in misura rilevante influenzato i serbatoi naturali, l'affidabilità nel metodo deriva, come si è detto, dalla costanza della velocità di produzione sulla quale, sin dai primi anni Cinquanta, venivano giustamente avanzati dubbi piuttosto fondati, dal momento che possibili cause di variazione venivano identificate nella non costanza del campo magnetico terrestre e nel vento solare. Entrambe queste cause, infatti, producono variazioni del flusso dei raggi cosmici primari che investono la Terra e da ciò deriva una variazione della velocità di produzione. Si trattava soltanto di quantificare la variazione di C₀ mediante misurazioni dirette, avendo già chiara in mente l'entità delle influenze sull'età ¹⁴C del resto di organismo. Un semplice calcolo, infatti, consente di trarre la seguente conclusione: se la concentrazione di ¹⁴C nel serbatoio di scambio è stata, in un certo periodo, del 10% maggiore o minore di quella a cui si faceva comunemente riferimento (all'incirca quella dell'atmosfera del 1950), un sistema vivente che ha cessato di scambiare con il serbatoio in tale periodo avrà un'età che è rispettivamente maggiore o minore di circa 800 anni rispetto a quella stimabile in base al valore del 1950. Se ne deduce che soltanto se le variazioni di produzione, nel passato, avessero prodotto variazioni di concentrazione di qualche unità per mille si sarebbe ottenuto un effetto trascurabile sull'età. Il problema è stato affrontato con notevole impegno sin dai primi anni Sessanta: si è indagato sull'effettiva concentrazione di ¹⁴C nell'atmosfera mediante gli archivi naturali di ¹⁴C costituiti dalle cerchie degli alberi. Ognuna di esse, infatti, è testimone di quella che è stata la concentrazione di ¹⁴C in atmosfera nell'anno in cui si è formata. L'informazione contenuta nella cerchia, associata all'identificazione dell'anno del calendario in cui essa si è formata, consente di ricostruire la "storia di C₀". Fondamentale in questa ricostruzione è stato l'apporto della dendrocronologia, che, operando su sezioni di alberi secolari e vissuti in periodi temporali parzialmente sovrapposti, ha identificato l'età di una successione continua di cerchie che si estende fino a circa 12.000 anni dal presente. Come si evince dalla Fig. 376, la corrispondenza tra età ¹⁴C ed età calibrata non è biunivoca, ma presenta un andamento complesso che può essere riguardato come la sovrapposizione di una variazione lenta e di numerose oscillazioni a corto periodo, le cosiddette wiggles. La variazione lenta è attribuibile alla variazione del campo geomagnetico, mentre le variazioni a corto periodo si ritiene siano legate alle variazioni dell'attività solare.
Il passo successivo è concettualmente semplice, ma devono essere ben chiare le premesse per pervenire ad una corretta interpretazione del risultato di una datazione. Si tratta infatti di costruire una "curva di calibrazione" che consenta di trasformare il prodotto delle misurazioni di laboratorio in età assoluta. A tale scopo si definisce un'età convenzionale ¹⁴C, cioè l'età che si ottiene attraverso la misura della concentrazione residua di ¹⁴C per confronto con un valore C₀ "convenzionale". Tale valore, equivalente a un rapporto ¹⁴C /¹²C pari a 1,18×10‒¹², venne stabilito come il 95% della concentrazione di un campione artificiale, chiamato modern standard I (msI), prodotto dal National Bureau of Standards (NBS); con esso si fissa convenzionalmente il tempo zero della scala delle età ¹⁴C al 1950. Per quanto riguarda la vita media, si assume il valore τ = 8033 anni, corrispondente al tempo di dimezzamento cosiddetto "di Libby" di 5568 anni. Questo valore, come ormai noto, è diverso dal valore più accreditato di 5730 anni; tuttavia si continua a far riferimento ad esso per ragioni storiche, anche perché la sua scelta è ininfluente quando si determina l'età vera per calibrazione. I due valori di C₀ e τ fissano una curva di decadimento esponenziale dalla quale, per ogni valore effettivamente misurato della concentrazione Cm di un reperto, si ricava un ben determinato valore dell'età convenzionale o età ¹⁴C del reperto stesso. Questa operazione è stata fatta per le cerchie degli alberi identificate dai dendrocronologi, stabilendo così una corrispondenza tra l'età convenzionale delle cerchie e l'età vera o dendrocronologica. Tale corrispondenza, rappresentata da una curva continua costruita con rigorosi procedimenti statistici, costituisce una curva di calibrazione. Nel 1986 fu presentata una precisa curva di calibrazione (Stuiver - Reimer 1986) bidecadale, cioè costruita misurando la concentrazione residua di cerchie di alberi a intervalli di 20 anni. Una più recente, in cui erano contenute importanti novità, fu presentata nel 1993: misurazioni congiunte di concentrazione di ¹⁴C e degli isotopi della serie dell'uranio (metodo dell'uranio-torio, Bard et al. 1993), su coralli rinvenuti in carote prelevate da sedimenti marini del Pacifico (Barbados), consentivano di estendere la curva di calibrazione fino a circa 22.000 anni dal presente. In tal caso la comunità scientifica internazionale, dopo approfondite analisi, riteneva corretto assumere come età assoluta dei coralli fossili le età ottenute con il metodo dell'uranio-torio. L'affidabilità della cronologia dei coralli è ritenuta elevata, per cui le età convenzionali comprese tra zero e 18.400 anni dal presente possono essere trasformate in età calibrate mediante opportuni programmi di calibrazione che operano sui dati sperimentali. Tra questi programmi, quelli più comunemente usati sono: Calib 3.0, proposto dall'Università di Seattle (Stuiver - Reimer 1993), Oxcal, proposto dall'Università di Oxford, e quello proposto dall'Università di Groningen. I tre programmi sono assolutamente equivalenti e le differenze tra essi del tutto trascurabili. Secondo le decisioni dell'ultima Conferenza Internazionale del Radiocarbonio svoltasi a Groningen nel 1997, verrà proposta una nuova e più aggiornata curva di calibrazione. L'esigenza di questo ulteriore aggiornamento deriva sia dalle polemiche che hanno fatto seguito alla pubblicazione del 1993, incentrate soprattutto sull'apparente discontinuità che sembra evidenziarsi fra la cronologia delle piante e quella dei coralli, sia da risultati ottenuti successivamente. In particolare, da quelli derivanti da misurazioni di ¹⁴C eseguite su materiale organico rinvenuto in sedimenti varvati di Scandinavia, Svizzera e Polonia, che consentono la calibrazione fino a circa 11.000 anni a.C. Infine, al III Congresso Internazionale ¹⁴C e Archeologia, tenutosi a Lione nel 1998, sono stati presentati i risultati di 250 misurazioni di ¹⁴C eseguite su macrofossili rinvenuti in una carota di 75 m ottenuta da una perforazione nel lago Seigetsu (Giappone). In corrispondenza sono state determinate le età assolute con il conteggio delle varve. Tali risultati sono di rilevante importanza perché consentono, per la prima volta, di disporre di una cronologia che ricopre l'intero intervallo temporale in cui il metodo del ¹⁴C agisce. Da essi, inoltre, emergono rilevanti differenze tra età convenzionali ed età calibrate, che possono soltanto parzialmente essere giustificate dalle variazioni del campo geomagnetico nel periodo compreso tra 20.000 e 40.000 anni dal presente. Tuttavia la comunità scientifica non ha ancora elaborato questi risultati, i quali, qualora ne fosse confermata la validità, consentirebbero di inquadrare a pieno titolo il metodo del ¹⁴C nel novero dei metodi assoluti di datazione.
Come si è detto precedentemente, la determinazione delle età convenzionali ¹⁴C è basata su misure di concentrazione del radiocarbonio, cioè sulla determinazione del rapporto ¹⁴C /¹²C. La via più diretta per eseguire tali misurazioni sembra essere la spettrometria di massa, ma soltanto in tempi relativamente recenti (gli inizi risalgono al 1980) tale tecnica è stata applicata con successo. Ciò è stato possibile mediante la conversione di grandi macchine acceleratrici (acceleratori lineari Tandem), usate per studi fondamentali di fisica dei nuclei, in spettrometri di massa ad alta energia. Questa tecnica di analisi isotopica, indicata con la sigla AMS (Accelerator Mass Spectrometry), ha superato i limiti della spettrometria di massa convenzionale, mediante la quale era impensabile analizzare il ¹⁴C distinguendolo da altri isotopi di uguale massa. La tecnica AMS è attualmente molto sviluppata in Europa e negli Stati Uniti e ha raggiunto livelli di affidabilità estremamente elevati. Prescindendo dall'alto costo di manutenzione, essa ha il notevole vantaggio di essere praticamente non distruttiva, dal momento che attualmente si riesce ad eseguire una datazione con circa un mg di carbonio. Le altre tecniche usate, che hanno avuto il merito di essere pionieristiche nella datazione con il ¹⁴C, sono quelle comunemente chiamate radiometriche. Esse sono basate sulla misura dell'attività del ¹⁴C, cioè sull'intensità del flusso di particelle β- emesse dai nuclei di ¹⁴C presenti nella sostanza. Tale grandezza, riferita all'unità di massa del carbonio totale, prende il nome di attività specifica, a(t), ed è proporzionale alla concentrazione del carbonio ¹⁴C, secondo una relazione dalla quale si deduce una legge di variazione temporale identica a quella riportata in Fig. 519, con l'ovvia sostituzione di C(τ) e C₀ con a(t) e a₀. Le tecniche radiometriche specifiche sono basate sull'impiego di contatori proporzionali a gas e di contatori a scintillatore liquido. Nel primo caso il reperto viene trasformato in anidride carbonica o metano, nel secondo caso in benzene. La precisione delle misure ottenute con le tecniche radiometriche è del tutto paragonabile a quella ottenuta con le tecniche spettrometriche. A svantaggio delle tecniche radiometriche deve essere ascritta una quantità di campione utilizzata molto maggiore di quella richiesta per l'AMS: le quantità di carbonio necessarie sono di qualche g, pertanto mille volte maggiori che nel caso dell'altra tecnica. A vantaggio delle tecniche radiometriche va ascritta una maggiore maneggevolezza del campione e un minor rischio di contaminazione nella preparazione.
¹⁴C Proprio nell'ambito del III Congresso Internazionale ¹⁴C e Archeologia, a cui si è sopra accennato, sono stati riportati i risultati di un gruppo di lavoro incaricato di fare il punto sulla situazione della datazione con il radiocarbonio, dopo un attento riesame critico della complessa problematica connessa con i principi e la pratica del metodo. Illustrare con dovizia di particolari i diversi punti del lavoro richiederebbe uno spazio molto maggiore di quello consentito, tuttavia alcuni punti essenziali è opportuno che siano messi in evidenza. Scopo del gruppo di lavoro è stato quello di fornire agli utenti del metodo, e tra questi prevalentemente agli archeologi, un insieme di suggerimenti che consentano di stabilire un corretto collegamento tra il risultato di una datazione e l'evento storico o archeologico al quale la data deve essere attribuita. È stato perciò ridefinito il concetto di evento nel contesto della scala temporale del ¹⁴C e sono state illustrate le connessioni tra l'evento ¹⁴C e quello archeologico o umano che interessa. Un'approfondita analisi è stata condotta in relazione ai diversi materiali usati per la datazione, individuando per ciascuno di essi le modalità di scambio con il serbatoio principale di ¹⁴C e il significato per la datazione di ciascuno, nel contesto del problema della contaminazione e della conservazione del reperto. Notevole spazio è stato dedicato all'impiego dei programmi di calibrazione e all'interpretazione dei risultati. Infine, si sono sottolineate le caratteristiche che deve avere un buon laboratorio di datazione, caratteristiche che devono essere formalizzate in una sorta di "certificato di qualità". Sono stati forniti inoltre strumenti affinché l'utente possa intervenire nei singoli passi del processo di datazione con cognizione di causa e non come un semplice utilizzatore, spesso a proprio piacimento, del "numero" che il laboratorio fornisce.
S.A. Korff - W.E. Danforth, Neutron Measurements with Boron- Trifluoride Counters, in PhysicalR, 55 (1939), p. 980; E.C. Anderson et al., Radiocarbon from Cosmic Radiation, in Science, 105 (1947), pp. 105, 576; J.R. Arnold - W.F. Libby, Age Determination by Radiocarbon Content: Checks with Samples of Known Age, ibid., 110 (1949), pp. 678-80; S. Improta, Current Limits of ¹⁴C Dating as Absolute Method, in New Paths in the Use of Nuclear Techniques for Art and Archaeology, Singapore 1986, pp. 137-49; M. Stuiver - P.J. Reimer, A Computer Program for Radiocarbon Age Calibration, in Radiocarbon, 28, 2B (1986), pp. 1022-30; E. Bard et al., ²³⁰Th- ²³⁴U and ¹⁴C Ages Obtained by Mass Spectrometry on Corals, in Radiocarbon, 35, 1 (1993), pp. 191-98; G.W. Pearson - B. Becker - F. Qua, High Precision ¹⁴C Measurements of German and Irish Oaks to Show the Natural ¹⁴C Variation from 7890 to 5000 BC, ibid., pp. 93-104; M. Stuiver- P.J. Reimer, Extended ¹⁴C Data Base and Revised Calib 3.0 Age Calibration Program, ibid., pp. 215- 30; I. Levin - B. Kromer, Twenty Years of Atmospheric ¹⁴CO₂ Observations at Schauinsland Station, Germany, ibid., 39, 2 (1997), pp. 205-18.
di Mario Fornaseri
Il potassio naturale è costituito da tre isotopi, aventi rispettivamente numero di massa 39, 40, 41, dei quali il più abbondante è il potassio-39 (93,2% in atomi), mentre il potassio-40, che è anche l'unico isotopo radioattivo naturale di questo elemento, è il meno abbondante (0,01% in atomi). Il duplice decadimento radioattivo del potassio-40 si svolge secondo lo schema già ricordato e lascia prevedere, in teoria, due possibilità di misurare il tempo trascorso a partire da un evento iniziale: la prima basata sulla trasformazione del potassio-40 in argon-40; la seconda sulla trasformazione del potassio-40 in calcio-40. Ciascuna di queste possibilità può costituire un indipendente metodo di datazione. Dei due metodi il primo (metodo del potassio-argon) è stato fino a oggi privilegiato e ha raggiunto il massimo sviluppo, mentre il secondo (metodo del potassio-calcio) è tuttora in fase di sperimentazione ed è realizzabile soltanto in laboratori particolarmente attrezzati. Il metodo potassio-argon ebbe inizio e si sviluppò a partire dal 1948: la sua grande fortuna è legata alla possibilità di misurare con grande esattezza piccolissime quantità di argon, che è un elemento gassoso, per mezzo delle moderne tecniche massa-spettrometriche. Il processo di decadimento descritto è molto lento: il tempo di dimezzamento del potassio-40 è di circa 1,2 miliardi di anni; ciò sta ad indicare che anche l'accumulo di argon-40 nei minerali (o materiali) contenenti potassio è molto lento. Nonostante ciò, le moderne tecniche analitiche consentono di impiegare il metodo in un vasto campo di età, che si può estendere verso i tempi recenti fino a poche migliaia di anni. Sono suscettibili di datazione con il metodo potassio-argon tutti i materiali (minerali, rocce) contenenti potassio anche in piccole percentuali. L'espressione che consente la misura dell'età t (in anni) con questo metodo è la seguente (Dalrymple - Lanphere 1969):
formula
ove λK e λβ rappresentano le costanti di decadimento rispettivamente per i processi di cattura K e per il decadimento β‒; ln indica il logaritmo naturale; ⁴⁰Arrad e ⁴⁰K i contenuti atomici di argon radiogenico e di potassio-40 del campione in esame. Se si introducono al posto dei simboli delle costanti i loro valori numerici, se si esprime il contenuto in argon radiogenico in unità di volume (ml ⁄g) e il contenuto di potassio-40 in funzione della percentuale di potassio totale e si trasformano i ln in log₁₀, l'espressione sopra riportata si trasforma nella seguente di più immediato impiego ai fini cronometrici:
formula.
L'espressione pone in evidenza la possibilità di valutare l'età t (espressa in milioni di anni) in base al volume di argon-40 (radiogenico) e alla percentuale di potassio misurabile in g grammi nel campione. La valutazione dell'età con questo metodo richiede pertanto la misura del contenuto di potassio totale (ottenibile con i normali metodi dell'analisi chimica classica o strumentale) e la misura del contenuto di argon- 40 radiogenico nel materiale da datare. Quest'ultima è ottenibile, nel migliore dei modi, mediante la spettrometria di massa, facendo uso della tecnica di diluizione isotopica, che implica l'uso di un tracciante isotopico (argon-38), ma anche, in laboratori particolarmente attrezzati, omettendo l'uso di quest'ultimo (Gillot - Cornette 1986). A semplice titolo di esempio, applicando l'espressione, un grammo di minerale contenente il 5% di potassio, nel quale siano stati misurati 2 × 10‒⁷ millilitri di argon-40 radiogenico, rivelerà un'età di circa un milione di anni. Negli anni recenti si è sviluppato, come variante alla tecnica tradizionale, il metodo argon-39/argon-40, oggi largamente in uso, esaurientemente illustrato da H. Maluski (1985), alla cui trattazione il lettore potrà fare riferimento per maggiori particolari. Il metodo di datazione potassio-argon, nelle sue diverse varianti, consente la misura di età molto antiche, ma anche di età recenti: misure attendibili sono state ottenute da campioni di rocce vulcaniche di poche migliaia di anni con errori accettabili e sono pertanto utilizzabili ai fini archeologici. Ovviamente il metodo non consente la datazione diretta di resti fossili, ma è di estremo interesse nel datare le formazioni geoarcheologiche che li contengono. Esempi classici di risultati ottenuti con questo metodo sono le datazioni di giacimenti fossiliferi di australopitecine e con resti di Homo habilis dall'Africa orientale (gola di Olduvai in Tanzania, bacini del Lago Turkana e di Lukeino in Kenya, formazione di Hadar in Etiopia, ecc.), dei quali un'esauriente rassegna è riportata in R.G. Klein (1989). In Italia sono da ricordare i risultati ottenuti sui giacimenti di Fontana Ranuccio presso Anagni (Segre - Ascenzi 1984) e di Isernia La Pineta (Coltorti et al. 1982). L'attendibilità delle datazioni, a parte l'errore di misura che è abitualmente denunciato accanto al risultato numerico, è ovviamente condizionata dalla contemporaneità dei fossili o delle formazioni che li racchiudono, dalla perfetta conoscenza della stratigrafia e dall'eventuale presenza di argon radiogenico ereditato nei minerali da datare.
G.B. Dalrymple - M.A. Lanphere, Potassium-Argon Dating, San Francisco 1969; M. Coltorti et al., Reversed Magnetic Polarity at an Early Lower Paleolithic Site on Central Italy, in Nature, 300 (1982), pp. 173-76; A. Segre - A. Ascenzi, Fontana Ranuccio. Italy's Middle Pleistocene Hominid Site, in CurrAnthr, 25 (1984), pp. 230-33; H. Maluski, Méthode Argon- 39-Argon-40 principe et application aux numeraux des roches terrestres, in E. Roth - B. Poty, Méthodes de datation par les phénomènes nucléaires naturels, Paris 1985, pp. 341-72; P.Y. Gillot - Y. Cornette, The Cassignol Technique for Potassium-Argon Dating, Precision and Accuracy: Example from the Late Pleistocene to Recent Volcanoes from Southern Italy, in Chemical Geology, 59 (1986), pp. 205-22; R.G. Klein, The Human Career. Human Biological and Cultural Origin, Chicago 1989.
di Mario Voltaggio
Le tre serie naturali di decadimento radioattivo dell'uranio e del torio, la serie dell'uranio-238, dell'uranio-235 e del torio- 232, sono costituite da catene di decadimenti (tra cui prevalgono i decadimenti di tipo α e β‒), le quali, a partire dal capostipite che dà il nome alla serie, terminano con la formazione di un isotopo stabile del piombo. I vari radionuclidi instabili che si formano all'interno di ciascuna serie sono caratterizzati, tranne qualche eccezione, da tempi di dimezzamento decrescenti. Gli isotopi generati appartengono a diversi elementi chimici, quali uranio, torio, protoattinio, attinio, radio, radon, piombo e polonio: ciò rende possibile che l'applicazione dei metodi delle serie di decadimento radioattivo si estenda a molte situazioni naturali. In particolare, le due serie di decadimento radioattivo dell'uranio-238 e dell'uranio-235 consentono di determinare l'età di formazione di un notevole numero di composti chimici che si rinvengono in diversi ambienti naturali di interesse archeologico. Per comprendere come tali radionuclidi vengano utilizzati a scopi cronologici si deve considerare un'importante proprietà che li caratterizza, costituita dalla tendenza al raggiungimento dell'equilibrio della loro radioattività. La radioattività, o più semplicemente l'attività di un radioisotopo in un determinato composto, è il numero di decadimenti nell'unità di tempo. Un composto è databile con i metodi della serie dell'uranio se, al momento della sua formazione, vi è una quantità misurabile di un elemento delle due serie, nonché una quantità trascurabile del radionuclide che da esso è stato generato (stato di disequilibrio radioattivo). Dopo la formazione del composto, l'attività del radionuclide "genitore" decrescerà, mentre quella del radionuclide "figlio" crescerà progressivamente tendendo all'uguaglianza (stato di equilibrio radioattivo). L'equilibrio di attività tra i due radionuclidi viene raggiunto in un periodo di tempo che è funzione delle rispettive costanti di decadimento. Le coppie di radionuclidi che possono essere utilizzate a fini cronologici ed i rispettivi domini temporali di applicabilità sono indicati nella Tabella. I rapporti di attività di tali coppie possono essere determinati sia attraverso tecniche distruttive, quali la spettrometria alfa e la spettrometria di massa a ionizzazione termica, sia attraverso tecniche non distruttive, quali la spettrometria gamma ad alta risoluzione. I composti di carbonato di calcio, sia marini (coralli e gusci di molluschi) che continentali (speleotemi, travertini, fanghi calcarei lacustri), i fosfati marini (fosforiti) e biogenici (ossa, denti), nonché i depositi torbosi sono i materiali che, per il loro contenuto di uranio e per le quantità trascurabili di torio-230 e di protoattinio-231 iniziali, meglio si prestano all'utilizzo dei metodi di datazione che impiegano le coppie uranio-234/uranio- 238, torio-230/uranio-234, protoattinio-231/uranio-235 (Schwarcz - Latham 1992). Microfasi minerali arricchite in torio-230 e con quantità trascurabili di radio-226 iniziale, presenti in rocce vulcaniche recenti, possono essere lisciviate con metodi chimici e successivamente datate con il metodo del radio-226/torio-230, mentre composti solfatici e carbonatici, arricchiti in radio, possono essere datati con la coppia piombo-210/radio-226. Oltre all'utilizzo di coppie di disequilibrio, i radionuclidi della serie dell'uranio forniscono altri metodi di investigazione cronologica, che vanno sotto il nome di "metodi dell'eccesso". In questo caso si utilizza l'eccesso misurabile del valore del rapporto tra i radionuclidi rispetto al valore che essi assumeranno all'equilibrio. Con i metodi dell'eccesso si possono determinare i tassi di sedimentazione di bacini marini e lacustri e quindi datarne i vari livelli.
All'interno di grotte carsiche un tempo frequentate da esseri umani, o all'interno di inghiottitoi carsici che nel passato hanno drenato materiali superficiali, i depositi chimici di carbonato di calcio denominati "speleotemi" possono sottostare e ricoprire manufatti umani o resti scheletrici. Un sito accuratamente studiato col metodo del torio-230/uranio-234 è quello della Grotta La Chaise-de-Vouthon, nella regione francese della Charente. Qui sono stati datati due pavimenti stalagmitici (Blackwell - Schwarcz - Debénath 1983), tra i quali è interstratificato uno spesso livello di sedimenti detritici contenenti resti ossei di Homo sapiens neanderthalensis. Le età dei livelli stalagmitici indicano che tali sedimenti si sono depositati tra 245.000 e 112.000 anni fa. Tale intervallo temporale di deposizione è stato confermato dall'età di un livello cementato a carbonato di calcio, che si rinviene all'interno del deposito grossolano di detriti, risultata pari a 150.000 anni.
Mentre il carbonato di calcio degli speleotemi è solitamente molto puro, i depositi carbonatici che si formano presso acque sorgive sono spesso contaminati da materiale finemente detritico. Durante l'analisi di tale materiale una quantità non trascurabile di radionuclidi si può sciogliere e risultare indistinguibile dalla componente propria del carbonato. Speciali metodi di correzione consentono tuttavia di discriminare le due diverse componenti. Dal punto di vista archeologico i depositi travertinosi sono particolarmente interessanti, perché nelle regioni aride l'attività umana era incentrata attorno alle sorgenti. Questi erano anche luoghi adatti per cacciare gli animali che venivano ad abbeverarsi. In Italia, nella placca di travertino presso Rocchetta a Volturno (Isernia), è stato rinvenuto un livello ricco di selci lavorate attribuibile al Paleolitico superiore. Tale livello si rinviene all'interno di una cavità naturale utilizzata per la caccia presso antiche cascate, oggi testimoniate da imponenti accumuli di travertino. Poiché il livello a selci risulta interstratificato tra due orizzonti travertinosi, le età di tali orizzonti, ottenute con il metodo del torio-230/uranio- 234, indicano che la regione è stata frequentata tra 18.000 e 24.000 anni fa (Brancaccio et al. 1988).
In molte regioni caratterizzate da condizioni di clima particolarmente arido si possono formare piccoli bacini chiusi ipersalini, dai quali può precipitare abbondante materiale carbonatico sotto forma di calcite, aragonite e dolomite. Gli studi su tali formazioni lacustri fossili consentono di datare importanti fasi di oscillazione climatica e di cicli pluviali e interpluviali. Questi ultimi, a loro volta, costituirono un fattore determinante nella colonizzazione antica di tali aree geografiche: spesso infatti materiali archeologici sono associati a tali depositi, come in Africa meridionale e nella regione sahariana. In quest'ultima regione sono stati datati con il metodo del torio-230/uranio- 234 siti archeologici del Paleolitico inferiore e medio associati a tali bacini (Schwarcz - Blackwell 1992). Come nel caso dei travertini, anche i fanghi calcarei lacustri necessitano frequentemente di metodi di correzione, per la contaminazione da parte di torio-230 proveniente da materiale non carbonatico.
Questi materiali sono in assoluto i più affidabili per la datazione con i metodi del torio-230/uranio-234 e protoattinio-231/uranio- 235, ma raramente sono associati direttamente a contesti archeologici. Tuttavia la loro datazione ha permesso di rifinire la cronologia glaciale del Pleistocene, che è spesso utilizzata per correlare tra loro diversi siti archeologici molto antichi.
Ossa fossili e denti contengono notevoli quantità di uranio assorbito sulla superficie di composti fosfatici. Numerosi studi hanno accertato che l'uranio non viene assorbito dai fosfati mentre l'organismo è in vita, ma in un periodo di tempo successivo a quello della deposizione e del seppellimento. È quindi possibile datare con precisione tali materiali, se si conosce con certezza la cinetica dell'assorbimento stesso. Infatti l'uranio può essere assorbito ad un tasso lineare o decrescente nel tempo, secondo un andamento variabile da sito a sito. Pertanto le tecniche di disequilibrio radioattivo vengono in questo caso generalmente accoppiate ad altri metodi (soprattutto ¹⁴C ed ESR, Electron Spin Resonance). Utilizzando una tale strategia, T. Chen e S. Yuan (1988) hanno datato numerosi siti paleolitici in Cina, trovando un buon accordo tra le età ottenute con i metodi della serie dell'uranio e del ¹⁴C, soprattutto per quanto riguarda campioni di denti.
Tra le diverse coppie di disequilibrio utilizzabili, la più interessante per quanto riguarda le applicazioni archeologiche relative agli ultimi 3000 anni è certamente quella del radio-226/ torio-230. Infatti, il tempo di dimezzamento del radio (1600 anni ca.) consente, almeno teoricamente, di raggiungere un livello di precisione superiore a quello del carbonio-14 (tempo di dimezzamento: 5730 anni). I materiali più promettenti sono costituiti da rocce vulcaniche contenenti notevoli quantità di torio in fasi accessorie microcristalline. Con tale metodo è stato datato il plateau di leucite tefritica che secondo Strabone formò il cono di Vulcanello a Vulcano (Isole Eolie); la data indicata da Strabone (183 a.C.) risulta molto vicina a quella misurata (90 d.C.), considerando l'errore associato alla datazione pari a circa 200 anni (Voltaggio et al. 1995).
B. Blackwell - H.P. Schwarcz - A. Debénath, Absolute Dating of Hominids and Paleolithic Artefacts from the Cave of La Chaise-de-Vouthon (Charente), France, in JASc, 10 (1983), pp. 493-513; L. Brancaccio et al., I travertini di Rocchetta a Volturno (Molise). Datazioni con Th-230 e modello deposizionale, in Atti del 74° Congresso della Società Geologica Italiana (Sorrento, 13-17 settembre 1988), Benevento 1988, I, pp. 63-73; T. Chen - S. Yuan, Uranium Series Dating of Bones and Teeth from Chinese Paleolithic Sites, in Archaeometry, 30 (1988), pp. 59-76; H.P. Schwarcz - B. Blackwell, Archaeological Applications in Uranium-series Disequilibrium: Applications to Earth, Marine and Environmental Sciences, Oxford 1992, pp. 513-53; H.P. Schwarcz - A.G. Latham, Carbonate and Sulphate Precipitates in Uranium-series Disequilibrium: Applications to Earth, Marine, and Environmental Sciences, Oxford 1992, pp. 423-59; M. Voltaggio et al., Leaching Procedure used in Dating Young Potassic Volcanic Rocks by the Ra-226/Th 230 Method, in EarthPlanetSc, 136 (1995), pp. 123-31.
di Giulio Bigazzi
La fissione nucleare, che costituisce un particolare tipo di decadimento, consiste nella rottura, spontanea o provocata, di un atomo pesante in due o più frammenti più leggeri. Il fenomeno interessa particolarmente i due isotopi dell'uranio, uranio-235 e uranio-238. L'evento della fissione viene registrato nel solido nel quale si verifica, in quanto i frammenti, risultato della disintegrazione del nucleo, lasciano lungo il loro percorso una regione danneggiata, detta "traccia latente", di circa 10÷20 μm di lunghezza, visibile al microscopio elettronico. Con opportuni reagenti chimici le tracce possono essere rivelate e rese visibili ad un comune microscopio ottico. Le tracce dovute alla fissione artificiale dell'isotopo uranio- 235, dette "tracce indotte", furono scoperte alla fine degli anni Cinquanta in solidi irraggiati con neutroni in un reattore nucleare. Ma la scoperta risalente alla prima metà degli anni Sessanta che i solidi isolanti contenevano registrate tracce naturali, dette "tracce fossili", dovute ad eventi di fissione spontanea dell'isotopo uranio-238, fece nascere un nuovo metodo per la datazione delle rocce: il metodo delle tracce di fissione (FT). Infatti, se un minerale possiede un certo contenuto di uranio, il numero di atomi che nell'unità di tempo subisce la fissione è proporzionale alla quantità stessa attraverso una costante, detta "costante di decadimento per fissione". Il numero di tracce accumulate nei tempi geologici è quindi in relazione con l'età del minerale. Fin dall'inizio, il metodo delle tracce di fissione è stato applicato in campo archeometrico, anche se non è un mezzo di datazione particolarmente adatto per reperti archeologici. La costante di decadimento, che rappresenta la probabilità dell'evento fissione nell'unità di tempo, è molto piccola e non consente l'accumulo di un adeguato numero di tracce in tempi brevi. Esistono tuttavia in letteratura numerosi esempi nei quali è stata possibile la datazione, detta "datazione diretta", di manufatti preistorici e storici. Nell'Ottocento una particolare colorazione verde-giallastra fluorescente del vetro veniva ottenuta drogandolo con sali di uranio: in questo caso il numero di fissioni che si produceva nell'unità di tempo era molto elevato ed è stato possibile datare cristalli di Boemia prodotti soltanto 150 anni fa. La datazione del vetro artificiale è teoricamente sempre possibile, ma è stata soltanto raramente eseguita. Il modesto numero di tracce che è possibile osservare, anche analizzando grandi superfici, produce una datazione accompagnata da un elevato errore sperimentale, che risulta quindi di scarso interesse pratico. Anche oggetti in ceramica sono stati datati con successo. Le tracce registrate dai cristalli di zircone contenuti nell'argilla vengono completamente cancellate durante la cottura; quindi, le tracce che si possono contare oggi misurano l'età di fabbricazione dell'oggetto. In modo analogo, cristalli di zircone, apatite o sfene contenuti nel suolo di un focolare preistorico, o manufatti di ossidiana accidentalmente riscaldati a temperature elevate durante il loro uso, rivelano età corrispondenti ad attività umane. Un esempio di particolare importanza è la datazione di cristalli di sfene separati da livelli di cenere (resti di fuochi preistorici) posti in prossimità della base e pochi metri al di sotto del tetto dei sedimenti che hanno restituito abbondanti resti umani e manufatti nella Grotta di Zhoukoudian, il famoso sito dell'uomo di Pechino (Sinanthropus pekinensis). Le date ottenute, circa 460.000 anni fa e circa 300.000 anni fa, precisano la durata dell'occupazione del sito, superiore a 160.000 anni. Nel campo delle "datazioni indirette" (datazione di livelli vulcanici correlabili con l'attività umana) le tracce di fissione hanno prodotto risultati di grande interesse. La datazione degli zirconi separati dal livello tufaceo KBS (1,87±0,04 milioni di anni), intercalato alla famosa Formazione di Koobi Fora (Lago Turkana, Kenya), con numerosi resti di ominidi e manufatti (Homo nei livelli sottostanti la tufite, Australopithecus boisei e Homo erectus nel member superiore della formazione), ha concluso l'annosa controversia internazionale sull'età della tufite, derivante da età contrastanti ottenute in diversi laboratori con altri metodi di datazione. Un altro esempio ci viene dal Lazio, dove la datazione di una serie di tufi è risultata un contributo prezioso alla ricostruzione dell'evoluzione paleoclimatica e paleogeografica della penisola italiana negli ultimi 500.000 anni circa. In ogni modo, la datazione di qualunque livello vulcanico plio-pleistocenico riveste importanza archeometrica anche nel caso in cui non esista una correlazione diretta con culture umane: costituisce, infatti, un contributo alla ricostruzione dell'ambiente nel quale è avvenuta l'evoluzione umana. L'ossidiana, anche se il suo contenuto di uranio non è particolarmente elevato, è risultata assai utile per la cronologia del vulcanismo anche recentissimo. Le tracce di fissione in ossidiana si sono rivelate uno strumento efficacissimo per studi di provenienza: infatti le fonti di materia prima sono in aree vulcaniche limitate e identificabili. L'età e il contenuto in tracce sono discriminanti per la correlazione dei manufatti con le fonti. Questo metodo è stato applicato su larga scala e si è dimostrato un'alternativa molto valida al più diffuso studio della composizione chimica, che non sempre è decisivo. Ad esempio, alcune delle ossidiane di due importanti fonti del Medio Oriente, l'area di Bingöl e il vulcano Nemrud Dağ (Anatolia orientale), hanno composizioni chimiche indistinguibili. Le ossidiane di Bingöl, però, hanno età plioceniche, mentre Nemrud Dağ è un vulcano del Pleistocene superiore, che ha avuto le ultime manifestazioni eruttive in epoca storica. L'uso sistematico delle tracce di fissione per studi di provenienza dei manufatti di ossidiana ha prodotto un miglioramento sostanziale delle conoscenze sulle linee di commercio e di diffusione di questa materia prima. È opportuno citare alcuni risultati significativi: 1) l'identificazione di ossidiane prodotte dal vulcanismo andino della Cordillera Real centrale in siti costieri arcaici dell'Ecuador costituisce una prova significativa dell'esistenza di una rete di scambio costa-sierra fino dall'inizio del II millennio a.C.; 2) l'ossidiana dell'isola di Lipari, la fonte più importante del Mediterraneo occidentale, è stata rinvenuta anche in insediamenti preistorici del Neolitico a ceramica impressa dell'Italia meridionale (Torre Sabea, Lecce), che predatano le testimonianze più antiche della presenza umana nell'isola stessa; 3) due manufatti rinvenuti nel sito di Bodrogkeresztúr- Henyehegy e a Mád-Kakashegy (Ungheria nord-orientale) hanno confermato lo sfruttamento e il trasporto dell'ossidiana della Slovacchia orientale almeno fino dal Paleolitico superiore; 4) gli insediamenti neolitici del Bosforo (Domali, Fikirtepe, Pendik e Ilipinar) non hanno restituito materia prima non anatolica (carpatica e/o egea), al contrario di quanto si poteva ipotizzare. Le fonti dell'Anatolia centrale (Çiftlik), benché localizzate a grande distanza, e quelle del massiccio di Galata (Anatolia settentrionale) sono rappresentate da una quantità significativa di manufatti.
G. Bigazzi, Quaderni di archeometria, 1. La datazione con il metodo delle tracce di fissione. Applicazioni nel campo dell'archeometria, Pisa 1991, pp. 1-65; G. Wagner - P. van den Haute, Fission-track Dating, Dordrecht 1992, pp. 228-38.
di Giorgio Spinolo
Questo metodo (indicato anche con l'acronimo TL, o TSL, Thermally Stimulated Luminescence) ha dato, a partire dagli anni Sessanta, un contributo notevole alle ricerche, in particolare per la datazione del materiale ceramico. Considerata la notevole stabilità chimica del materiale stesso, manufatti di tale composizione rappresentano i più abbondanti reperti di uno scavo archeologico e pertanto la loro datazione fornisce un rilevante contributo allo studio di un sito e della sua stratigrafia. Altrettanto importante è il supporto fornito agli interventi di restauro di edifici, attraverso la datazione di parti del complesso o modifiche o restauri succedutisi nel tempo e mal documentati. Per completezza possiamo dire che ogni materiale a base argillosa contenente inclusioni di quarzo, feldspati e/o altri minerali e che sia stato cotto a temperature superiori ai 400÷500 °C può essere datato con il metodo della TL. Tra questi materiali ricordiamo ceramiche e terrecotte d'uso domestico o ornamentale, laterizi per i più svariati impieghi, terre di fusione di statue di bronzo, argilla concotta di focolari, selci bruciate, ecc. Il metodo della TL è distruttivo, anche se richiede una modesta quantità di materiale (10 g ca. di ceramica e altrettanti di terreno di scavo). Il metodo può essere applicato a manufatti di età compresa tra 100 e 20.000 anni e l'errore globale è nell'ordine del 5÷10%. Tale metodo di datazione ben si complementa con quello del radiocarbonio (¹⁴C), che è specifico per sostanze organiche tipo legno, semi, ossa, conchiglie, tessuti, ecc.
In ogni terreno, in tutte le argille, sono contenute impurezze radioattive della famiglia dell'uranio e del torio e il potassio- 40. Questi atomi, presenti nella misura di alcune parti per milione, emettono radiazioni elettromagnetiche (γ) e corpuscolari (α e β): tali radiazioni sono ionizzanti, ovvero se "colpiscono" un atomo lo privano di uno o più elettroni, "spendendo" una parte della loro energia. La quantità di energia perduta per unità di cammino nella materia da parte delle radiazioni ionizzanti è molto diversa a seconda delle differenti radiazioni. Nella matrice argillosa sono anche inclusi piccoli cristalli che vengono colpiti per intere ere geologiche dalle radiazioni ionizzanti: gli elettroni degli atomi "ionizzati" così dislocati, rimasti liberi per una frazione di secondo, o ritornano al punto "stabile" di partenza (o equivalente) emettendo luce, o restano bloccati, intrappolati in siti "metastabili" chiamati "trappole". Se queste trappole, energeticamente parlando, sono "basse", con un piccolo contributo energetico (cioè con il calore disponibile a temperature prossime all'ambiente), in poco tempo (minuti, ore) si svuotano; mentre le trappole "profonde" non si svuotano nei secoli e nei millenni e vengono progressivamente riempite, "saturate". Da quel momento in poi gli elettroni ionizzati non troveranno più spazio nel sistema delle trappole profonde e decadranno tutti verso le posizioni stabili. Se si porta un campione costituito da tali cristallini irraggiati a temperature dell'ordine di 400 °C, anche le trappole profonde si svuoteranno e gli elettroni così liberati decadranno verso i siti stabili con emissione di luce, dando luogo al fenomeno della luminescenza termostimolata. Quando un'argilla viene cotta per diventare ceramica il sistema delle trappole riempito nelle ere geologiche, quasi sempre saturo, si svuota e inizia un nuovo ciclo di accumulo "archeologico", tanto più rapido quanto maggiore è l'intensità del bombardamento da parte delle radiazioni, che è proporzionale alla quantità di impurezze radioattive contenute nel corpo ceramico e nell'ambiente circostante e al contributo dei raggi cosmici. La quantità di luce emessa è proporzionale al numero di elettroni intrappolati (e poi liberati), e questo numero è proporzionale all'energia rilasciata dalle radiazioni per unità di massa del campione o dose, misurata in gray (Gy). La dose totale, "archeologica", accumulata è proporzionale alla dose annua e al tempo trascorso. Partendo da queste semplici considerazioni di principio, si giunge all'equazione dell'età:
età (anni) = dose totale (Gy) / dose annua (Gy/anno)
Si nota pertanto che la datazione col metodo della TL si riduce concettualmente ad effettuare valutazioni di tipo dosimetrico. Descriviamo brevemente gli aspetti pratici relativi alla preparazione dei campioni e alla misura del numeratore e del denominatore di tale frazione. Per preparare i campioni, il frammento di vaso o di laterizio prelevato dal sito di rinvenimento viene prima privato di uno strato superficiale, spesso 1÷2 mm, per eliminare la zona interessata alle radiazioni α e β (nel materiale ceramico le particelle α percorrono pochi μm, le β 1 o 2 mm) provenienti dall'esterno. Il frammento così trattato viene poi ridotto in polvere, facendo uso di una morsa, di un pestello, di un trapano a lenta rotazione, cercando di evitare un eccessivo riscaldamento. Tramite sospensioni della polvere ceramica in acetone, si potranno poi selezionare diverse granulometrie. Se si selezionano grani con diametro compreso tra 1 e 8 μm si avranno campioni fine grain; se il diametro sarà intorno ai 100 μm si avranno campioni inclusion che, prima dell'uso, dovranno essere attaccati con acido fluoridrico per eliminare lo strato di alcuni μm attraversato dalle particelle α provenienti da impurezze interne al frammento ceramico stesso. In entrambi i casi si faranno poi una serie di 20 campioni circa costituiti da alcuni mg di polvere depositati su dischetti di alluminio (diametro ≅ 10 mm; spessore ≅ 0,5 mm). Per la valutazione del numeratore dell'equazione dell'età si utilizzeranno i campioni preparati come sopra descritto e un apparato concettualmente simile a quelli con cui si valutano le dosi ricevute dai normali dosimetri (TLD) per protezionistica personale e ambientale. In pratica, quel che si ottiene attraverso la misura di più campioni, alcuni contenenti solo la dose archeologica, altri con la dose archeologica e diverse dosi artificiali aggiuntive (somministrate con una sorgente β artificiale e ben calibrata), è la valutazione della dose totale ricevuta dal campione, o meglio la dose totale "β equivalente", Dβeq. La Dβeq è quella doseβ che produrrebbe la stessa quantità di TL della dose archeologica risultante dai contributi delle radiazioni α, β, γ e dei raggi cosmici. Quanto sopra descritto è illustrato nella Fig. 386, in cui i punti sperimentali vengono interpolati tramite una "retta di regressione". In particolare, nei campioni fine grain vi saranno contributi dalle radiazioni α, β e γ interne al campione e da raggi γ esterni e raggi cosmici; nei campioni inclusion vi sarà il contributo di raggi β e γ interni e di γ esterni e raggi cosmici. In molti casi il campione non risponde linearmente alla dose e quindi il metodo della retta di regressione (che implica linearità) conduce ad una valutazione imprecisa di Dβeq: si rimedia valutando I, l'intercetta di non linearità, attraverso l'utilizzo di campioni "svuotati" e irraggiati artificialmente. Per la valutazione del denominatore dell'equazione dell'età sarà necessario effettuare misure di concentrazione di impurezze radioattive nel campione e nel terreno di rinvenimento con i metodi classici della fisica nucleare, quali la misura dell'attività α con il metodo delle scintillazioni o la spettrometria γ e la fotometria a fiamma per il potassio (K) di cui il ⁴⁰K è l'isotopo radioattivo. Da questi dati di attività (numero di disintegrazioni al secondo) si può risalire alla dose annua dovuta a particelle α, β e γ: Daα, Daβ, Daγ. Esiste anche la possibilità di effettuare misure dirette di dose β e γ. Le scelte dipendono dalle circostanze, ma soprattutto dalla maggiore o minore abbondanza di campione. Per i campioni fine grain, ovvero per quelli in cui la dose α conserva un ruolo, sarà necessario valutare l'efficacia relativa della dose α rispetto a quella β (fattore K) nel produrre TL. La dose α è meno efficace della dose β, in quanto è depositata in modo molto localizzato, pertanto K ≅ 0,1÷0,2. L'energia depositata dalle radiazioni β e γ e dai raggi cosmici (r.c.) ha la stessa efficacia nel produrre TL. L'equazione dell'età si può ora scrivere: Nel caso di campioni preparati con il metodo inclusion non esisterà il termine KDaα. Quanto sopra descritto trova alcune difficoltà nella realizzazione pratica. Se nel campione restano residui combustibili, la misura di TL non potrà essere effettuata in ambiente contenente ossigeno, perché altrimenti si avrebbe un'emissione di luce non legata alla dose ricevuta. Alcune trappole, ancorché profonde, si svuotano spontaneamente: questo fenomeno, chiamato anomalous fading, non consente di datare una ceramica. Si sono studiate ceramiche in cui è presente una termoluminescenza "spuria", non legata all'irraggiamento ricevuto; in altre la catena radioattiva dell'uranio è incompleta a seguito di fuga di radon, un elemento gassoso e a vita media breve. Con una serie di controlli specifici ci si può liberare dagli errori legati ai problemi sopra descritti e nella maggior parte dei casi la scelta più opportuna è quella di scartare il frammento ceramico in questione: di norma ciò non è particolarmente rilevante, in quanto circa il 90% dei reperti ceramici presi in considerazione risulta databile. Errore ineliminabile è ovviamente quello casuale, legato ad ogni tipo di misura fisica, ma anche quello sistematico proveniente dalla taratura della sorgente β artificiale e dalla calibrazione degli apparati per la misura dell'attività α, β e γ. A tutto ciò si aggiunge l'incertezza derivante dal contenuto di acqua che nei secoli può avere subito notevoli variazioni. L'H₂O che riempie i pori della ceramica "frena" le radiazioni, così che la ceramica stessa ne riceve meno di quanto le competerebbe sulla base delle attività annue misurate sul materiale di cui è costituito il frammento e sul terreno di rinvenimento. A seguito di tutte queste ineliminabili imprecisioni, l'errore globale risulta essere, come già accennato, intorno al 5÷10%. Gli archeologi più interessati sono quelli che si occupano di periodi protostorici o di aree carenti di altri tipi di documentazione; l'interesse dell'archeologia classica è comprensibilmente limitato, mentre è molto vivo quello della medievistica, particolarmente in relazione alle indagini sugli edifici, nonché quello delle discipline rivolte allo studio delle civiltà extraeuropee.
M.J. Aitken, Thermoluminescence Dating, Oxford 1985.
di Salvatore Improta
Questo metodo di datazione, comunemente indicato con l'acronimo ESR (Electron Spin Resonance), è relativamente recente, dal momento che le prime date affidabili sono state ottenute agli inizi degli anni Ottanta, sebbene il metodo avesse mosso i primi passi negli ultimi anni Sessanta, periodo in cui si pose all'attenzione della comunità scientifica come un possibile potente strumento per indagare sull'età di diversi minerali. Successivamente esso si è affermato come alternativo a quello della termoluminescenza (TL) e si è rivolto prevalentemente a materiali quali lo smalto dei denti, i gusci dei molluschi, i coralli e, con minore grado di affidabilità, alle ossa. Si tratta, in generale, di materiali non idonei ad essere datati con il metodo della termoluminescenza a causa della loro decomposizione durante il processo di riscaldamento, che è un momento essenziale della rivelazione del segnale di TL. In campo geologico il metodo ESR si applica con successo alla datazione della calcite. Il principio del metodo è identico a quello della termoluminescenza; la tecnica di rivelazione dei segnali è invece del tutto diversa e praticamente non distruttiva.
Al fine di descrivere la tecnica di rivelazione è opportuno fare un breve richiamo ai principi del metodo nei punti essenziali. 1) I materiali cristallini, fin dalla loro formazione, presentano difetti nella loro struttura e sovente inglobano impurità costituite da atomi di sostanze radioattive, quali uranio, torio e potassio; 2) dal momento della loro inclusione nel cristallo i nuclei radioattivi emettono particelle α, β e γ, le quali ionizzano il materiale producendo prevalentemente elettroni liberi. A questo processo di ionizzazione fornisce un contributo anche la radioattività "esterna", costituita sia dai raggi cosmici sia dalle sostanze radioattive che si trovano nell'ambiente in cui il materiale è stato situato fino al momento della rimozione; 3) i difetti del cristallo costituiscono "trappole" per gli elettroni liberati nel corso del tempo a causa della ionizzazione, per cui le trappole acquistano una popolazione crescente con il passare del tempo. La concentrazione delle trappole popolate, e quindi degli elettroni in esse imprigionati, è una misura del tempo trascorso dalla formazione del cristallo in relazione all'intensità del bombardamento radioattivo subito. Anche in questo caso, come nel metodo della TL, l'età viene espressa dal rapporto: paleodose/dose annuale, essendo la prima misurata dalla popolazione degli elettroni intrappolati e la seconda dall'intensità della radiazione emessa da tutte le impurità radioattive, interne ed esterne, dalle quali il cristallo è stato interessato.
Tecnica sperimentale - La misurazione della concentrazione di elettroni liberati nel cristallo e imprigionati nei suoi difetti reticolari si basa su una proprietà fisica degli elettroni, quella di essere dotati di un movimento di rotazione (spin) intorno al proprio asse, per effetto del quale essi, essendo elettricamente carichi, si comportano come aghi magnetici. La rivelazione dell'intensità della loro presenza avviene ponendo un campione del materiale da analizzare in un forte campo magnetico, il quale costringe gli elettroni ad orientarsi con i loro poli magnetici in parte in verso concorde con esso e in parte in verso discorde. In questa situazione stazionaria si invia sul campione un piccolo campo magnetico oscillante, il quale, se di frequenza opportuna, costringe gli aghi magnetici elettronici ad oscillare alla sua propria frequenza da una orientazione all'altra. Questo fenomeno, spiegabile con la teoria quantistica, prende il nome di risonanza e si manifesta con assorbimento della radiazione incidente. Il segnale di assorbimento, opportunamente rivelato, è di altezza proporzionale al numero degli assorbitori e quindi alla popolazione di elettroni intrappolati. Ne segue che quanto maggiore è l'altezza del segnale, tanto maggiore è il tempo trascorso, a parità d'intensità di bombardamento radioattivo, dal momento della formazione del cristallo. Pertanto la sensibilità finita di rivelazione costituisce un limite per l'analisi di campioni di età recente; il limite superiore per la datazione viene infatti posto, normalmente, a circa 10.000 anni dal presente. La rivelazione del segnale è solo una componente della complessa procedura sperimentale. Di non minore importanza è l'insieme delle tecniche di analisi delle impurità radioattive interne per la valutazione di una parte della dose annuale. Per quanto riguarda il contributo "esterno", si cerca di valutarne direttamente l'entità eseguendo misurazioni dosimetriche nel luogo di seppellimento del reperto. Infine, come nel caso della termoluminescenza, si ricava la paleodose studiando la reattività del campione a fornire un segnale ESR crescente al crescere di una nota dose di radiazione artificialmente ad esso comunicata.
Come si è detto, la tecnica non è distruttiva, anche se il campione viene generalmente polverizzato prima di essere inserito in un tubicino di quarzo e, con esso, in una cavità risonante di uno spettrometro ESR. La quantità di campione necessaria per poter eseguire su porzioni diverse l'irraggiamento artificiale è dell'ordine del grammo. Il limite inferiore dell'età misurabile, che potrebbe essere teoricamente anche oltre il milione di anni, spesso non supera in pratica qualche centinaio di migliaia di anni per il presentarsi di effetti di saturazione. Per quanto concerne possibili errori sistematici vanno tenute presenti due distinte cause. La prima riguarda il cambiamento di struttura del cristallo nei processi di recristallizzazione: in tal caso l'accumulo di elettroni presenta caratteristiche diverse dalle precedenti e l'informazione anteriore può essere perduta; ne segue una sottostima dell'età. La seconda si riferisce alla possibile non costanza della dose annuale, nonostante essa sia sostanzialmente dovuta ad impurità radioattive di vita media molto lunga. È tipico il caso dell'uranio contenuto nelle ossa, che in certe condizioni di seppellimento può scambiare con l'ambiente circostante. Tuttavia, nonostante queste difficoltà, il metodo si è affermato con notevole successo in campo paleontologico, fornendo attendibili risultati nella risoluzione di numerosi problemi nello studio del Paleolitico inferiore e medio. Nell'ambito delle ricerche svolte in Italia, di rilevante importanza sono le datazioni relative a ritrovamenti neandertaliani nel Lazio, in particolare quelli riguardanti la Grotta Guattari e la Grotta dei Moscerini.
C.P. Poole, Electron Spin Resonance: a Comprehensive Treatise on Experimental Techniques, New York 1967; E.J. Zeller - P.W. Levy - P.L. Mattern, Geologic Dating by Electron Spin Resonance, in Symposium on Radioactive Dating and Low Level Counting (I.A.E.A.), Vienna 1967, pp. 531-40; A. Goede - J.L. Bada, Electron Spin Resonance Dating of Quaternary Bone Material from Tasmanian Caves. A Comparison with Ages Determined by Aspartic Acid Racemization and ¹⁴C, in Australian Journal of Earth Sciences, 32 (1985), pp. 155-62; M.J. Aitken, Science-based Dating in Archaeology, New York 1990; H.P. Schwarcz et al., Absolute Dating of Sites in Coastal Lazio, in Quaternaria Nova, 1 (1990-91), pp. 51-67; R. Grün - G.B. Strenher, Electron Spin Resonance and the Evolution of Modern Humans, in Archaeometry, 33, 2 (1991), pp. 153-99.
di Claudio Arias
La maggior parte dei materiali archeologici e geologici contiene particelle magnetiche, anche se a livello di impurità, per cui varie tipologie di manufatti di interesse archeologico sono potenzialmente adatte ad uno studio magnetico. Tale studio è in genere finalizzato alla datazione magnetica del manufatto, ottenuta in base alla direzione del campo magnetico terrestre (definita dall'angolo di declinazione, tra il nord magnetico e il nord geografico, e dall'angolo di inclinazione, dato dalla direzione, rispetto al piano orizzontale, del vettore magnetico) registrato su argille cotte al momento del loro riscaldamento per fenomeni di magnetismo termoresiduale (TRM). Poiché il campo geomagnetico cambia gradualmente in termini di direzione e di intensità, i materiali che si sono magnetizzati in un momento specifico possono essere datati in modo reale, comparando le variazioni note del campo geomagnetico, oppure in modo relativo, comparandoli con altri materiali archeologici. Tali variazioni non avvengono in modo prevedibile, né sono uguali in tutto il mondo. Di conseguenza, per i tempi anteriori a quando si iniziò a registrare tali cambiamenti per mezzo di osservazioni dirette con aghi magnetici sospesi (ad es., Londra dal 1580, Roma dal 1640, Parigi dal 1680), è necessario stabilire per ciascuna regione nella quale si intende usare la datazione magnetica l'andamento delle variazioni secolari, misurando campioni indisturbati dal momento della cottura e prelevati nella regione stessa. Una volta che sia stata stabilita la curva di riferimento delle variazioni secolari, questa può essere usata per dedurre la data di strutture in situ e/o di manufatti di interesse archeologico di diversa composizione e di data sconosciuta o incerta. Se vi sarà in seguito una revisione delle date che sono servite per costruire le curve di riferimento, ciò comporterà necessariamente una revisione delle date dedotte dalla curva stessa. Il metodo della datazione magnetica è simile, come fa notare M.J. Aitken, alla datazione stilistica, tranne che per l'attributo caratterizzante: la direzione magnetica; è innanzi tutto invisibile e, secondariamente, non dipendente dall'uomo. Rispetto ad una datazione effettuata con metodi radiometrici, con la datazione magnetica è ottenibile, almeno in via teorica, una maggiore precisione. In periodi nei quali le variazioni della direzione del campo magnetico sono rapide, come dal 1600 in avanti, è possibile avere un errore di soli ±10 anni. Da risultati ottenuti da forni romani del IV e III sec. a.C. si è visto che i cambiamenti del campo magnetico sono molto più lenti, per cui l'errore diventa più ampio, ad esempio intorno ai ±25 anni. Le date ottenute per mezzo dell'archeomagnetismo presentano alcuni problemi, come quello di ottenere una sufficiente accuratezza nell'orientazione dei campioni ed avere conferme sull'attendibilità dei dati cronologici con i quali vengono effettuate le comparazioni. Se questi requisiti sono soddisfatti, la tecnica ha il vantaggio di essere molto più economica di molti altri sistemi di datazione e di essere applicabile a materiali non databili con altri metodi. Qualsiasi materiale di un manufatto di interesse archeologico che sia stato riscaldato possiede una magnetizzazione che, se isolata dal contributo delle particelle con magnetizzazione instabile, può essere riferita al tempo della sua cottura. Vari studi di archeomagnetismo sono stati condotti su questi materiali: forni, terra, tegole, mattoni, vasellame, ecc. Altri materiali acquisiscono una magnetizzazione termoresiduale: monete, forme per fusione, ossidiana, strati di ceneri, accumuli di scorie e così via. Alcuni di questi materiali non sono stati ancora oggetto di studi rigorosi, anche se indagini preliminari hanno mostrato la loro potenzialità per ricerche di archeomagnetismo. Non vi è dubbio che i materiali che abbiano acquisito una magnetizzazione residua per effetto del riscaldamento siano, in linea generale, i migliori per gli studi di archeomagnetismo: in alcuni casi si possono avere magnetizzazioni estremamente basse, tali da essere influenzate da locali distorsioni del campo geomagnetico e dall'effetto delle bussole magnetiche che vengono usate per l'orientazione sul sito archeologico. Se in un materiale sono presenti solo particelle di granulometria estremamente fine, la loro orientazione di magnetizzazione sarà instabile ed esse seguiranno l'evolversi del campo magnetico terrestre. Qualora intervengano processi chimici tali da portare la granulometria delle particelle nell'intervallo di stabilità, la magnetizzazione delle nuove particelle sarà in questo caso stabile e potrà durare nel tempo in modo indefinito. Se invece i processi chimici portano le dimensioni delle particelle oltre l'intervallo di stabilità, il materiale tornerà ad essere instabile da un punto di vista magnetico. Non sono stati eseguiti ancora molti studi su materiali nei quali sia presente una magnetizzazione di tipo chimico (magnetizzazione chimica residua o CRM): normalmente questo tipo di magnetizzazione si incontra in materiali che sono stati per lunghi periodi in ambiente umido o comunque in presenza di abbondante acqua; sarà bene quindi escludere da misure di routine campioni che abbiano avuto tale tipo di storia. Ne sono un tipico esempio le malte, gli stucchi e gli intonaci, che possono avere una magnetizzazione chimica dipendente dal tempo di posa. Ricerche recenti tuttavia hanno mostrato che la magnetizzazione presente in tali tipi di materiali è di tipo detritico (magnetizzazione detritica residua o DRM, tipica dei sedimenti, quali le argille, le marne, ecc.), piuttosto che di origine chimica. Il campo magnetico terrestre cambia continuamente di direzione e intensità a differenti velocità e differentemente nelle diverse aree; non solo, ma gli studi archeomagnetici hanno mostrato che queste velocità cambiano anche con il tempo. Per di più, per ottenere date attendibili è richiesta differente precisione nel definire la magnetizzazione primaria a seconda delle epoche prese in considerazione. Se ad esempio viene presa come tipica la velocità di cambiamento del campo magnetico in Gran Bretagna, ad un errore di ±1° nella determinazione della direzione del campo corrisponde un errore in termini di età di ±5 anni; un errore poi dell'1% nella determinazione dell'intensità del campo comporta un errore di ±20 anni. Queste precisioni possono essere ottenute con le strumentazioni attualmente disponibili; non c'è comunque da tenere conto solo della precisione strumentale, ma anche di una corretta determinazione della magnetizzazione primaria, dell'orientazione dei campioni prima della misura, delle disomogeneità e dell'anisotropia magnetica. Le misure del campo magnetico terrestre degli ultimi 100-350 anni mostrano una cosiddetta variazione secolare (cambiamenti a lungo termine del campo che sono approssimativamente simili all'interno di una regione di 250.000-500.000 km²), e il suo andamento mostra una deriva verso ovest con una velocità di circa 0,2° di longitudine per anno. Questo quadro di fondo è stato solo poco modificato dai più recenti studi geomagnetici, paleomagnetici e archeomagnetici che coprono un lasso di tempo maggiore. Tutte e tre le grandezze che definiscono il campo magnetico terrestre possono essere usate per la datazione archeologica: l'intensità, la declinazione e l'inclinazione. Poiché queste tre grandezze sono virtualmente indipendenti, è molto raro che la combinazione delle tre possa essersi ripetuta esattamente nel passato in una data località. La comparazione tra magnetizzazioni rimanenti di siti archeologici vicini, tuttavia, permette una datazione relativa: campioni con identiche proprietà magnetiche saranno molto probabilmente della stessa età. Non è tuttavia sempre possibile determinare tutti e tre i parametri del campo magnetico antico. I cambiamenti dell'intensità geomagnetica avvengono di solito molto più lentamente dei cambiamenti in termini di direzione e questo comporta una distinzione in età più approssimativa; vi sono poi periodi di tempo particolari durante i quali l'intensità del campo varia molto velocemente. Nelle località dove esiste una registrazione diretta dei cambiamenti del campo geomagnetico è possibile la datazione di un sito di cui si siano misurati i parametri magnetici per confronto con le registrazioni stesse. Sfortunatamente misure dirette del campo magnetico terrestre esistono solo per gli ultimi 400 anni e solo in specifiche località, come Londra e Parigi: la maggioranza degli osservatori magnetici hanno iniziato le registrazioni magnetiche da meno di 100 anni. Tuttavia possono essere fatte molto raramente delle correlazioni con le osservazioni dirette del campo magnetico terrestre. La nostra conoscenza teorica dell'origine e del cambiamento del campo geomagnetico è ancora assolutamente inadeguata nel disegnare i modelli di variazione secolare del passato. Ciò porta a considerare che attualmente è possibile costruire le curve di variazione dei parametri del campo nel tempo solo attraverso studi magnetici di materiali datati. La larga scala delle variazioni secolari di solito permette le combinazioni di risultati derivati da differenti località per ottenere i cambiamenti secolari per ampie regioni, come ad esempio per l'Europa nord-occidentale, per l'intera regione mediterranea, per il Sud-Ovest degli Stati Uniti d'America. Queste determinazioni possono incorporare però tutti gli errori commessi nei primi studi magnetici e nei metodi inizialmente usati per la determinazione dell'età della magnetizzazione. Ciò nondimeno possiamo ora contare su determinazioni in termini di direzione per l'Europa nord-occidentale, per il Sud-Ovest degli Stati Uniti d'America, per il Giappone e per le regioni dell'ex Unione Sovietica. Queste curve di riferimento sono state costruite, nella loro maggioranza, con la misura della direzione di magnetizzazione di materiali riscaldati o bruciati, forni o argilla; in Giappone, in particolare, lo studio delle colate di lava storiche ha fornito una notevole quantità di dati. Alcune date provengono da eventi storici, ma la maggior parte è basata su considerazioni stratigrafiche e su datazioni con il ¹⁴C. Negli ultimi anni, grazie all'evolversi delle tecniche di misura, sono state effettuate determinazioni magnetiche su sondaggi di sedimenti lacustri e marini. Questi sedimenti, accumulati gradualmente durante un periodo archeologico o per tempi più lunghi, rappresentano una registrazione continua delle variazioni del campo geomagnetico: studi in tale settore sono stati particolarmente sviluppati in Gran Bretagna. Le registrazioni dei cambiamenti del campo sui sedimenti sono complicate dalla variabilità della velocità di sedimentazione, dall'occasionale presenza di lacune di sedimentazione e di livelli di erosione. Malgrado queste considerazioni, è tuttavia necessario assumere come costante la velocità di sedimentazione tra i diversi livelli che debbono essere stati datati con altri metodi (in particolare con il ¹⁴C). Quando la velocità e il tipo di sedimentazione sono controllati dalle stagioni, come nei sedimenti argillosi lacustri glaciali e postglaciali (varve o ritmiti), è possibile contare a ritroso dal presente per più di 14.000-15.000 anni e produrre così una cronologia molto più attendibile di quella ottenuta con altri metodi. L'analisi magnetica dei sedimenti varvati e quella dei materiali cotti possono essere integrate fra loro per avere un totale controllo di tutti e tre i parametri del campo magnetico terrestre. Poiché le variazioni secolari sono essenzialmente variazioni con estensione regionale, è necessario costruire separate curve di riferimento per ciascuna area subcontinentale. Sebbene normalmente dominata da cambiamenti locali, ciascuna variazione include i cambiamenti del campo terrestre che sono di natura globale. Il più spettacolare di questi cambiamenti avviene quando l'intera polarità del campo terrestre cambia al punto che il Polo Nord magnetico viene a trovarsi a circa 20-30° dal Polo Sud geografico. La più recente e completa inversione del campo magnetico terrestre è avvenuta circa 730.000 anni fa; a questa si aggiungono svariate altre inversioni più antiche che hanno un interesse specifico per gli studi sugli ominidi e sul Paleolitico. La datazione di tali inversioni risulta piuttosto difficile ed è stato possibile avere limiti datati in modo sufficientemente preciso solo comparando date provenienti da varie parti del globo ed eseguite con metodi diversi. È interessante notare come i grandi cambiamenti del campo geomagnetico coincidono, e ne sono la plausibile causa, con cambiamenti nell'andamento climatico di possibile importanza archeologica. Durante gli ultimi 700.000 anni circa della cronozona normale Brunhes, sono state individuate cinque escursioni o subcronozone di transizione del campo geomagnetico di interesse globale, ma molte altre certamente ne esistono e di queste parecchie hanno probabilmente un interesse solo locale. Il maggior cambiamento sia in declinazione sia in inclinazione durante queste escursioni comporta che la posizione del polo geomagnetico virtuale, relativamente al luogo in esame, si sposti in modo significativo dal suo intervallo e si avvicini all'equatore. Tuttavia queste escursioni non sono state ancora esaminate in modo sufficientemente dettagliato da poterle caratterizzare con precisione. La subcronozona Starno, ad esempio, è stata identificata in sedimenti postglaciali della Svezia e può essere correlata con vecchie osservazioni, che mostravano una magnetizzazione anomala, effettuate su una ceramica di età simile in Grecia; ancora oggi non è stato possibile peraltro stabilire con sicurezza la realtà e l'intervallo di tempo interessato da questo cambiamento del campo geomagnetico. In Italia non sono ancora disponibili dati magnetici che possano permetterci di costruire, anche per intervalli limitati di età, curve di riferimento standard: si tratta infatti quasi sempre di misure di strutture temporalmente e geograficamente distanti.
G. Folgheraiter, Sur les variations séculaires de l'inclination magnétique dans l'antiquité, in Archives des sciences physiques et naturelles, 8 (1899), pp. 5-16; L. Néel, Some Theoretical Aspects of Rock Magnetism, in Advances in Physics, 4 (1955), pp. 121-93; M.J. Aitken, Magnetic Dating, in Archaeometry, 1 (1958), pp. 16-20; E. Thellier - O. Thellier, Sur l'intensité du champ magnétique terrestre dans le passé historique et géologique, in Annales de Géophysique, 15 (1959), pp. 285-376; O.M. Rusakov - G.F. Zagniy, Archaeomagnetic Secular Variation Study in the Ukraine and Moldavia, in Archaeometry, 15, 1 (1973), pp. 153-57; J. Shaw, Rapid Changes in the Magnitude of the Archaeomagnetic Field, in Geophysical Journal. Royal Astronomical Society, 58 (1979), pp. 107-16; D. Walton, Geomagnetic Intensity in Athens between 2000 B.C. and A.D. 4000, in Nature, 277 (1979), pp. 643-44; Id., Re-evaluation of Greek Archaeomagnitudes, ibid., 310 (1979), pp. 740-43; M. Kovacheva, Summarised Results of the Archaeomagnetic Investigation of the Geomagnetic Field Variation for the Last 8000 yr in South-Eastern Europe, in Geophysical Journal. Royal Astronomical Society, 61 (1980), pp. 57-64; Y. Liritzis - R. Thomas, Palaeointensity and Thermoluminescence Measurements on Cretan Kilns from 1300 to 2000 B.C., in Nature, 283 (1980), pp. 54-55; E. Thellier, Sur la direction du champ magnétique terrestre en France, durant les deux derniers millénaires, in Physics of the Earth and Planetary Interiors, 24 (1981), pp. 89-132; C. Arias, Metodi di datazione per il Pleistocene medio-superiore, in G. Giacobini - F. D'Errico (edd.), I cacciatori neanderthaliani, Milano 1986; L. Langouet - L. Goulpeau - Ph. Lanos, Les récents progrés dans l'étude de l'archéomagnétisme des matériaux désplacés en France, in Pact, 15 (1986), pp. 177-85; C. Arias - G. Bigazzi, The Quaternary in Italy, K/Ar, Fission Track Dating and Magnetostratigraphy, in Il Quaternario. Special Issue for XII INQUA (International Union for Quaternary Research), Ottawa 1987.
di Elio Corona
Questo metodo di datazione studia l'accrescimento delle piante arboree considerato nel suo divenire temporale, l'accrescimento annuo in particolare, nonché i fattori che sull'accrescimento esercitano influenza diretta e indiretta. Poiché la manifestazione più agevolmente quantificabile dell'accrescimento arboreo nel tempo è rappresentata dall'accrescimento radiale (diametrico), che nella sezione trasversale dei fusti si configura in una successione di cerchie concentriche, gli "anelli annuali", la dendrocronologia fonda le sue analisi principalmente sulle caratteristiche di questi ultimi.
Sull'accrescimento delle piante arboree e sull'influenza delle stagioni si trovano molti cenni nelle fonti antiche: ne parlano, fra gli altri, Esiodo e Teofrasto, quindi Plinio, Vitruvio, Columella, ma nessuno riesce ad intuire la cadenza annua dell'accrescimento, il significato degli anelli, il loro legame con precisi eventi esterni. Soltanto molto più tardi, con Leonardo da Vinci (1452-1519), compaiono chiaramente enunciati alcuni concetti propri della dendrocronologia. Egli scrive infatti nel Libro degli alberi e verdure : "li circuli delli rami delli alberi segati mostrano il numero delli sui anni, e quali furono più umidi e più secchi secondo la maggiore o minore loro grossezza" e più avanti "l'accrescimento della grossezza delle piante è fatto dal sugo, il quale si genera nel mese di aprile infra la camicia e il legno di esso albero". Questi concetti furono ripresi nel secolo XVIII da C. Linneo, H.-L. Duhamel Dumonceau, G.-L. Buffon, F.A. Burgsdorf e, nel secolo XIX, dal fiorentino G. Uzielli (1869). Nel 1867 A. Pockorny definì gli anelli annuali "wahre meteorologische Jahrbücher", nel 1892 il russo F. Svedov pubblicò un saggio sugli alberi interpretati come cronisti delle siccità e nel 1914 l'olandese J.C. Kapteyn propose le piante arboree come testimoni di eventi climatici. Frattanto l'astronomo americano A.E. Douglass (1867-1962), dopo una serie di osservazioni su tronchi di pini ponderosi, douglasie e sequoie, riunì un primo insieme di proposizioni e notazioni, che coordinò in una disciplina autonoma: la dendrocronologia.
Gli anelli annuali, in quanto espressione dello stato e dell'attività delle piante, vengono esaminati in ogni dettaglio. Le loro dimensioni vengono tradotte in valori numerici (cronologie anulari) e in grafici (curve dendrocronologiche) inseriti in diagrammi, nei quali sull'asse delle ascisse figura la successione cronologica degli anni di vita delle piante in esame e sull'asse delle ordinate i valori assoluti o logaritmici o indicizzati delle grandezze rilevate (ampiezze anulari globali, ampiezze delle zone primaticce, ampiezze delle zone tardive, ecc.). Cronologie e curve rappresentano quindi la "storia" dell'attività delle singole piante e saranno tanto più lunghe quanto più longeve sono le piante da cui derivano (500-600 anni per il larice, 1000-2000 per il tasso, 3000- 4000 per le sequoie e i pini aristati, ecc.). Ma le successioni anulari ricavate da piante viventi possono essere agganciate mediante collegamenti "a ponte" a successioni anulari lette su manufatti e reperti del passato, in modo da prolungare cronologie e curve a ritroso nel tempo. Così in Europa per la quercia è stato raggiunto il VII millennio a.C., in America per il pino aristato l'VIII millennio a.C. Inoltre, poiché le piante appartenenti a una stessa specie in un determinato ambito geografico seguono lo stesso schema di accrescimento, con l'apporto di valori ricavati da un numero statisticamente significativo di piante si costruiscono cronologie e curve campione (master chronologies), che rappresentano l'andamento dell'accrescimento delle specie in quella zona. Su questi standard è allora possibile sincronizzare cronologie e curve ricavate da reperti di epoca sconosciuta, che vengono così inseriti in un contesto temporale definito. La sincronizzazione viene fatta per confronto ottico o mediante programmi codificati; spesso è agevolata dalla presenza di sequenze tipiche, le quali caratterizzano l'accrescimento radiale delle singole specie nei secoli (anelli significativi, segnature, lunghezze periodali) e costituiscono quindi precisi punti di incardinamento per cronologie e curve. Fra le segnature più celebri si ricordano l'Early Pueblo Diagram del pino ponderoso (423-431 d.C.), le Landshutssignaturen dell'abete bianco (1417-1421 e 1458-1462), la Sägesignatur del rovere (1530-1540). Le curve dendrocronologiche vengono anche sottoposte a crivelli per selezionare eventuali fluttuazioni e ciclicità quasi periodiche (analisi spettrale), collegate alle fluttuazioni maculari solari, ai cicli dinamici planetari, alle pascione, alle pullulazioni di defogliatori. La dendrocronologia, in quanto permette di collocare nel tempo manufatti ed eventi che hanno influito sulla vita delle piante arboree, può offrire indicazioni in campo archeologico, storico, climatico, ecologico, densitometrico, radiometrico e legale, per cui oggi la dendrocronologia viene articolata in sottodiscipline come dendrocronometria, dendroarcheologia, dendroclimatologia, dendroecologia, dendrogeomorfologia, dendrodensitometria, ecc.
Dendrocronometria e dendroarcheologia - Le cronologie anulari definiscono la collocazione temporale di reperti e manufatti lignei del passato. In campo storico e artistico le revisioni in chiave dendrocronologica permettono di stabilire il terminus post quem di singole opere, di individuare rimaneggiamenti e rimesse, di consolidare o rettificare attribuzioni.
Dendroclimatologia - La pianta agisce nei confronti delle sollecitazioni esterne come una sorta di filtro, la cui tipologia varia con la specie e con la stazione. Si distinguono "speciesensitive", che registrano puntualmente nei tessuti dei loro anelli gli stimoli esterni, e "specie compiacenti", che tali stimoli non traducono in disposizioni anulari altrettanto chiare. Il calendario dendrocronologico quindi può essere interpretato come un testimone indiretto delle stagioni e più in generale del clima. La strategia fondamentale per le indagini dendroclimatiche consiste nello stabilire relazioni statistiche tra le sequenze di un numero significativo di piante e fattori climatici. Definito il modello "dati climatici - risposta della pianta" (funzioni risposta) e verificata la dinamica dei fenomeni, si possono ricostruire clima e stagioni a ritroso nei secoli e, secondo qualche scuola, con estrapolazioni spettrali proporre schemi largamente predittivi nel breve periodo. Informazioni climatiche si desumono anche dai rapporti fra gli isotopi stabili di carbonio (C), idrogeno (H) e ossigeno (O) presenti nei tessuti anulari. In particolare il rapporto ¹²C/¹³C varia in funzione dell'umidità dell'ambiente, mentre i rapporti ¹H/²H e ¹⁶O/¹⁸O seguono le oscillazioni della temperatura.
Dendroecologia - Le specie sensitive segnalano variazioni microambientali indotte da inquinamento, polluzioni, polveri. Inoltre le "tarature anulari", sulla base delle funzioni risposta, forniscono indicazioni su temperamento, esigenze e fenologia delle specie. Elementi di giudizio vengono ricavati anche dai "tracheidogrammi", che considerano numero e dimensioni delle cellule, posizione topografica delle cellule maggiori, spessori parietali, ampiezza dei lumi, ecc.
Dendrogeomorfologia - La dendrogeomorfologia può dare informazioni su eruzioni vulcaniche, movimenti franosi, inondazioni, variazioni di falda, fenomeni che incidono sulle sequenze anulari con tipologie caratteristiche.
Dendrodensitometria - I tessuti legnosi, costituiti fondamentalmente da C, H, O, ossia da elementi a basso peso atomico, sono permeabili ai fasci di raggi molli. Pertanto i clichés radiografici, che evidenziano le variazioni di densità inter- e intranulare, collegate a loro volta a temperature e piovosità del periodo vegetativo, contribuiscono a ricostruire l'andamento delle stagioni degli anni corrispondenti.
Materie legali - La dendrocronologia, in quanto colloca in un preciso ambito temporale reperti e manufatti, può fornire indicazioni su tagli abusivi e furti di legname, su attrezzi lignei impiegati in fatti delittuosi, su falsi artistici.
Misure radiometriche - La dendrocronologia viene utilizzata anche per la taratura delle misure radiometriche; inoltre, nell'ambito di periodi indicati dal ¹⁴C, consente di costruire cronologie relative (floating chronologies) dalle quali si estraggono indicazioni climatiche e l'ordine cronologico dei reperti.
H.C. Fritts, Tree Ring and Climate, London 1976; E. Corona, Il contributo della dendrocronologia in alcune ricerche storiche, in Annali Accademia Italiana Scienze Forestali, 29 (1980), pp. 263-86; Id., Dendrocronologia, in Atti del Congresso della Società Botanica Italiana, II, Firenze 1988, pp. 891- 901; E.R. Cook - L.A. Kairiukstis (edd.), Methods of Dendrochronology, London 1990; E. Corona, La dendrocronologia come strumento per lo studio delle variazioni climatiche, in AttiConvLinc, 95 (1992), pp. 113-28; F.H. Schweingruber, Baum und Holz in der Dendrochronologie, Zürich 1992; Id., Tree Ring and Environment Dendroecology, Bern 1996.
di Laura Cattani
Per lungo tempo lo studio dei pollini fossili fu applicato solo ai sedimenti legati ad ambienti umidi, quali lagune, laghi, paludi e torbiere, poiché si pensava fossero gli unici a possedere un contenuto pollinico. Grazie alle loro caratteristiche peculiari (bassa energia, scarso ossigeno libero, pH acido), questi bacini sono indubbiamente ideali per la deposizione e per la conservazione delle piogge polliniche, tanto da meritare l'appellativo di archivi biologici della vegetazione. La loro distribuzione geografica è però piuttosto limitata; in Europa la maggior parte degli ambienti umidi è localizzata a latitudini nordiche, nelle zone montane e in aree costiere alquanto ristrette. Cronologicamente parlando, queste serie sedimentarie sono o molto antiche (Pliocene - Pleistocene inferiore) o recenti (Tardiglaciale - Olocene). Non mancano certo alcune importanti eccezioni che hanno consentito di ricostruire la storia del ricoprimento vegetale su una scala temporale più ampia. Ricordiamo a questo proposito il sito di Meikirch presso Berna, le torbiere della Grande Pile nei Vosgi e di Les Echets nei pressi di Lione, i depositi del lago craterico, prosciugato artificialmente, di Valle di Castiglione alle porte di Roma e i sondaggi di Tenaghi Phillipon nel nord della Grecia. Lo studio palinologico delle sequenze di depositi di tale tipo ha permesso di redigere ricchi e articolati diagrammi (sequenze polliniche continue) che, in base alla tipologia delle specie floristiche presenti e alle variazioni espresse in percentuale della loro presenza, riflettono le diverse situazioni paleoambientali che si sono succedute durante il Quaternario e che sono basilari per ricostruirne la storia. La ricostruzione degli antichi paesaggi diventa più completa e dettagliata se sono contenuti livelli con faune fossili a vertebrati nelle serie sedimentarie. Oltre a questo aspetto applicativo, le sequenze polliniche continue hanno un importante significato biostratigrafico: è stato possibile evidenziare infatti la successione di particolari associazioni polliniche (biozone polliniche), corrispondenti a ricoprimenti floristici e a condizioni climaticoambientali peculiari, la cui durata nel tempo è sottolineata dalla scomparsa o dalla diminuita presenza di alcuni elementi floristici che, per mutate condizioni, sono stati costretti a cambiare il loro areale di distribuzione. La biozonazione pollinica è in ambito cronologico un metodo di datazione relativa particolarmente valido ed è molto utilizzata anche per correlazioni stratigrafiche; laddove può essere affiancata da biozonazioni faunistiche accresce notevolmente le sue potenzialità. Lo studio palinologico di diversi depositi fluvio-lacustri antichi dell'Italia centro-settentrionale (Bertoldi 1989), dei quali è nota anche la sequenza biostratigrafica delle associazioni a mammiferi, ha permesso di redigere un quadro cronologico e paleoecologico del Pliocene e del Pleistocene inferiore che evidenzia le fasi vegetazionali che hanno caratterizzato il passaggio dall'Era Terziaria al Quaternario. Le sequenze polliniche continue dell'Europa settentrionale sono indubbiamente quelle che forniscono il quadro più completo e dettagliato delle variazioni climatiche e delle vicende floristiche europee a partire da 2,5 milioni di anni fa e costituiscono tuttora il modello di riferimento più usato per le correlazioni biostratigrafiche. Sulla base della biozonazione pollinica finora riconosciuta nell'Europa nordoccidentale, la prima fase di impoverimento dei boschi pliocenici, detta Pretigliano, corrisponde al primo ampio e sensibile raffreddamento climatico di tipo glaciale, datato in molte località a circa 2,3 milioni di anni fa. Con questo evento prende avvio la serie di fluttuazioni delle temperature medie e della piovosità che ha profondamente mutato gli ambienti e i loro ricoprimenti floristici fino a poche migliaia di anni fa. La parte inferiore del Pleistocene (da 2,3-1,8 milioni fino a 700.000 anni fa) consta di tre fasi calde di tipo interglaciale (Tigliano, Waaliano e Baveliano), a cui si alternano due periodi freddi (Eburoniano e Menapiano); il Pleistocene medio (700.000-120.000 anni fa) inizia con un episodio di riscaldamento climatico, detto Cromeriano, seguito dall'avanzata glaciale dell'Elsteriano, quindi dall'Holsteiniano più temperato e dal Saaliano nuovamente freddo. Fino a poco tempo fa si considerava il Cromeriano come un lungo periodo di stabilità climatica, molto temperato, che aveva consentito la diffusione di densi ricoprimenti boschivi a latifoglie con ampio dominio del querceto misto; una zonazione pollinica più completa e dettagliata, di recente definizione, evidenzia invece una storia del manto vegetale ben più varia, in cui associazioni floristiche molto temperate si alternano ad altre a conifere e betulle indicatrici di condizioni ben più fresche o addirittura fredde. Già con il Pleistocene medio si osserva una distribuzione geografica delle flore più diversificata rispetto alle epoche precedenti, fatto che denota come le condizioni ambientali locali abbiano influito in modo più incisivo sul quadro climatico globale. La cosiddetta "regionalizzazione del clima" sembra divenire un fattore importante nella parte superiore del Pleistocene, in cui, dopo un periodo di sensibile riscaldamento climatico (interglaciale Eemiano), le condizioni generali furono spiccatamente glaciali (Weichseliano), mitigate solo localmente e per periodi di breve durata. L'impoverimento del ricoprimento vegetale è ovunque drastico, ma non uniforme. Anche i tempi e le modalità della deglaciazione e del conseguente processo di reforestazione dipesero strettamente dalle varie situazioni locali. Correlare quindi dati paleoecologici relativi a contesti ambientali molto diversi e geograficamente lontani fra loro è abbastanza aleatorio. Per ottenere un'informazione cronologica valida su basi polliniche è necessario ricostruire dinamiche regionali di vegetazione anche con il contributo di serie di depositi di spessore limitato e con una distribuzione geografica più vasta di quelle di ambiente umido. L'applicazione dell'indagine palinologica a sedimenti di natura diversa da quella lacustro-palustre (löss, suoli, riempimenti di cavità carsiche, depositi di interesse archeologico), iniziata grosso modo attorno agli anni Sessanta, permette di ricostruire gli aspetti più continentali del paesaggio e di ottenere proprio quei dati locali e puntiformi, confrontabili fra loro, che consentono poi di inquadrare quel particolare evento in un contesto cronologico più generale. Queste categorie di sedimenti richiedono indubbiamente uno studio più attento a livello metodologico, in particolare nelle fasi di campionatura dei terreni e di interpretazione dei risultati, poiché in essi si concentrano tutti i limiti dell'indagine paleopalinologica. In stretta relazione con le modalità di trasporto e di accumulo di questi depositi si verificano facilmente anomalie della sedimentazione pollinica: conservazione selettiva dei granuli, percolazione di pollini da un livello più recente ad uno più antico e altri fenomeni che possono falsare il reale quadro paleoambientale, accompagnati frequentemente da concentrazioni modeste di granuli pollinici. In tali casi la multidisciplinarità delle indagini coadiuva indispensabilmente l'attenzione e l'esperienza del palinologo. Un discorso a parte meritano i siti archeologici, poiché il significato sia cronologico sia paleoambientale dell'indagine palinologica varia in relazione al grado di impatto antropico sul territorio, che si traduce poi nella maggiore o minore antichità del giacimento. Nei siti di età paleolitica l'apporto antropico è estremamente ridotto e limitato alle superfici insediative di più lunga durata, dove il calpestio, l'accensione di focolari e la preparazione di giacigli hanno alterato la naturale sedimentazione pollinica. In tali casi l'informazione che ne deriva non potrà essere né paleoecologica né cronologica, ma solo paletnologica, poiché fornisce dati sull'interazione uomo-ambiente. Se si considera però che la maggioranza degli abitati paleolitici conservatisi fino ai nostri giorni è localizzata in grotte e ripari sotto roccia che, oltre ad alcuni livelli insediativi, hanno preservato serie di depositi talora di notevole spessore, l'analisi pollinica dell'intero complesso acquista un importante valore cronologico, biostratigrafico e paleoambientale. La cospicua mole di dati archeopalinologici, ottenuti dallo studio dei depositi degli abitati paleolitici in cavità carsiche della Francia e di varie regioni dell'Europa centro- orientale, ne costituisce un valido esempio: tali dati hanno infatti consentito di ricostruire per il Pleistocene superiore alcune situazioni paleoambientali su scala regionale e di evidenziare precise fasi climatiche. Proprio perché legato ad una grotta famosa per le raffigurazioni parietali dell'arte paleolitica, ricordiamo a tale proposito l'interstadio di Lascaux, datato al radiocarbonio fra 15.240 e 14.150 a.C. Si tratta di un episodio di miglioramento climatico nel contesto ancora molto freddo e steppico dell'ultimo glaciale, caratterizzato da un ricoprimento boschivo importante (60% di polline di arboree) a pini, noccioli e querceto misto. Un analogo monitoraggio è in corso da diversi anni sui riempimenti delle cavità carsiche che si aprono al margine delle Prealpi venete e che costituiscono un ricco archivio stratigrafico, sia per la ricostruzione delle vicende climatico-ambientali dell'ultimo ciclo glaciale, sia per lo studio dei popolamenti umani del Paleolitico medio e superiore. Infine, con l'avvento delle culture neolitiche inizia il primo vero impatto antropico sul territorio, destinato ad accentuarsi progressivamente nel tempo, e lo studio archeopalinologico delle aree insediative perde anch'esso gradualmente il significato cronologico e biostratigrafico, mentre conserva e talora accentua quello paletnologico, soprattutto se tale studio è accompagnato da un'adeguata ricerca sui macroresti vegetali (legni, frutti e semi).
A. Leroi-Gourhan, La grotte de Lascaux, in BSocBotFr, 109 (1960), pp. 91-95; T.A. Wijmstra, Palynology of the First 30 Metres of a 120 m Deep Section in Northern Greece, in ActaBotNeer, 18 (1969), pp. 511-26; T.A. Wijmstra - A. Smit, Palynology of the Middle Part (30-78 metres) of the 120 m Deep Section in Northern Greece (Macedonia), ibid., 25 (1976), pp. 297-312; G. Woillard, Grande Pile Peat Bog: a Continuous Pollen Record for the Last 140.000 Years, in QuaterRes, 9 (1978), pp. 1-21; M. Welten, Gletscher und Vegetation im Lauf der letzen hunderttausend Jahre. Vorläufige Mitteilung, in Jahrbuch der schweizerischen Naturforschenden Gesellschaft, Zürich 1981, pp. 5-18; J.-L. de Beaulieu - M. Reille, Une longue séquence pollinique du Pléistocène supérieur: Les Echets près de Lyon, France, in Boreas, 13 (1984), pp. 111-32; G.W. Dimbleby, The Palynology of Archaeological Sites, London 1985; A.M. van der Wiel -T.A. Wijmstra, Palynology of the Lower Part (78-120 m) of the Core Tenaghi Phillipon II. Palynology of the 122,8-197,8 m Interval of the Core Tenaghi Phillipon III, Middle Pleistocene of Macedonia, in RPaleoBotPol, 52 (1987), pp. 73-117; M. Follieri - D. Magri - L. Sadori, 250.000 Year Pollen Record from Valle di Castiglione (Roma), in Pollen et Spores, 30 (1988), pp. 329-56; A. Traverse, Paleopalynology, London 1988; R. Bertoldi, Apporto della palinologia alla conoscenza dei giacimenti continentali pliocenici e pleistocenici inferiori dell'Italia centro-settentrionale, in StTrentiniScNat, 66 (1989), pp. 7-13; J.-L. de Beaulieu - M. Reille, The Transition from Temperate Phases to Stadials in the Long Upper Pleistocene Sequence from Les Echets (France), in Palaeogeography, Palaeoclimatolgy, Palaeoecology, 72 (1989), pp. 147- 59; Iid., The Last Climatic Cycle at la Grande Pile (Vosges, France). A New Pollen Profile, in QuatScR, 11 (1992), pp. 431-38.
di Giorgio Belluomini
È noto che le proteine sono componenti importantissime di tutta la materia vivente. Si tratta di macromolecole naturali costituite da lunghe catene, le cui unità fondamentali sono gli aminoacidi. Fin dalla metà degli anni Settanta è stato ampiamente investigato il significato geochimico e biologico della reazione di racemizzazione (fenomeno per cui sostanze otticamente attive, tenute per molto tempo ad elevata temperatura, perdono la loro attività) degli aminoacidi contenuti nelle proteine. Questa ben nota reazione chimica trova importanti applicazioni: ad esempio, la bassa velocità della reazione di racemizzazione degli aminoacidi nei fossili e nelle proteine metabolicamente stabili dei mammiferi viventi può essere usata per stimare l'età di questi materiali. Il grado di racemizzazione misurato nei campioni fossili di età nota consente altresì di ottenere informazioni sulla storia della temperatura di vari paleoambienti. La reazione di racemizzazione, inoltre, può generare nelle proteine metabolicamente stabili dei mammiferi viventi scambi strutturali che modificano la funzionalità della proteina, influenzando il processo di invecchiamento. Fra tutti questi interessanti campi di ricerca quello che sinora ha avuto la maggiore attenzione è stato lo studio delle applicazioni geochimiche e, in modo particolare, l'utilizzo della reazione di racemizzazione degli aminoacidi in archeologia, come metodo di datazione. Questo metodo, che si basa su una reazione organica spontanea, è stato applicato con successo allo studio di materiali fossili di origine organica come, ad esempio, denti, smalto di denti, conchiglie, ossa, coproliti, ecc. Esso presenta un campo di indagine che va da poche migliaia di anni dal presente a diverse centinaia di migliaia di anni, coprendo tutto il Pleistocene. L'ampiezza del campo di indagine dipende dal valore della temperatura media della regione in cui il fossile viene trovato. Per un'analisi è richiesta una quantità di materiale assai esigua (1÷2 g), il che offre la possibilità di effettuare una datazione diretta anche su reperti rari e preziosi. Le procedure sperimentali, descritte da G. Belluomini (1981), impiegano fondamentalmente l'analisi cromatografica, per la quale si rinvia al relativo paragrafo della successiva sezione. Gli aminoacidi sono caratterizzati dalla presenza di un atomo di carbonio asimmetrico, in particolare di un atomo al quale sono legati un gruppo amminico (-NH₂ ), un gruppo carbossilico (-COOH), un protone (-H) e un gruppo (-R), differente per ciascuno dei venti aminoacidi che generalmente si trovano nelle proteine. Con la sola eccezione della glicina, nella quale R=H e quindi l'atomo di carbonio centrale non è asimmetrico, tutti gli altri aminoacidi possono esistere in due forme, che sono l'una l'immagine speculare dell'altra. Queste due forme, che sono dette "enantiomere" (molecole formate delle stesse parti fra loro simili, ma non sovrapponibili, come ad es. l'oggetto e la sua immagine nello specchio, o la mano destra e la sinistra), vengono distinte mediante le lettere L e D e hanno identiche proprietà chimiche. Il metodo della racemizzazione degli aminoacidi si basa sul fatto che le molecole degli aminoacidi dei tessuti viventi sono costituite da enantiomeri del tipo L. Quando un animale muore, o il tessuto cessa di essere metabolicamente attivo, le molecole degli aminoacidi iniziano a trasformarsi nell'enantiomero D, e il processo continua finché si ottiene una miscela in equilibrio dove il rapporto fra i due enantiomeri è uguale a uno. La reazione chimica che converte l'enantiomero L in un miscuglio in parti uguali di L e D è detta "racemizzazione" e l'aumento del rapporto D/L viene usato per misurare il tempo trascorso dal momento della morte dell'organismo. I materiali fossili contengono quindi entrambi gli enantiomeri L e D e il rapporto D/L relativo all'aminoacido selezionato aumenta con l'età del fossile. La velocità di racemizzazione dipende principalmente dalla temperatura; tuttavia è stato osservato che anche i fattori ambientali, come il pH, l'umidità, le acque di lisciviazione e di percolamento, producono effetti non trascurabili su questa reazione. Per datare un reperto fossile con questo metodo è necessario valutare la temperatura media alla quale il fossile è stato esposto dal momento della sua deposizione nel terreno. Questa difficoltà può essere superata misurando il grado di racemizzazione (D/L) dell'aminoacido selezionato in un reperto che sia stato datato con un'altra tecnica (radiocarbonio, torio-uranio, risonanza di spin elettronico, potassio-argon, ecc.). In tal modo sarà possibile ricavare il valore della costante cinetica K dell'aminoacido scelto ("calibrazione"), la quale, valida per l'area climatica in esame, permetterà di datare altri campioni dell'area, secondo la relazione (dove t è l'età in anni), misurando soltanto il loro rapporto enantiomerico D/L. Le variabili che maggiormente influenzano l'estensione della reazione di racemizzazione sono il tempo e la temperatura. Pertanto i campioni che siano stati esposti a riscaldamento non sono idonei alla datazione con questa tecnica, perché il riscaldamento innalza il grado di racemizzazione fornendo valori errati per eccesso. Questo metodo di datazione ha importanti applicazioni in archeologia, paleontologia e geologia. I risultati cronologici qui riportati, di interesse archeologico e paleontologico, sono stati ottenuti utilizzando, fra i diversi aminoacidi delle proteine, l'acido aspartico e la isoleucina. Si utilizza l'acido aspartico per datare reperti fossili di età non superiore agli 80.000-100.000 anni, perché questo aminoacido possiede una delle più elevate velocità di racemizzazione fra tutti gli aminoacidi delle proteine e i valori del suo rapporto enantiomerico sono altamente riproducibili. In tabella vengono riportate alcune datazioni di ossa umane e di animali effettuate, in siti archeologici dell'Italia centrale e meridionale, in base a valori della costante dell'acido aspartico (Kasp) ricavati da campioni usati per la calibrazione diretta dei relativi siti. In ciascuno di questi siti è stata effettuata una "calibrazione" diretta con il ¹⁴C. In generale, i valori di età ottenuti con la racemizzazione sono risultati in buon accordo con quelli ottenuti con il metodo del radiocarbonio. Con tale metodo è stato possibile effettuare la datazione di reperti fossili umani della massa di 2÷3 g, come ad esempio l'uomo rinvenuto nel livello 31 della Grotta di Maritza, l'uomo del livello 34 della Grotta La Punta, l'adolescente del livello 21d della sepoltura nella Grotta Paglicci, il cranio dei livelli 8-9 della Grotta dell'Orso, reperti che non sarebbe stato possibile datare con il metodo convenzionale del radiocarbonio (conteggio β), a causa della notevole quantità di materiale osseo che esso richiede. Attualmente una datazione diretta su reperti organici è possibile con il metodo ¹⁴C basato sulla spettrometria di massa ad alta energia che richiede soltanto pochi mg di materiale. Per quanto riguarda la Grotta dell'Uzzo, dove sono conservate nei livelli mesolitici 8 sepolture singole e doppie di adulti e di bambini per un totale di 10 inumati, l'indagine con la racemizzazione è stata effettuata soprattutto per controllare se le sepolture fossero tutte ascrivibili al Mesolitico, come indicato dalle evidenze archeologiche, oppure se ci fosse stata, come in realtà i risultati hanno successivamente mostrato, una più ampia utilizzazione della necropoli. Per i campioni più antichi si utilizza la isoleucina. La scelta di questo aminoacido, i cui legami peptidici sono molto stabili all'idrolisi naturale, è dovuta al fatto che la reazione di racemizzazione, in questo caso particolare detta "epimerizzazione", della L-isoleucina (ile) a D-alloisoleucina (aile) avviene con una velocità assai bassa, permettendo quindi di investigare un campo di indagine che, come abbiamo detto, copre tutto il Pleistocene. Con questo metodo, ad esempio, è stato possibile datare direttamente per la prima volta reperti fossili del Pleistocene medio provenienti da siti paleontologici della Sicilia. Tale studio ha evidenziato che la grande antichità dell'Elephas falconeri Busk della Grotta di Spinagallo (500.000±100.000 anni), esemplare che ha raggiunto l'estremo limite del nanismo (90 cm al garrese), viene confermata dal valore ottenuto per la stessa forma pigmea della Grotta di Luparello. I risultati mostrano come le tre specie della famiglia Elephantidae risultino convivere in Sicilia. Inoltre, l'assenza di fossili più antichi dell'Elephas falconeri, almeno fra quelli studiati, indicherebbe che o la teoria che vuole far discendere l'Elephas falconeri Busk dall'Elephas mnaidriensis Adams e quest'ultimo dall'antiquus Falconer-Cautley non è verificata in quest'isola, oppure che condizioni sfavorevoli di conservazione non hanno permesso a questi fossili di giungere fino a noi. In quest'ultimo caso, si dovrebbe ipotizzare che in Sicilia si siano succedute nel tempo diverse invasioni di elefanti continentali e che i fossili di Spinagallo e di Luparello appartengano alla specie che discende dalla prima invasione. È interessante osservare inoltre che i valori di età ottenuti si distribuiscono tutti in due fasce cronologiche, discontinue e ben circoscritte: 500.000±100.000 anni e 200.000±50.000 anni. La più antica comprende le tre specie del genere Elephas, la più recente, prevalentemente, l'Hippopotamus. La completa assenza di fossili con età ascrivibile all'intervallo "morto" esistente fra le due fasce farebbe pensare ad una Sicilia scarsamente popolata, probabilmente a causa di sopraggiunte condizioni ambientali difficili.
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di Giuseppe Cavarretta
Il termine tefra (dal greco τέφϱα "cenere") è stato riferito per la prima volta a materiale vulcanico da Aristotele, nella descrizione (Meteor., II, 8, 367) di un'eruzione avvenuta a Vulcano (Isole Eolie), e ripreso nel 1954 per indicare in generale il materiale magmatico "lanciato" (o "proiettato") da un vulcano nell'atmosfera e distinguerlo dalle lave. La tefrologia, termine introdotto da P.C. Froggatt e D.J. Lowe (1990), è la scienza che studia tutti i prodotti piroclastici non consolidati, depositati sia per ricaduta che per flusso piroclastico. La tefrostratigrafia è la branca della tefrologia che attiene alla successione stratigrafica dei prodotti di ricaduta. Si parla invece di tefrocronologia quando il ritrovamento di un livello di tefra di età nota, in aree remote dal punto di emissione, viene usato come metodo di datazione indiretta dei depositi sedimentari nei quali è contenuto. Questi ultimi due termini sono a volte usati come sinonimi nella letteratura geologica: il secondo è però certamente più specifico. Il metodo trova fondamento nell'osservazione che i tefra possono essere proiettati fino alla stratosfera e le frazioni fini trasportate anche a lunghe distanze dalle correnti a getto. La ricaduta a terra delle particelle vulcaniche può quindi avvenire su aree molto vaste, fino a centinaia di migliaia di km², solitamente con distribuzione a forma lobata in funzione della direzione dei venti. Il tempo di ricaduta può giungere a tre anni, ma è considerato "istantaneo" dal punto di vista geologico. Un livello di tefra, specialmente se depositato in un ambiente sedimentario a bassa energia, costituisce quindi una superficie isocrona e, se univocamente discriminabile, può essere usato come un preciso strumento (livello-guida o marker) per datazioni indirette e correlazioni stratigrafiche tra le successioni sedimentarie che lo contengono. I livelli di tefra sono "serbatoi" di materiale idoneo per datazioni radiometriche. Per la definizione o il controllo del dato cronologico, se viene stimato che l'età di un livello di tefra può essere inferiore a 50.000 anni, si cercherà di datarlo con il metodo del ¹⁴C (radiocarbonio), usando i resti di vegetali o le sostanze organiche disperse normalmente contenute nei livelli sedimentari contigui; se questo non è applicabile, si userà il metodo dell'argon (⁴⁰Ar/³⁹Ar) utilizzando in preferenza, se presenti nel tefra, minerali contenenti potassio, come la biotite o il sanidino. Un altro metodo, basato sui disequilibri radioattivi dell'uranio e del torio, può far uso di diversi minerali, in particolare apatite, titanite, magnetite, pirosseni, granati e i sialici in genere. Meno usati sono altri metodi di datazione, come le tracce di fissione e la termoluminescenza. Gli studi sulla distribuzione dei tefra hanno dimostrato che l'abbondanza e la distribuzione geografica dei prodotti vulcanici di ricaduta sono state sinora molto sottostimate. Tra le regioni più indagate con il metodo della tefrocronologia si segnalano le Americhe, la Nuova Zelanda, il Giappone, l'Islanda, l'Europa settentrionale (utilizzando anche tefra provenienti dall'Islanda) e, in particolare, il Massiccio Centrale, l'Eifel, i Carpazi e l'area del Mediterraneo. Oltre che per le informazioni sull'età e per la possibilità di realizzare correlazioni stratigrafiche, gli archeologi mostrano un interesse crescente per i livelli di tefra in quanto indicatori di disastri naturali e perché costituiscono coperture protettive per orizzonti indisturbati di attività umane (Steen-McIntyre 1981). Da parte loro, i geologi hanno interesse a integrare i dati cronologici relativi ai livelli vulcanici con le informazioni specialistiche fornite dagli archeologi (Keller 1981; Voltaggio - Barbieri 1995).
J. Keller, Quaternary Tephrochronology in the Mediterranean Region, in S. Self - R.S.J. Sparks (edd.), Tephra Studies, Dordrecht 1981, pp. 227- 44; V. Steen-McIntyre, Tephrochronology and its Application to Problems in New-World Archaeology, ibid., pp. 355-72; P.C. Froggatt - D.J. Lowe, A Review of Late Quaternary Silicic and Some Other Tephra Formations from New Zealand: their Stratigraphy, Nomenclature, Distribution, Volume, and Age, in NewZealandJGG, 33 (1990), pp. 89-109; M. Voltaggio - M. Barbieri, Geochronology, in R. Trigila (ed.), The Volcano of the Alban Hills, Roma 1995, pp. 167-92.