FILANGIERI, Riccardo
Nato intorno al 1195 da Giordano (morto nel 1227), feudatario di Nocera, discendente dal normanno Angerio insediatosi in Italia meridionale prima del 1100, e da Oranpiasa, ricevette un'educazione cavalleresca. Il padre si preoccupò di consolidare il rango della famiglia stringendo legami matrimoniali con illustri casate della nobiltà meridionale. Il F., in una data a noi ignota, sposò Iacoba, figlia di Pietro Cottone, nobile napoletano, il quale nel 1198 era stato investito dalla regina Costanza della contea di Lettere e di Gragnano. Grazie al matrimonio il F. fece il suo ingresso nella nobiltà napoletana, la quale era rimasta finora preclusa alle famiglie di origine normanna.
Il F. è citato per la prima volta nell'ottobre 1224 come imperialis marescalcus, o, come è detto in testimonianze successive, imperialis aule marescalcus, ufficio che conservò fino al 1242.
La carica di maresciallo non diventò mai effettivamente un ufficio alla corte di Palermo, sebbene nel periodo normanno esistevano notizie isolate della sua esistenza. Come comandante delle truppe aveva molto più potere il regie private masnade magister comestabulus, le cui funzioni furono in effetti abolite dopo il ritorno di Federico II dalla Germania. Al suo posto sembra essere subentrato, dopo il 1220, l'Ufficio di maresciallo creato sul modello dei marescialli tedeschi di Enrico VI; ad assumere il nuovo ufficio con il titolo di imperialis aule marescalcus fu chiamato, anche per i suoi legami con l'imperatore, Anselm von Justingen. Gli statuti dell'ufficio, conservati solo a partire dall'età angioina, ci permettono di sapere che al maresciallo spettava l'organizzazione della leva feudale, l'amministrazione delle scuderie e l'approvvigionamento dei castelli, nonché in caso di guerra anche il comando dell'esercito.
Con la nomina a maresciallo del Regno il F. si trovò così in una posizione decisiva nell'apparato militare della monarchia sveva, che richiese la sua presenza costante in corte. Egli è segnalato nella cerchia dell'imperatore per la prima volta nel marzo 1225 a Palermo, ma non sappiamo se nella sua nuova veste abbia militato nella guerra contro i Saraceni in Sicilia. Negli anni 1226-1227 il F. seguì costantemente la corte imperiale, a Rimini, Parma, Borgo San Donnino, poi in Capitanata, infine nel febbraio e nel maggio 1227 di nuovo in Sicilia, a Catania e a Palermo. In quest'anno, durante l'organizzazione della crociata imperiale, il suo nome non è ricordato espressamente, ma è probabile che vi fosse impegnato per competenze organizzative. Quando Tommaso d'Aquino conte di Acerra, inviato precedentemente in Terrasanta come rappresentante dell'imperatore, annunciò la morte del sultano di Damasco, Federico II nella prima settimana di aprile del 1228 spedì il F. in Palestina con un'avanguardia di 500 cavalieri per sostenere il conte. Non sembra che il F. abbia trovato seri ostacoli in Palestina, anche se, in verità, sappiamo ben poco della sua condotta iniziale. Il cronista Ernoul e sulla sua scia alcuni storici moderni gli riniproveravano la durezza usata contro i violatori della tregua e i predoni cristiani. Ma nella fonte più vicina cronologicamente, una lettera di Gregorio IX dell'agosto 1228, questo atteggiamento viene attribuito al luogotenente allora in carica Tommaso d'Acerra, senza accenno al maresciallo.
Quando l'imperatore seguì con l'esercito crociato e il 21 luglio 1228 fece la prima tappa a Limassol nell'isola di Cipro, lo accolsero con i dignitari del Regno di Gerusalemme anche il F. e il conte di Acerra. Dopo la marcia attraverso l'isola lo seguirono in Terrasanta e con le loro truppe assicurarono il successo della crociata. Federico trasferì quindi al F. e al connestabile del Regno di Gerusalemme Oddone di Montebaliardo il comando generale dell'esercito dei regni di Gerusalemme e di Cipro, per scongiurare gli effetti negativi che la scomunica inflittagli da Gregorio IX avrebbero potuto avere sul piano militare. Allo stesso tempo egli intendeva così mostrare al sultano d'Egitto la forza dell'esercito crociato e in questo modo riuscì ad assicurare la conclusione della tregua che doveva decidere il successo dell'impresa.
Dopo il rientro nel Regno, nel 1229 il F. soggiornò regolarmente in corte; è però oscuro il ruolo che ebbe a fianco dell'imperatore in qualità di maresciallo nella campagna contro le truppe pontificie che avevano invaso il Regno. Durante le trattative di pace di San Germano e di Ceprano era al seguito di Federico II e accompagnò l'imperatore anche in occasione dell'incontro con Gregorio IX ad Anagni nel settembre 1230.
Quando Federico II dopo la Curia di Taranto nel febbraio 1231 si decise ad intervenire contro i patari di Napoli incaricò del compito l'arcivescovo Lando di Reggio Calabria e il F. come braccio secolare. I due fecero arrestare gli eretici la cui colpevolezza era provata, ma non emisero, a quanto pare, alcuna sentenza di morte.
Nell'agosto 1231, dopo aver partecipato alla grande Dieta di Melfi, il F. fu inviato da Federico II in Terrasanta con un contingente di cavalieri in qualità di luogotenente e di legato. Tentò di sbarcare durante il viaggio a Cipro e di consolidarvi l'autorità feudale dell'imperatore ma ne fu impedito dai baroni dell'isola guidati da Giovanni d'Ibelin. Il F. sbarcò perciò in Siria dinanzi a Beirut, di cui il vescovo Richieri di Melfi aveva già preso possesso con un'avanguardia. Mentre suo fratello Enrico riceveva in custodia da Aymar de Layron la città e il castello di Tiro come parte del Demanio reale, il F. si diresse verso San Giovanni d'Acri, dove il 27 ott. 1231 fu riconosciuto luogotenente del Regno da una assemblea composta oltre che dai baroni dell'Alta Corte da abitanti della città. Gregorio IX in una lettera all'imperatore nell'agosto 1231 aveva approvato la nomina del F., pur sollevando in verità riserve contro l'emanazione dell'autorità del legato e delle funzioni di luogotenente dall'Impero.
La luogotenenza del F. fu condizionata sin dall'inizio da una mancanza di comprensione per le consuetudini giuridiche invalse tra i baroni in Terrasanta. L'ordine dell'imperatore di incamerare i feudi di Giovanni d'Ibelin fece esplodere il conflitto. Alle riserve del suo predecessore nella luogotenenza, Baliano di Sidone, secondo il quale un feudo poteva essere revocato legalmente solo con un processo dinanzi all'Alta Corte, il F. contrappose, dopo un'iniziale incertezza, il principio che le istruzioni e gli ordini dell'imperatore avevano la precedenza sulle leggi e le consuetudini giuridiche del Regno di Gerusalemme.
Il rifiuto del F. di restituire Beirut a Giovanni d'Ibelin spinse i baroni ad una aperta resistenza. Egli non riuscì tuttavia ad avere ragione del castello della città e, dopo lo sbarco di un esercito di rincalzo cipriota in Siria nel febbraio 1232, in aprile diede ordine al fratello Lottiero di levare l'assedio alla città e di bruciare le macchine ossidionali, per concentrare le sue forze su Tiro. Da lì con un colpo di mano all'alba il 3 maggio 1232 riuscì a sorprendere l'esercito dei baroni presso Casal Imberti (oggi Akhzib, a nord di San Giovanni d'Acri) e ad infliggere ad esso una grave disfatta.
Sopravvalutando la portata della vittoria, il F. decise di occupare Cipro, rimasta pressoché sguarnita. Ma il suo successo fu subito compromesso, perché Giovanni d'Ibelin con le navi imperiali catturate a San Giovanni d'Acri e con l'aiuto della flotta genovese fu in grado di rientrare rapidamente con le sue truppe a Cipro e di sconfiggere presso Agridi il 15 giugno 1232 l'esercito dei "Longobardi", numericamente superiore, guidato da conti abruzzesi. Anche se una parte dei suoi partigiani resistette in alcuni castelli dell'isola fino al 1233, dopo questa sconfitta il F. nell'estate 1232 si recò presso il re d'Armenia, per tentare di rovesciare la situazione con una nuova alleanza politica. Ebbe però poca fortuna, così come i tre capi dei suoi partigiani di Cipro che nello stesso periodo si erano recati invano in Italia per ottenere da Federico II nuovo sostegno. La notizia che il F. si sarebbe recato anche lui in Italia insieme con i baroni ciprioti filoimperiali si è rivelata erronea (Kohler, p. 79).
Il governo del F., che a lunga scadenza fu orientato più a trasferire l'ordinamento politico del Regno di Sicilia alla realtà della Terrasanta piuttosto che al rispetto delle consuetudini feudali, ecclesiastiche e comunali vigenti nel Regno di Gerusalemme, provocò il rapido montare di una opposizione contro la sovranità di Federico II, anche se Gregorio IX in un primo tempo, approvò la condotta del Filangieri.
In risposta al rifiuto del F., opposto alle Assise del Regno già nel 1231, cittadini e baroni di San Giovanni d'Acri trasformarono la loro Confraternita di S. Andrea in un Comune capace di autonomia politica, e nell'aprile 1232 elessero Giovanni d'Ibelin capo del Comune, destinato d'ora in poi a fungere da baluardo della opposizione contro il Filangieri. In considerazione di questo conflitto Federico II, sempre nel 1232, decise di sciogliere l'esercito di rincalzo per il F. che già si raccoglieva a Brindisi e di nominare un secondo luogotenente, scelto dalla cerchia dei baroni, al quale assegnò come residenza San Giovanni d'Acri. Quando però il nuovo luogotenente Philip de Maugastel con l'appoggio di alcuni baroni ben disposti verso questo piano avrebbe dovuto prestare giuramento in un Parlamento a San Giovanni d'Acri, una sommossa dei sostenitori di Giovanni d'Ibelin impedì che assumesse l'ufficio. Il F. perciò contro i piani dello stesso Federico rimase l'unico luogotenente.
Una nuova proposta di mediazione per comporre il conflitto con il Comune di San Giovanni d'Acri e i baroni fu presentata nel 1234 dal patriarca Alberto di Antiochia e dal gran maestro dell'Ordine teutonico Hermann von Salza. Sebbene Gregorio IX nel marzo 1234 approvasse il progetto e nell'agosto 1234 incaricasse il suo nuovo legato, l'arcivescovo Teodorico di Ravenna, della sua applicazione, non si arrivò ad alcun risultato. La condotta del legato, che scomunicò e sottopose ad interdetto Giovanni d'Ibelin, i baroni e il Comune di San Giovanni d'Acri, non fece altro che inasprire l'opposizione di costoro e offrì il pretesto per passare all'offensiva e porre l'assedio a Tiro, dove il F. si trovava.
Nel settembre 1235 Gregorio IX, che aveva già tolto l'interdetto su San Giovanni d'Acri, propose agli ambasciatori di Federico II un nuovo piano di pace che anche da parte del papa contemplava la rimozione del F. dalla carica di luogotenente. Nel suo progetto per un accordo trasmesso a Federico II, ma rifiutato dai rappresentanti imperiali Pier Della Vigna e Pandolfo di Patti, il papa proponeva che i baroni e i cittadini di San Giovanni d'Acri sciogliessero i loro "communia", ma anche che il F. nel marzo 1236 abbandonasse la luogotenenza e fosse sostituito da un "balius omni carens suspitione". Nel febbraio 1236 Hermann von Salza e due cavalieri di San Giovanni d'Acri concordarono un nuovo compromesso che prevedeva ancora la rinuncia del F. alla luogotenenza e l'ordinazione di un successore ad interim fino alla fine di settembre 1236: a questo sarebbe dovuto succedere come luogotenente gradito a tutte le parti il principe Boemondo V di Antiochia.
Dato che Federico II si rifiutò di rispondere a questo piano di pace, il F. rimase in carica a Tiro, mentre i baroni a lui ostili anche dopo la morte di Giovanni di Ibelin (1237) controllavano la maggior parte dei castelli in Terrasanta e il Comune di San Giovanni d'Acri persisteva nella rivolta. Le comunicazioni navali con il Regno non furono comunque interrotte e il F. poté essere soccorso con vettovagliamenti e aiuti.
Quando, allo scadere della tregua decennale con il sultano d'Egitto, nel 1239 in Borgogna venne organizzata una nuova crociata Federico II fece sperare ai crociati l'aiuto e il sostegno del F.; ma essi non ne tennero conto. Nel 1241 il F., sfruttando tensioni esistenti tra i templari e gli ospedalieri e in accordo con due influenti cittadini di San Giovanni d'Acri, tentò di riprendere di nuovo il controllo sull'iniziativa politica. Si portò di nascosto nella sede degli ospedalieri ad Acri con l'intenzione di prendere la città con un colpo di mano. Il piano fu però scoperto, i suoi partigiani arrestati e la sede degli ospedalieri assediata per sei mesi; il F., visto fallire il suo disegno, era riparato a Tiro con la stessa segretezza con cui si era introdotto in Acri. L'insuccesso del colpo di mano in Acri indusse Federico II a licenziare il F. dopo undici anni di luogotenenza. Nel giugno 1242 il successore Tommaso d'Aquino conte di Acerra partì dalla Puglia alla volta della Siria.
Alla notizia della sua deposizione il F. nominò il fratello Lottiero, da lui creato maresciallo del Regno di Gerusalemme, suo supplente e si imbarcò per la Puglia con i suoi familiari. Durante il viaggio verso la Puglia fece però naufragio e fu respinto da venti contrari dalle coste nordafricane su quelle siriane. Quando alla fine di questa peregrinazione nel giugno 1243 rientrò nel porto di Tiro, la città e il porto erano caduti nelle mani dei baroni rivoltosi e il fratello Lottiero controllava ormai solo il castello. I nuovi padroni della città catturarono subito il F. e sfruttarono la circostanza favorevole per porre fine alla sovranità imperiale in Terrasanta. Il F. e i suoi familiari furono minacciati di morte e su una torre posta di fronte al castello vennero innalzate le forche, per mostrare a Lottiero asserragliato nel castello la serietà delle loro intenzioni. Dopo un'iniziale esitazione il 10 luglio 1243 Lottiero, in cambio della promessa della libertà per il F. e per la sua famiglia, si dichiarò disposto a capitolare e a consegnare il castello di Tiro, ultimo bastione militare della sovranità imperiale nel Regno di Gerusalemme, ai baroni. Il F. si imbarcò di nuovo per la Puglia, dove l'imperatore lo fece incarcerare insieme con il fratello Enrico e il figlio di questo, Giovanni di Sorrento, ritenendoli responsabili della definitiva disfatta politica subita in Terrasanta.
Il fratello Marino, arcivescovo di Bari, riuscì infine a convincere il conte Raimondo di Tolosa a intervenire presso Federico II a favore del F.; questi riottenne la libertà nel 1244, ma si dovette recare in esilio presso lo stesso conte. Nella sua cerchia si trovava ancora nel 1249 a Tolosa e a Milhaud, e nel settembre di quest'anno convalidò il testamento del conte con il suo sigillo. L'ufficio di maresciallo del Regno già nel giugno 1243 era passato a Tebaldo Francesco.
Il F. rientrò nel Regno nel 1251, dopo la morte di Federico II, e partecipò come il fratello Marino e altri suoi parenti alla rivolta della nobiltà campana e delle città di Capua e di Napoli contro la monarchia sveva guidata ora da Manfredi. Non è certo però se già nel luglio 1251 egli fosse podestà del nuovo Comune di Napoli, carica nella quale è invece costantemente documentato tra il 1º nov. 1251 e il 7 ott. 1252. Il 5 nov. 1252 gli era già subentrato il nobile milanese Gallo de Orbelli, che conservò l'ufficio fino al 1253. Grazie alla sua esperienza come maresciallo del Regno il F. fu sicuramente l'anima della resistenza contro Corrado IV, il quale sottomise Napoli solo dopo otto mesi di assedio e mandò il F. "con tutta la sua casata" di nuovo in esilio. Nel 1253-54, con l'aiuto del papa, il F. visse ad Ariccia, nella cerchia del nipote Enrico Filangieri, arcivescovo eletto di Bari.
Dopo la morte di Corrado IV il F. si trattenne ancora alla corte del papa. Pare che insieme con Galvano Lancia preparasse l'assemblea di Anagni, nella quale numerosi baroni del Regno giurarono fedeltà al papa. Innocenzo IV nel contesto del risarcimento a favore dei Filangieri nell'ottobre 1254 gli confermò la baronia in Terra di Lavoro conferitagli da Federico II, la città di Lettere e il castello di Gragnano, che la regina Costanza nel 1198 aveva concesso in feudo come contea al suocero del F., Pietro Cottone, e inoltre Calvi, Castellammare e Scafati. Nello stesso periodo il F. ricevette in nome del nipote Riccardo l'investitura di Satriano e per un altro nipote, Ruggiero, quella del feudo di Riardo.
Mentre il nipote Riccardo nelle settimane successive optò per il partito di Manfredi, non sembra che il F. modificasse di nuovo il suo orientamento politico. Per gli anni successivi non sono tramandate altre notizie su di lui e nel marzo 1263 è già citato come morto in un documento rogato a Napoli.
A causa della frequenza del nome Riccardo nella famiglia non è sicuro che il "Ricardus Filiangeri" ricordato al primo posto nel Necrologio del convento di S. Patrizia a Napoli al giorno 3 novembre sia da identificare con il F., come ritiene A. Facchiano. Anche la "curia nobilis viri domini Riccardi Filangerii" menzionata in un documento rogato a Lettere, nel febbraio 1262, potrebbe essere quella di suo figlio Riccardo, nato dal matrimonio con Iacoba Cottone (morta nel 1271). Da Iacoba il F. ebbe anche una figlia, Isabella, che sposò Giacomo d'Aquino, signore delle baronie di Arienzo e di Galluccio.
Il figlio Riccardo (iunior) gli succedette nei feudi di Gragnano e di Lettere, ma lasciò il Regno dopo il 1266 e visse presso la Curia a Viterbo nella famiglia del cardinale Ottaviano Ubaldini. Nel novembre 1266 ottenne dal nuovo re Carlo d'Angiò il permesso di recarsi presso il conte Alfonso di Poitou per recuperare certi diritti.
Quando Corradino di Svevia con l'aiuto dei Pisani organizzò la spedizione contro il Regno, Riccardo si unì all'impresa. Fu tra i nobili che con le galere pisane navigarono lungo le coste e costrinsero Ischia e Tortorella presso Policastro a sottomettersi a Corradino. Carlo I confiscò perciò, già nell'ottobre 1268, i suoi beni a Nocera. Nel gennaio 1269 risulta che egli come "proditor regis" aveva perduto ogni possedimento e l'anno dopo figura nelle liste dei traditori di cui erano stati sequestrati i beni. Morì in esilio tra il 1275 e il 1278.
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