RICAMBIO.
Il ricambio negli animali: Fisiologia normale: Ricambio materiale (p. 207); Ricambio energetico (p. 208); La produzione di energia negli organismi (p. 212); Il ricambio durante il digiuno e durante la somministrazione degli alimenti (p. 215). - Patologia del ricambio (p. 216).
Il ricambio nei vegetali: Ricambio materiale: Ricambio idrico (p. 218); Ricambio azotato (p. 220); Ricambio degli elementi inorganici (p. 221). - Ricambio energetico (p. 221).
IL RICAMBIO NEGLI ANIMALI
Fisiologia normale.
Gli organismi animali assumono dal mondo esterno con gli alimenti sostanze organiche e inorganiche, che poi restituiscono al mondo esterno più o meno modificate; essi hanno, dunque, un ricambio materiale. D'altra parte, l'energia chimica che si trova accumulata negli alimenti organicì viene trasformata dagli animali in altre forme d'energia (calore, lavoro meccanico, ecc.), per cui accanto al ricambio materiale si svolge un ricambio energetico. Si tratta di due aspetti di un unico fenomeno, che solo criterî di opportunità inducono a considerare separatamente.
Ricambio materiale. - Nello studio del ricambio materiale si determina la quantità di materia che in un dato periodo di tempo penetra nell'organismo dal mondo esterno e che in questo viene dall'organismo emessa, allo scopo di stabilire il rapporto tra le entrate e le uscite, di stabilire cioè il bilancio materiale. Le entrate sono rappresentate dagli alimentì solidi e liquidi e dall'ossigeno che viene assorbito nella respirazione; le uscite, dalle urine, dalle feci, dalle escrezioni polmonare e cutanea. Relativamente facile è la determinazione degli alimenti ingeriti, dell'urina e delle feci eliminate.
Per la raccolta delle feci, tuttavia, bisogna prendere delle precauzioni. L'intestino è sempre più o meno pieno di materiali, per cui non si può giudicare immediatamente se una determinata massa fecale corrisponde a un dato pasto sperimentale. Per fare ciò è necessario separare le feci corrispondenti a un dato pasto o serie di pasti, da quelle precedenti e dalle susseguenti. A tale scopo si fa digiunare per circa 20 ore l'individuo su cui si sperimenta, e quindi gli si somministra, insieme con il primo pasto sperimentale, una sostanza, per es. polvere di carbone, capace di dare alle feci un colore facilmente riconoscibile. Dopo l'ultimo pasto sperimentale si fa di nuovo digiunare l'individuo per 20 ore, e si aggiunge di nuovo polvere di carbone al primo pasto che segue il digiuno. Le feci da prendere in considerazione, sono, com'è chiaro, le prime colorate e le ultime non colorate e le intermedie.
Più difficile è la determinazione dell'ossigeno assorbito e dei gas emessi con la respirazione. Essendo sicuramente dimostrato che, almeno in condizioni fisiologiche e di normale alimentazione, attraverso i polmoni vengono eliminati soltanto anidride carbonica e vapore d'acqua, la ricerca viene limitata alla determinazione di queste due sostanze, oltre a quella dell'ossigeno. Si richiede l'uso di speciali apparecchi respiratorî, che, sebbene svariatissimi, possono essere riportati a due tipi fondamentali: tipo chiuso e tipo aperto.
Negli apparecchi a tipo chiuso, massimamente perfezionati da H.V. Regnault e J. Reiset, il soggetto su cui si esperimenta viene introdotto in una camera, perfettamente chiusa e di capacità nota, in cui tutta l'anidride carbonica e il vapor d'acqua eliminati sono assorbiti, il primo da potassa caustica, il secondo da acido solforico, contenuti in appositi recipienti. Nello stesso tempo, ossigeno è cacciato da un serbatoio nella camera, in modo che in questa la pressione dell'aria resti invariata per tutta la durata dell'esperimento. Pesando i recipienti contenenti la potassa e l'acido solforico e facendo l'analisi volumetrica dell'aria contenuta nella camera all'inizio e alla fine della ricerca, si conosce la quantità di anidride carbonica e di vapor acqueo eliminati dal soggetto durante la permanenza nella camera, mentre il consumo dell'ossigeno si calcola dalla quantità immessa nella camera e dall'analisi volumetrica dell'aria in questa contenuta.
Negli apparecchi a tipo aperto, perfezionatì da M. Pettenkofer, la camera respiratoria in cui si trova il soggetto in esame è incessantemente ventilata da una corrente d'aria ed è connessa, mediante le due aperture destinate all'entrata e all'uscita dell'aria, con gasometri, che servono a misurare la quantità di aria che circola, e con dispositivi speciali destinati a raccogliere una parte aliquota dell'aria che entra e dell'aria che esce, aria sulla quale si esegue poi l'analisi volumetrica. Anche l'eliminazione di vapore acqueo è possibile determinare con apparecchi di questo tipo.
Per esperienze di breve durata, anziché rinchiudere il soggetto in esame nella camera respiratoria, gli si può applicare sul viso una maschera fornita di valvola automatica, che separa l'aria inspirata da quella espirata. La maschera, poi, può essere connessa, come nell'apparecchio di Benedict, con un circuito chiuso, in cui l'aria, tenuta in circolazione da una piccola pompa rotativa, si libera dell'anidride carbonica e del vapore acqueo attraversando soluzioni adatte, mentre la pressione dell'aria nel circuito viene mantenuta costante mediante una continua immissione di ossigeno; oppure, come nell'apparecchio di Zunt-Geppert, è connessa, mediante il tubo di espirazione, con un gasometro che permette di determinare il volume dell'aria espirata, mentre una parte aliquota di detta aria viene deviata in un serbatoio e analizzata alla fine della ricerca. Conoscendo il volume di aria espirata si può facilmente calcolare quello dell'aria inspirata. La quantità totale dell'azoto espirata deve essere eguale a quella dell'azoto inspirato nello stesso periodo di tempo. Se ora dall'analisi volumetrica dell'aria espirata risulta un contenuto di azoto diverso, poniamo 79,2 invece di 79,03, vuol dire, che per ogni 100 cmc. di aria espirata se ne sono inspirati
Anche più difficile è raccogliere gli escreti cutanei. Attraverso la pelle si ha costantemente perdita di vapor d'acqua e di piccola quantità di anidride carbonica, che solo nelle ricerche eseguite tenendo i soggetti nella camera respiratoria possono essere raccolti insieme con il vapor acqueo e con l'anidride carbonica eliminata attraverso i polmoni. Col sudore, oltre ad acqua, si eliminano anche sostanze solide (urea, cloruro sodico, ecc.); ma, a meno di una sudurazione profusa, l'eliminazione è così piccola che può essere trascurata. Volendo determinarla, si fa indossare al soggetto biancheria ben lavata e atta a trattenere le sostanze sciolte nel sudore. Quelle che rimangono sulla superficie del corpo possono essere recuperate lavando la pelle con una soluzione idroalcoolica e lievemente alcalina. Oltre alle eliminazioni sopra considerate, l'organismo perde sostanza organica con la desquamazione epidermica, col taglio dei capelli e delle unghie, con l'emissione del sangue mestruale e dello sperma, con la secrezione lattea. Queste perdite, però, o sono così irrilevanti che non esercitano alcuna influenza sul ricambio materiale, o avvengono solo eccezionalmente e possono, quindi, essere evitate nel periodo sperimentale.
Le ricerche di ricambio materiale, come risulta da quanto s'è detto innanzi, sono molto laboriose, richiedono un'attrezzatura piuttosto complessa, e non possono durare che un tempo molto breve, qualche giorno al massimo, anche per le gravi limitazioni che pongono all'attività dell'individuo su cui si sperimenta. Per queste ragioni, una ricerca di ricambio materiale che tenesse conto soltanto della quantità totale della materia ingerita e di quella eliminata non varrebbe il lavoro che costa. Del resto, il risultato di una ricerca così fatta non sarebbe diverso da quello che si ottiene con due semplici pesate dell'individuo, all'inizio e alla fine del periodo sperimentale. Con le pesate, anzi, che possono essere sistematicamente e periodicamente ripetute, si ottengono dati certamente di maggior valore di quelli che si potrebbero ottenere con una breve ricerca di ricambio materiale globale.
Ben più complessi, dunque, sono i problemi che il fisiologo si propone di risolvere con lo studio del ricambio materiale. Egli si propone, infatti, di stabilire, non soltanto il bilancio complessivo fra le entrate e le uscite, ma il bilancio dei singoli costituenti dell'organismo: cioè dei protidi, dei lipidi, dei glucidi e delle sostanze inorganiche. A questo scopo egli deve conoscere, non soltanto la quantità, ma anche la composizione chimica delle sostanze ingerite e di quelle eliminate. Ma qui si presenta un'altra difficoltà. Gli alimenti organici vengono profondamente trasformati nell'organismo, e i prodotti ultimi di tale trasformazione, che compaiono negli escreti, sono gli stessi, anidride carbonica e acqua, per tutti e tre i gruppi di alimenti organici, e l'acqua, inoltre, deriva anche dall'acqua ingerita. I protidi, però, oltre ad anidride carbonica e acqua, dànno anche sostanze azotate e solforate, onde dalla determinazione dell'azoto e dello zolfo, ma particolarmente del primo, negli escreti si può calcolare il bilancio dei protidi, e quindi anche la parte di anidride carbonica e di acqua degli escreti che da essi deriva. Il problema, perciò, si riduce a determinare quanto dell'anidride carbonica e dell'acqua derivi dai lipidi, quanto dai glucidi. E il problema è di soluzione relativamente facile quando si conoscano l'ossigeno assorbito e l'anidride carbonica eliminata dal soggetto nel periodo dell'esperimento, come in seguito sarà dimostrato. Per la determinazione del ricambio materiale, inteso come è detto, occorrerebbe conoscere la concentrazione dei singoli elementi contenuti negli alimenti e negli escreti. Ma in realtà, meno casi particolari, degli alimenti ci si limita a determinare l'acqua, i protidi, i lipidi, i glucidi e le ceneri.
Dal contenuto in acqua, in protidi, in lipidi e glucidi, è facile calcolare il contenuto in elementi: H, O, C, N, S. Le stesse determinazioni si fanno sulle feci. Nell'urina si determina l'acqua, e poi l'azoto, il carbonio, l'idrogeno e le ceneri del residuo secco. Si determinano, inoltre, l'ossigeno assorbito e l'anidride carbonica eliminata.
La determinazione delle proteine negli alimenti e nelle feci si pratica determinando l'azoto col metodo di Kjeldahl e moltiplicando per 6, 25 (ammettendo che le proteine contengano in media 16% di azoto). I lipidi si determinano estraendo con etere il materiale secco; l'acqua, disseccando a 105° sino a peso costante; i costituenti inorganici incenerendo il materiale disseccato. I glucidi si calcolano sottraendo dal peso secco della sostanza esaminata quello dei protidi, dei lipidi e delle ceneri. Oppure, si bolle il materiale disseccato con acidi diluiti allo scopo di convertire tutti i polisaccaridi in monosaccaridi, e questi sono determinati con un metodo di riduzione e calcolati come glucosio.
Nella tabella a pag. 209 riferiamo un'esperienza di ricambio materiale della durata di 24 ore eseguita da W. O. Atwater e F. G. Benedict su un giovane studente.
Dall'esempio riferito risulta quanto laboriosa e difficile sia una ricerca di ricambio materiale, ma risulta anche come essa possa darci, se ben condotta, risultati molto precisi sul ricambio dei singoli costituenti organici.
Risultati soddisfacenti si ottengono, del resto, anche tralasciando di determinare l'ossigeno assorbito, e limitandosi a determinare, nell'urina, l'azoto e il carbonio, come dimostra la seguente ricerca (Atwater) compiuta su un uomo di 32 anni e di 64 kg. di peso tenuto a regime misto. La ricerca durò 4 giorni, e le cifre che qui si riferiscono rappresentano la media pro die.
Se consideriamo le escrezioni fecali come pura perdita, l'organismo ebbe a sua disposizione 89 g. di proteine con 14,2 g. di N; 78,8 g. di lipidi e 286,6 g. di glucidi. Con l'urina eliminò 16,2 g. di azoto. L'organismo, dunque, perdette 2 g. di azoto, cioè subì una perdita di 12,5 g. di proteine dei proprî tessuti. Il ricambio proteico totale fu, quindi, di g. 101,6.
Poiché nelle proteine N : C = 1.3,28, nei 101,6 g. di proteine erano contenuti 16,2 × 3,28 = 53, 1 g. di C., donde segue che dei 219,5 g. di carbonio eliminati con l'urina e con l'aria espirata solo 166,4 derivano dai lipidi e dai glucidi.
Se fosse nota la quantità di ossigeno assorbita dall'individuo in esame durante il periodo sperimentale, si potrebbe calcolare esattamente la parte di questo carbonio proveniente dai grassi e quella proveniente dai glucidi (v. appresso).
In mancanza di tale nozione, poiché, come sarà più particolarmente detto appresso, risulta da numerose esperienze che nell'organismo animale i glucidi sono bruciati prima dei lipidi, possiamo ammettere che tutto il carbonio dei glucidi assorbito sia stato eliminato.
Dall'intestino furono assorbiti 286,6 g. di glucidi contenenti g. 124,7 di carbonio; restano, dunque, 166,4 − 124,7 = 41,7 g. di carbonio derivanti dai lipidi, e poiché questi contengono in media 76% di carbonio, nell'organismo sono stati bruciati
di lipidi.
L'individuo in esame ha, quindi, metabolizzato in media, pro die, 101,5 g. di protidi, 54,6 di lipidi e 286,6 di glucidi. Un confronto di queste cifre con quelle degl'introiti dà come risultato, tenendo conto che dalla scomposizione di 12,5 g. di proteine organizzate sono derivati 6,56 g. di carbonio, che l'organismo durante il periodo sperimentale ha perduto, pro die, 12,5 g. delle sue proteine e ha guadagnato 18,6 g. di carbonio corrispondenti a 24,2 g. di lipidi.
Ricambio energetico. - Gli alimenti organici sono sostanze ricche di energia potenziale (energia chimica), capaci di combinarsi, cioè, con l'ossigeno con produzione di calore, mentre i prodotti di escrezione ne sono poverissimi o affatto privi. È che l'energia chimica degli alimenti si trasforma nell'organismo animale in calore e in lavoro meccanico, come per il primo dimostrò A.-L. Lavoisier nel 1777. Accanto a un ricambio di materia gli organismi animali presentano, dunque, un ricambio di energia, in quanto ricevono dal mondo esterno energia chimica e cedono a questo calore e lavoro.
Per determinare tale ricambio, analogamente a quanto si pratica per il ricambio materiale, bisogna determinare, da una parte, l'energia chimica che l'organismo introduce con gli alimenti in un dato periodo di tempo, dall'altra, la somma di energie che nello stesso periodo di tempo esso produce. Descriviamo brevemente i varî metodi che possono essere adoperati a tale intento.
a) Calorimetria diretta (fisica). - L'energia chimica degli alimenti si misura dalla quantità di calore che si sviluppa nella combustione di essi e si esprime in calorie-chilogrammo.
Caloria-chilogrammo è la quantità di calore necessaria per elevare la temperatura di 1 kg. di acqua di 1° (precisamente da 14°,5 a 15°,5) ed è eguale a 1000 calorie-grammo. Quando non venga diversamente indicato, con l'abbreviazione Cal. noi indicheremo sempre calorie-chilogrammo.
La determinazione si esegue bruciando la sostanza in esame, perfettamente disseccata, in un cilindro d'acciaio a pareti spesse (bomba calorimetrica), che si riempie di ossigeno compresso. L'accensione avviene arroventando, mediante la corrente elettrica, un filo di platino in contatto con la sostanza. La bomba calorimetrica si trova in un calorimetro ad acqua, dall'aumento di temperatura della quale si calcola la quantità di calore liberata nella combustione.
Il calcolo dovrebbe essere il seguente: V = a × t, in cui V indica il valore calorico, in Cal, del peso della sostanza bruciata, a i g. di acqua contenuti nel calorimetro e t l'aumento di temperatura di essa in gradi centigradi. Ma bisogna tener conto che una parte del calore che si libera nella combustione viene assorbito dalle parti solide (metallo, vetro) del calorimetro. Per calcolare questa parte, si procede empiricamente nel modo seguente: si brucia nel calorimetro una sostanza di cui V sia esattamente conosciuto. Essendo noto V e determinandosi t, si può calcolare il valore di a e lo si trova maggiore di quello reale (g. di acqua nel calorimetro). La differenza, K, è costante, quale cha sia il valore reale di a e la sostanza bruciata, e si indica come valore in acqua del calorimetro, perché essa esprime la massa di acqua capace di assorbire la stessa quantità di calore assorbita dalle parti solide del calorimetro. Conosciuto il valore di K, nelle determinazioni del valore calorico si applica la formula V = (a + K) t. Di altre correzioni di minore importanza non è qui il caso di parlare.
I risultati delle determinazioni eseguite su alcuni alimenti di uso più comune sono i seguenti:
Ma non tutto il calore che si sviluppa nel calorimetro è utilizzato dall'organismo, sia perché non tutte le sostanze contenute negli alimenti vengono digerite e assorbite, sia perché alcune sostanze, pur essendo digerite e assorbite, non vengono ossidate completamente nell'organismo, i protidi innanzi tutto, il cui azoto compare nell'urina in forma di prodotti (urea, acido urico, ecc.) che contengono ancora energia potenziale. Ne segue la necessità di determinare il valore calorico delle feci e dell'urina, per detrarlo da quello degli alimenti ingeriti nel periodo dell'esperimento. La differenza fra le calorie totali degli alimenti e quelle degli escreti indica le calorie che effettivamente l'organismo ha avuto a sua disposizione (calorie nette).
Determinate le entrate, bisogna determinare le uscite.
L'energia potenziale degli alimenti si trasforma nell'organismo in energia cinetica (calore e lavoro). Se il soggetto su cui si esperimenta durante il periodo della ricerca non compie alcun lavoro esterno, il problema si riduce a misurare la quantità di calore (calore sensibile e calore latente di evaporazione) che egli cede all'ambiente. Questo problema, il cui studio fu iniziato dal Lavoisier col suo calorimetro a ghiaccio nel 1783, ebbe la sua integrale soluzione nell'uomo con le esperienze dell'Atwater (1899), mediante la costruzione del calorimetro a respirazione.
Questo consta essenzialmente delle seguenti parti:1. camera calorimetrica, perfettamente isolata dall'ambiente, sufficientemente grande e arredata col minimo necessario perché un uomo possa vivervi confortevolmente di giorno e di notte per 3 o 4 giorni consecutivi. Un adatto congegno permette d'introdurre gli alimenti nella camera e di asportarne gli escreti. 2. Apparecchi di ventilazione che rinnovano l'aria nella camera. Il volume d'aria ventilato è misurato e la sua temperatura regolata in modo che all'uscita della camera sia la stessa che all'entrata. Campioni d'aria prelevati all'entrata e all'uscita dalla camera dànno la quantità di O2 consumato dal soggetto e quella di CO2 e di vapore acqueo emessi attraverso i polmoni e la cute. 3. Una corrente continua d'acqua attraversa dei tubi metallici collocati nella camera. Regolando la temperatura e la velocità della corrente si fa in modo che la temperatura della camera resti costante; moltiplicando la massa d'acqua per il suo riscaldamento, si ottiene la quantità di calore che essa ha sottratto al calorimetro.
Come esempio di determinazione di ricambio energetico citiamo la stessa esperienza di Atwater e Benedict, innanzi ricordata. L'individuo in esame nelle 24 ore di permanenza nella camera calorimetrica, introdusse con gli alimenti 2569 calorie (determinazione diretta), di cui, però, 252 furono eliminate con gli escreti (urina e feci): ne ebbe, quindi, a sua disposizione 2317. Nello stesso periodo di tempo produsse 2113 calorie con un guadagno, dunque, di 204 calorie. Se il principio della conservazione dell'energia vale anche per gli organismi, dette calorie devono essersi accumulate nel suo organismo sotto forma di energia potenziale. La contemporanea ricerca di ricambio materiale dimostra, infatti, che quell'organismo durante le 24 ore dell'esperimento bruciò 29, 16 g. di protidi dei proprî tessuti con una liberazione d'energia pari a 29, 16 × 5,65 = 165 Cal, ma mise in riserva nel suo organismo 33,54 g. di grasso e 17,53 g. di glicogeno, con un guadagno di energia pari a 33,54 × 9,5 + 17,53 × 4, 18 = 394 Cal. Il guadagno di energia chimica fu, quindi, in tutto di 394 − 165 = 229 Cal. La differenza tra la cifra calcolata dal ricambio materiale e quella determinata direttamente nel calorimetro è, dunque, solo di 25 Cal, il che importa, su un ricambio totale di oltre 2000 Cal, una differenza di poco superiore all'i %.
Per stabilire il ricambio energetico in individui che compivano un lavoro esteriore, Atwater realizzò la seguente esperienza. Nella stessa camera calorimetrica il soggetto in esame metteva in marcia un velocipede azionante una piccola dinamo situata nella camera. L'energia elettrica era trasformata in calore mediante adatta resistenza, e questo calore era misurato insieme con quello direttamente prodotto dal soggetto. L'intensità e il voltaggio della corrente, misurati all'esterno del calorimetro, davano la potenza del lavoro.
La media pro die dei risultati di 6 esperienze di questo genere, d'una durata complessiva di 20 giorni, è la seguente: calorie degli alimenti ingeriti meno calorie degli escreti (calorimetria diretta degli alimenti e degli escreti) calorie liberate dai proprî tessuti o in questi immagazzinate (calcolate dal bilancio dell'N e del C): 3669; calorie raccolte dal calorimetro nello stesso periodo: 3656.
Una differenza, dunque, di sole 13 calorie, pari al 0,4%.
Se si considera la media complessiva di 93 giorni di esperienze eseguite da Atwater e dai suoi collaboratori, sia su soggetti a riposo, sia su soggetti che eseguivano un lavoro meccanico, si trova questo risultato finale:
La legge della conservazione dell'energia negli organismi è, dunque, verificata con precisione matematica.
b) Calorimetria indiretta (chimica). - 1. Il coefficiente calorico degli alimenti e delle riserve organiche (termochimica alimentare). - Nelle esperienze innanzi citate si è visto come l'energia cinetica prodotta da un organismo, oltre che misurata direttamente, può anche essere calcolata dalla differenza fra il valore calorico degli alimenti e quello degli escreti (urine e feci) e dal bilancio del C e dell'N, che indica eventuali variazioni in più o in meno dei costituenti corporei. Ma, come per il primo ha dimostrato M. Rubner, la determinazione del valore calorico degli alimenti e degli escreti non è necessaria, quando si conosca la quantità dei principî alimentari organici, protidi, lipidi e glucidi, contenuta negli alimenti e i prodotti ultimi della loro combustione nell'organismo. Per quanto si riferisce a questo secondo punto, abbiamo già visto che i prodotti ultimi della combustione dei lipidi e glucidi sono gli stessi, anidride carbonica e acqua, nella bomba calorimetrica e nell'organismo. I protidi, invece, mentre nel calorimetro dànno acido carbonico, acqua, azoto e acido solforico, nell'organismo dànno, accanto all'acido carbonico e all'acqua, sostanze azotate (urea, innanzi tutto, poi ammoniaca, creatinina, acido urico, ecc.) e solforate (acidi ossiproteici, ecc.) ancora combustibili. Il valore energetico di questi prodotti va, dunque, sottratto da quello dei protidi.
Per stabilire la grandezza della sottrazione da fare, il Rubner alimentò un piccolo cane con protidi muscolari (carne estratta con acqua, alcool ed etere), il cui valore calorico al calorimetro risultò = 5,754 calorie per grammo. Quindi, misurò il calore di combustione delle urine e delle feci eliminate nel periodo di osservazione, e lo trovò rispettivamente eguale a 1,0945 e 0, 1854 per ogni grammo di proteine. Finalmente sottrasse ancora 0,05 calorie imputabili al rigonfiamento dei protidi alimentari e al calore di soluzione dell'urea. Fatte queste sottrazioni, il valore calorico dei protidi veramente utilizzabile dall'organismo si riduce a 5,754 = (1,0945 + 0,1854 + 0,05) = 4,424 Cal per grammo, cioè a circa tre quarti del valore totale. Ma questo calcolo vale per i protidi puri: mentre, in realtà, quello che noi determiniamo negli alimenti è l'azoto, dal quale calcoliamo i protidi moltiplicando per il fattore 6,25. Ora, non tutto l'azoto è azoto proteico: negli alimenti sono contenute piccole quantità di altre sostanze (sostanze estrattive) più ricche di azoto dei protidi e che hanno un calore di combustione minore. I protidi vegetali, inoltre, anche se puri, hanno un contenuto in azoto superiore al 16%, mentre hanno un contenuto energetico eguale a quello dei protidi animali, onde il fattore 6,25 è per essi troppo alto. Per queste ragioni e sulla base di esperienze eseguite su cani, il Rubner adottò il valore medio di 4,24 Cal per i protidi animali e di 3,96 per quelli vegetali. E, ammesso che nella dieta mista ordinaria i protidi animali rappresentino il 60% e quelli vegetali il 40% del totale, adottò il valore definitivo di 4, 1 Cal.
Per i lipidi adottò la media del calore di combustione dell'olio di olive, del burro e del grasso animale, media corrispondente a 9,3 Cal; e per i glucidi, tenuto conto che essi vengono introdotti soprattutto sotto forma di amido, adottò il valore di 4, 1 Cal.
I valori medî del calore di combustione nell'organismo degli alimenti semplici proposti dal Rubner (coefficienti calorifici di Rubner) sono, dunque, i seguenti:
Per verificare se con l'ausilio di detti coefficienti si potesse calcolare con sufficiente esattezza l'apporto di energia chimica nell'organismo, lo stesso Rubner determinò (1894) nei cani, simultaneamente, la produzione di calore per mezzo del calorimetro e il ricambio materiale; applicando i coefficienti calorici alle sostanze metabolizzate, calcolò quindi la produzione di calore che doveva essere avvenuta negli animali, e trovò che la differenza media tra la produzione di calore calcolata e quella misurata direttamente per mezzo del calorimetro fu, in otto serie di ricerche eseguite in 46 giorni, soltanto del 0,30%.
È tuttavia da notare che i valori proposti dal Rubner, mentre rappresentano per i protidi calorie nette, vale a dire calorie effettivamente a disposizione dell'organismo (calorie totali, meno quelle non assorbite o delle feci e meno quelle non utilizzate o dell'urina), rappresentano per glucidi e lipidi calorie lorde, perché, se si può ammettere che l'organismo utilizzi le calorie di queste sostanze al 100% (in realtà l'utilizzazione non è mai completa), non si può ammettere che esse vengano assorbite completamente dal tubo digerente. L'esperienza dimostra, infatti, che circa il 2% dei glucidi e il 7% dei lipidi alimentari va perduto con le feci: i coefficienti calorici di questi alimenti vanno perciò corretti a 4 e a 8,65.
A risultati non molto diversi è giunto l'Atwater con ricerche sull'uomo. Egli, anzitutto, ha stabilito così il valore calorico dei protidi, quando questi vengano calcolati dall'azoto degli alimenti:
Tenendo conto che l'introduzione delle proteine con gli erbaggi e con le frutta è, di regola, trascurabile, si può ammettere un valore calorico di 5,65. Il calore di combustione dell'urina umana corrisponde in media a 7,9 Cal per g. di azoto. Riferendo questo calore esclusivamente all'incompleta ossidazione dei protidi, la perdita di calore per g. di protidi assorbito è di
Il valore calorico dei protidi si riduce perciò a Cal 4,4 per g. assorbito
Per i lipidi e per i glucidi si può supporre, senza commettere errore degno di nota, che essi vengano completamente ossidati nell'organismo e quindi attribuire ai primi un valore di 9,4 Cal, e ai secondi, tenuto conto che essi vengono introdotti soprattutto sotto forma di amido, di 4, 1 Cal per grammo di sostanza assorbita.
In conclusione si possono adottare i seguenti valori (coefficienti calorici dei principî alimentari assorbiti):
Per conoscere la quantità di calorie che gli alimenti ingeriti sviluppano nel nostro organismo, bisogna tener conto anche delle perdite intestinali. L'assorbimento degli alimenti, come s'è detto, non è completo, e quello che più importa, è diverso secondo l'origine degli alimenti. Con numerose ricerche sull'uomo, l'Atwater stabilì i seguenti coefficienti d'assorbimento:
Prendendo nel calcolo questi coefficienti, si ottengono i seguenti valori, che indicano le calorie che 1 grammo di ciascun principio alimentare ingerito sviluppa nel nostro organismo (coefficienti calorici dei principî alimentari ingeriti):
Applicando questi coefficienti ai principî alimentari contenuti negli alimenti ingeriti, senza nessun'altra correzione, si ottiene l'energia potenziale effettivamente a disposizione dell'organismo (calorie nette). Gli alimenti ingeriti corrispondono agli alimenti acquistati al mercato meno le perdite di cucina (parte non commestibile degli alimenti) e, se si vuole, meno le perdite di mensa. Ma queste, di regola, quando cioè si ha appetito e le vivande sono ben preparate e servite in giusta misura, sono trascurabili.
L'Atwater, per le diete del popolo americano, in cui i cibi animali sono largamente rappresentati (60% circa), adottò in definitiva i seguenti coefficienti: protidi 4, lipidi 8,75, glucidi 4 Cal per grammo.
E in 11 ricerche da lui eseguite insieme con F. G. Benedict e R. D. Milner in uomini tenuti a regime misto, ricerche che durarono complessivamente 24 giorni, e in cui non solo furono analizzate le razioni alimentari, ma fu anche determinato direttamente il valore calorico della razione, delle feci e dell'urina, nonché, per mezzo della camera calorimetrica, la produzione di calore degl'individui in esame, la massima differenza tra la produzione di calore calcolata con i coefficienti suddetti e quella determinata al calorimetro fu + 3,6 e rispettivamente − 3,3, in media ± 1,7% (R. Tigerstedt). Ma in ricerche eseguite in Italia, specie nelle classi popolari, in cui limitato è il consumo dei cibi animali, e considerevole quello dei cereali e legumi secchi, è consigliabile applicare a ciascun principio alimentare il coefficiente che gli compete secondo la sua origine.
A parte questa considerazione, i risultati dei fisiologi americani dimostrano come sia possibile, mediante l'uso dei coefficienti calorici dei principî alimentari, calcolare con sufficiente esattezza la produzione di energia nell'organismo, senza bisogno di misurare direttamente nel calorimetro né la produzione di calore del soggetto, né il valore calorico degli alimenti, utilizzando esclusimmente i dati del ricambio materiale (bilancio dell'N e del C).
Ecco, p. es., come dalla ricerca di ricambio materiale riferita a p. 208 si può calcolare la produzione di energia e il bilancio energetico dell'individuo preso in esame:
I coefficienti utilizzati in questo calcolo sono 4,4; 9,4 e 4,1, perché applicati al materiale assorbito. Se le perdite fecali non fossero state determinate, e avessimo, perciò, dovuto fare il calcolo sugli alimenti ingeriti, avremmo assunto i coefficienti 4; 8,75 e 4 e avremmo trovato 2259 calorie nette, invece di 2307. La differenza di 48 calorie, corrisnondente al 2% circa, non è grande; ma sarebbe stata verosimilmente anche minore, se, conoscendo la natura degli alimenti naturali ingeriti, avessimo potuto applicare ai principî alimentari in essi contenuti coefficienti calorici più precisi.
Ma il bilancio dell'azoto e del carbonio (v. sopra) dimostra che durante la ricerca l'individuo bruciò 12,5 g. delle proteine corporee con una produzione di 12,5 × 4,4 = 55 Cal, e trattenne nel suo organismo g. 24,2 di lipidi con un contenuto in energia chimica pari a 24,2 × 9,4 = 227 Cal. Complessivamente, dunque, egli guadagnò 227 − 55 = 172 Cal.
Il bilancio è dunque il seguente: energia chimica effettivamente a disposizione dell'organismo 2362 Cal; energia chimica trattenuta dall'organismo sotto forma di lipidi, 227 Cal; energia chimica trasformata in energia cinetica 2135 Cal.
Questo metodo di calcolare è valido anche se l'individuo, durante la ricerca, compie un lavoro meccanico.
Nelle ricerche su grandi collettività o anche in ricerche di lunga durata su singoli individui adulti e a peso costante, le variazioni delle riserve dell'organismo si trascurano, potendosi considerare come compensate, e il calcolo del ricambio energetico si fa esclusivamente dalla conoscenza degli alimenti ingeriti, facendo uso delle tabelle che indicano la composizione chimica di ciascun alimento e dei coefficienti calorici dei principî alimentari sopra ricordati.
2. Il coefficiente calorico dell'ossigeno (termochimica respiratoria). - Il calcolo dell'energia prodotta dall'organismo si può fare anche dalla conoscenza del consumo di O2 e della produzione di Co2, e, sebbene con minore precisione, anche dalla semplice conoscenza del consumo di O2.
Il calcolo si fonda sulla conoscenza del valore calorico dell'ossigeno (O2 − Cal), delle calorie cioè che 1 litro di ossigeno produce, secondo Che viene impiegato a ossidare glucidi, lipidi o protidi, e del rapporto tra il volume di CO2 prodotto e quello di O2 assorbito (quoziente respiratorio, Q. R.).
Questi valori possono essere calcolati facilmente per i glucidi e i lipidi dalle rispettive reazioni di ossidazione:
Nel caso dei glucidi si ha:
Nel caso dei lipidi, considerando, per esempio, la oleilpalmitilstearina, si ha:
Più difficile è il calcolo per i protidi, perché la loro combustione nell'organismo non è completa. Il calcolo eseguito da A. Loewy, che noi adottiamo, è il seguente:
Per ossidare 41,5 g. di C occorrono g. 110,7 di O2; per ossidare 3,439 g. di H ne occorrono g. 27,512 con un totale di g. 138,212 = litri 96,75.
Poiché di 100 g. di proteine vengono assorbiti
e 1 g. di proteine libera nell'organismo 4,424 Cal, si ha:
Dall'ossidazione di 41,5 g. di C si formano 152, 17 g. di CO2 = litri 77,51:
Supponiamo dapprima di aver determinato soltanto il consumo di ossigeno. Se si tratta di un'esperienza di lunga durata (12-24 ore) su un soggetto che non abbia eseguito un lavoro intenso e sia normalmente alimentato (100 g. di protidi, 500 di glucidi e 70 di lipidi), poiché le calorie prodotte derivano in tal caso per il 66% dai glucidi, per il 21% dai lipidi e per 13% dai protidi, il valore calorico dell'O2 è:
Questo valore concorda benissimo con quello (4,897) che si ricava dalle esperienze eseguite da Atwater su l'uomo adulto a riposo con una dieta mista corrispondente a un'energia media di 2250 calorie.
Ma se si tratta di esperienze di breve durata (10-15 minuti, per esempio), il calcolo è più difficile, perché il materiale che si ossida in un dato momento dipende, non solo dalla razione alimentare, ma anche dalle riserve dell'organismo. Se, come di regola si pratica nelle ricerche di breve durata, la misura del consumo dell'ossigeno è fatta nel soggetto a riposo e a 12-24 ore dall'ultimo pasto, ammesso che il 15% circa delle calorie derivi dai protidi, il resto deriverà dai glucidi e dai lipidi. Nel primo caso il valore calorico dell'ossigeno sarà:
nel secondo caso:
Onde, senza commettere grave errore, possiamo assumere il valore medio di 4,8.
Supponiamo, invece, di aver determinato anche la produzione di CO2 Ammesso, come sopra, che il 1500 delle calorie derivi dai protidi, il Q. R. permette di calcolare la percentuale di glucidi e lipidi ossidati e quindi il valore calorico dell'ossigeno.
Infatti, essendo il Q. R. di 0,97 o di o,72, secondo che l'85% delle calorie di origine non proteica deriva dai glucidi o dai lipidi, si ha:
e per Q. R. = x,
Quello che c'è di arbitrario in questo calcolo è l'ammissione che il 15% di calorie derivi dai protidi. Si è pensato, perciò, di calcolare la quantità di protidi ossidati nel periodo della ricerca dall'azoto eliminato in detto periodo con l'urina. Conoscendo allora la quantità di protidi ossidati, è facile calcolare la quantità di O2 e di CO2 implicati nella sua ossidazione. Detraendo tali quantità da quelle direttamente misurate si calcola il Q.R. non proteico, e da questo il valore calorico dell'O2 nel seguente modo:
per Q. R. = x,
Ma se si pensa che l'escrezione azotata è sempre in ritardo sul metabolismo, risulta chiaro, che, soprattutto nelle ricerche di breve durata, questo metodo, che pure importa un calcolo laborioso, non rappresenta un reale vantaggio sul precedente.
La produzione di energia negli organismi. -1. Produzione basale di calore. - La grandezza del ricambio materiale ed energetico che avviene tra gli organismi e l'ambiente in cui vivono dipende da fattori interni ed esterni. I fattori interni sono rappresentati, innanzi tutto, dal metabolismo fondamentale proprio delle cellule, vale a dire dall'incessante trasformazione di materia e di energia che costituisce la proprietà fondamentale e più caratteristica della sostanza vivente. Queste trasformazioni possono ridursi al minimo, quando le cellule non compiono alcun lavoro, ma non si arrestano che con la morte. Altro fattore interno è la funzione incessante di certi organi e apparati (apparato circolatorio e respiratorio, rene e altre ghiandole), indispensabile alla vita delle cellule nei Metazoi. I fattori esterni più importanti sono l'alimentazione, il lavoro muscolare, e, negli omeotermi, la produzione di calore. Scartata l'influenza dei fattori esterni, mantenendo l'individuo a digiuno, in perfetto riposo, e a una temperatura corrispondente alla neutralità termica, la produzione di calore si riduce a un valore minimo, praticamente costante per ogni individuo.
Per neutralità termica s'intende quella temperatura ambiente alla quale v'è perfetta equivalenza tra la quantità di calore che l'organismo a riposo produce, per effetto del metabolismo fondamentale delle sue cellule, e la dispersione di esso nell'ambiente, così che la temperatura del corpo si mantiene costante, senza che l'organismo abbia alcuna sensazione di caldo o di freddo e senza che entrino in funzione i meccanismi di regolazione della dispersione. Una tale temperatura non può essere stabilita teoricamente, ma corrisponde praticamente a quella alla quale la produzione di calore è minima. Per un individuo a letto, in perfetto riposo e ben coperto, essa corrisponde a 18° circa.
La produzione minima di calore, che esprime il minimo necessario delle trasformazioni materiali ed energetiche per la vita dell'organismo considerato, si dice produzione basale di calore o metabolismo basale.
Il metabolismo basale dell'uomo si determina misurando per 10-20 minuti gli scambî respiratorî del soggetto in perfetto riposo a letto (ma sveglio; durante il sonno il metabolismo basale diminuisce del 5-10%), digiuno da 12-14 ore, in un ambiente alla temperatura media di 18°, coperto in modo da non dover reagire né contro il freddo né contro il caldo dell'ambiente. Dalla grandezza degli scambî respiratorî si calcola, nel modo innanzi illustrato, la produzione di calore, e questa viene espressa col numero delle calorie prodotte per ora e per kg. di peso corporeo, o, più frequentemente, per ora e per metro quadrato di superficie del corpo. Circa il 25% delle calorie così determinate deriva (secondo A. Krogh) dall'attività degli organi sopra ricordati, il resto si considera come espressione del metabolismo di riposo delle cellule.
S'è detto che il metabolismo basale si esprime col numero delle calorie prodotte in 1 ora (o in 24 ore) per kg. di peso corporeo o per metro quadrato di superficie. Ora è stato sperimentalmente trovato che i valori sono più uniformi se vengono riferiti all'unità di superficie, invece che all'unità di peso, e ciò non solo per individui della stessa specie e della stessa età, ma anche, se pure in misura molto minore, per individui di specie diversa. Così, p. es., M. Rubner trovò che la produzione di calore pro die in 7 cani adulti di peso variante da 3 a 30 kg., riferita al kg. andava regolarmente diminuendo da 64,8 a 36,7 Cal, mentre riferita al metro quadrato oscillava tra 1097 e 1214. Questa e analoghe osservazioni portarono a riconoscere che "l'intensità del metabolismo di animali di varia grandezza non è proporzionale alla massa del loro corpo, ma alla loro superficie". Si è preteso per un certo tempo di spiegare questa relazione applicando agli organismi viventi la legge del raffreddamento dei corpi solidi (la velocità del raffreddamento è proporzionale alla superficie), ma poiché essa è valida anche alla neutralità termica, in corrispondenza della quale la dispersione del calore dipende unicamente dalla quantità che se ne produce, è evidente che deve dipendere da altri fattori, in qualche modo proporzionali alla superficie del corpo. Secondo la maggioranza degli autori, la massa attiva del protoplasma determina l'intensità del metabolismo. Comunque sia, è certo che la superficie corporea offre una base più precisa che il peso per confrontare tra loro il metabolismo d'individui diversi. Per calcolare la superficie del corpo umano vale la seguente formula, ottenuta da D. e E.F. Du Bois con lunghe e pazienti ricerche sperimentali:
in cui S indica la superficie in cmq., P il peso in kg. e A l'altezza in cm. Per evitare il calcolo, sono state preparate delle tabelle e diversi diagrammi (v. alimentazione). Per calcolare la superficie del corpo nei bambini la formula di Du Bois non dà risultati molto soddisfacenti; si adopera perciò la formula di Meeh:
in cui K è una costante, il cui valore varia da 10 a 11,5, secondo l'età e il sesso del bambino.
Come s'è detto, il metabolismo basale è praticamente costante per ogni individuo. Ciò è vero soprattutto per quel periodo della vita, in cui, terminato lo sviluppo, non si sono ancora iniziati i fenomeni dell'invecchiamento. Autori che hanno seguito per diversi anni il metabolismo basale di soggetti sani tra 30 e 40 anni, che non avevano modificato profondamente il loro tenore di vita, hanno constatato variazioni che raramente sorpassavano il 10%. Più interessante è il fatto che il metabolismo basale è praticamente lo stesso in tutti gl'individui sani paragonabili fra di loro per età e per sesso. Secondo le ricerche eseguite soprattutto in America da E.F. Du Bois, i valori normali del metabolismo basale fra i 5 e gli 80 anni sarebbero i seguenti:
Per un uomo medio tra 20 e 40 anni del peso di 68 kg. e alto m. 1,83, essendo la superficie di mq. 1,80, si ha una produzione di (40 × 1,8) : 68 = 1,089 Cal per kg. e per ora, pari a 72 Cal per ora e a 1728 pro die. E per una donna della stessa età, con un peso di 56 kg. e un'altezza di m. 1,60, la superficie essendo di 1,58 mq., si ha una produzione di (36,4 × 1,58): 56 = 1,027 Cal per kg. e per ora, pari a 57,5 Cal per ora e a 1380 pro die.
Nei bambini il metabolismo basale è meno stabile che negli adulti, riscontrandosi tra bambini della stessa età e sesso in buone condizioni di nutrizione differenze del 15%, o anche maggiori. Benché i dati riferiti dai diversi autori non siano molto concordi, si può dire tuttavia che il metabolismo basale è relativamente basso alla nascita e tale resta nei primi giorni di vita (da 20 a 30 Cal per mq.), poi aumenta progressivamente, raggiunge quello degli adulti verso il 6° mese e lo supera sensibilmente verso la fine del 12°. Resta fisso a questo valore massimo (56-52 Cal per mq.) per qualche tempo e poi comincia a declinare progressivamente.
Oltre l'età e il sesso, altri fattori influenzano il metabolismo basale. I più importanti sono:
1. La razza. - Esistono parecchie osservazioni che dimostrano la dipendenza del metabolismo basale dalla razza, indipendentemente dalle condizioni di vita. Così, per es., le donne orientali (cinesi e giapponesi), che vivono da anni in America, hanno un metabolismo del 10% inferiore a quello delle donne americane.
2. Il regime alimentare. - Il metabolismo basale si abbassa durante il digiuno e durante l'ipoalimentanzione cronica. Specialmente interessante a questo riguardo è l'osservazione di N. Zuntz e A. Loewy che constatarono su sé stessi, durante la guerra, un notevole abbassamento del metabolismo basale a causa delle restrizioni alimentari cui dovettero assoggettarsi. Anche nell'iperalimentazione, almeno in molti individui, si constata che il metabolismo basale si eleva progressivamente fino a un valore massimo. D'accordo con ciò, un metabolismo basale elevato si osserva di regola nei forti mangiatori.
3. L'allenamento muscolare. - Negli atleti si constata in generale un metabolismo superiore al normale (fino al 20%, secondo alcune osservazioni).
4. Il clima. - Secondo alcuni autori (O. de Almeida, ecc.) il metabolismo basale nei paesi tropicali è un po' più basso, sia negl'indigeni, sia negli stranieri acclimatati. Circa l'altitudine, C.G. Douglas, I.S. Haldane e Y. Anderson non hanno notato variazioni degne di nota in individui acclimatati a 4290 metri. Queste osservazioni sono d'accordo con i risultati delle esperienze eseguite sull'uomo nella camera pneumatica: né la diminuzione della pressione dell'aria sino a circa 400 mm., né l'aumento della pressione parziale dell'ossigeno dal 20 al 100% producono aumento nel consumo dell'ossigeno. Neanche la luce (e i raggi ultravioletti) pare abbiano influenza degna di nota sul metabolismo basale.
Stabilita la quantità minima di calore che l'organismo produce quando ogni forma di attività è ridotta al minimo possibile e i bisogni della termoregolazione praticamente annullati, esaminiamo come varia il suo ricambio energetico, quando egli esplica una normale attività, quando intervengono, cioè, quei fattori esteriori: alimentazione, lavoro meccanico, termoregolazione, che vengono con ogni cura esclusi nella determinazione del metabolismo basale.
2. Azione degli alimenti. - Quando a un individuo si somministra con gli alimenti un numero di calorie eguale a quello corrispondente al suo metabolismo basale, la produzione di calore aumenta. Un individuo che, p. es., abbia un metabolismo basale di 1600 Cal, ne produce 1800 non appena gli vengano somministrati alimenti con un contenuto energetico di 1600 Cal, anche quando egli mantenga il massimo riposo possibile. La causa di quest'azione degli alimenti, detta da M. Rubner azione dinamica specifica, fu attribuita in un primo momento al lavoro degli organi digerenti che segue all'introduzione dei cibi. Ma questa spiegazione, poco verosimile per la sproporzione tra l'aumento del metabolismo e il lavoro digestivo, dovette essere esclusa, dopo che fu dimostrato che l'aumento delle ossidazioni si verifica negli animali anche quando tale lavoro venga eliminato, introducendo direttamente nell'intestino o nel sangue i prodotti della digestione. Intanto è da notare che l'azione dinamica specifica delle proteine è molto maggiore di quella dei glucidi e questa maggiore di quella dei lipidi, che è, in generale, trascurabile nell'uomo.
In esperienze eseguite sull'uomo in condizioni di maggiore possibile riposo, si constatò un aumento del consumo di ossigeno del 10% circa dopo somministrazione di lipidi e glucidi, del 28% dopo somministrazione di carne. Poiché le proteine sono assorbite sotto forma di amminoacidi, sono questi o i loro prodotti di trasformazione che producono l'aumento delle ossidazioni. Che non siano gli amminoacidi direttamente risulta dal fatto che, quando essi vengano utilizzati per la formazione di nuovi tessuti, come accade dopo un lungo digiuno (ricerche di M. Rubner nei cani) o durante l'accrescimento (ricerche di B. R. Hoobler nei bambini), l'azione dinamica delle proteine è nulla. E neppure è l'energia potenziale degli amminoacidi la causa diretta dell'aumento delle ossidazioni, perché la glicocolla somministrata ad animali diabetici, che non la ossidano, ma la eliminano in forma di urea e glucosio con le urine, produce, tuttavia, eguale azione dinamica specifica che degli animali normali (E. Grafe, G. Lusk). Non resta, quindi, che ammettere con Lusk che i prodotti di trasformazione degli alimenti, e particolarmente degli amminoacidi, nell'organismo, posseggono la proprietà di esaltare i processi ossidativi nelle cellule. L'azione chimica stimolante si eserciterebbe direttamente sul protoplasma, senza intervento del sistema nervoso, perché l'azione dinamica specifica si manifesta anche negli animali curarizzati (F. Tangl). Le ricerche di questi ultimi anni (J. Abelin, G. Lami, U. Lombroso) dimostrano, tuttavia, che il sistema nervoso vegetativo esercita una certa influenza sul fenomeno.
3. Azione del lavoro muscolare. - Già dalle ricerche del Lavoisier sul ricambio respiratorio risultò che questo aumenta considerevolmente nel lavoro muscolare. Con ricerche sistematiche eseguite da numerosi autori e particolarmente da Zuntz e dalla sua scuola è stato determinata, nell'uomo e negli animali, la quantità di energia che si richiede per varie forme di lavoro muscolare: cammino, ascensione, corsa, nuoto, ecc., e s'è visto che tale richiesta durante il lavoro può superare diverse volte quella del riposo. In un'esperienza dell'Atwater, in cui il soggetto, rinchiuso nella camera respiratoria, pedalò per 16 ore su una bicicletta stazionaria, elettricamente frenata, la quantità totale di energia trasformata nelle 24 ore corrispose a 9314 Cal: detratte 1600 Cal per la produzione basale di calore e 200 per l'azione dinamica specifica degli alimenti, restano 7514 calorie da riferirsi al lavoro muscolare.
Per un lavoro di breve durata la produzione di energia può essere notevolmente maggiore: 30 calorie per minuto (durante 30 secondi) in un soggetto esaminato da Zuntz: se si pensa che la produzione minima per un adulto corrisponde a circa 1 caloria, si vede che si tratta di un aumento veramente notevole. Questi esempî dimostrano le meravigliose capacità della macchina animale ad aumentare da un momento all'altro e in misura considerevole le sue combustioni.
Per la fisiologia del ricambio materiale, come per quella dei muscoli, è di somma importanza determinare ll rendintento del lavoro muscolare, stabilire cioè quanta parte dell'aumentato ricambio appare come effettivo lavoro esteriore.
La macchina animale non è una macchina termica, ma una macchina chimica: in quella l'energia potenziale del combustibile si trasforma in calore, una parte del quale viene trasformata in energia meccanica; in questa, l'energia potenziale in parte si degrada in calore, in parte viene direttamente trasformata in altre forme di energia: di superficie, elettrica, luminosa e particolarmente meccanica. Ma il problema del rendimento è lo stesso: quanta parte dell'energia potenziale appare come lavoro, quanta parte come calore.
Per misurare il rendimento del lavoro muscolare si determinano gli scambî gassosi di un individuo durante il riposo e durante l'esecuzione di un lavoro muscolare esattamente misurato. Sottraendo il consumo di O2 avvenuto durante il riposo (e rispettivamente la produzione di CO2) da quello avvenuto durante il lavoro, si calcola il ricambio respiratorio dipendente dal lavoro per sé stesso e quindi, in calorie, la produzione totale di energia. Questa, infine, viene riferita al lavoro eseguito e precisamente all'equivalente calorico di esso (unità di lavoro = chilogrammetro = 1/425 caloria). Dalle ricerche eseguite nel laboratorio dello Zuntz risulta che un uomo di 80 kg. per elevarsi verticalmente di m. 0,2728 ha un maggior consumo di O2 di litri 0,0045 per kg., pari a una produzione di energia di 0,0045 × 4,81 − 0,02164 Cal; per elevare 1 kg. di i m., cioè per il lavoro di 1 kgm., occorrono
calorie, corrispondenti a 0,00793 × 425 = 3,37 kg. m. Poiché di questi, uno solo compare come lavoro esteriore e gli altri come calore, il rendimento del lavoro muscolare nel cammino in salita è di
cioè del 30% circa.
Il rendimento del motore umano è, dunque, di molto superiore a quello delle comuni macchine termiche, che è di circa il 13%. Anche nelle ricerche innanzi ricordate, in cui il lavoro era eseguito pedalando su una bicicletta, il rendimento fu in media del 33%.
Nel lavoro eseguito con le estremità superiori il rendimento è sensibilmente minore. Per es., a 1 kgm. di lavoro eseguito girando una ruota corrisponde una produzione di energia di 0,1 Cal, pari a 4,25 kgm., un rendimento, dunque, del 23% (H. N. Heineman). Del resto il rendimento varia con l'esercizio: l'allenamento lo migliora sensibilmente, le posizioni incomode, il dolore, la stanchezza, gli stati patologici lo diminuiscono.
Anche i minimi movimenti muscolari producono evidentemente un aumento dei processi di combustione. Per evitare tale aumento, si esige il riposo a letto e la soppressione deliberata di ogni movimento e di ogni tensione muscolare (riposo intenzionale). Queste sono le condizioni che occorre, infatti, realizzare nella misura del metabolismo basale. Nell'uomo che non esegue un lavoro vero e proprio, ma che neppure stia in assoluto riposo, la produzione di energia, tenuto conto anche dell'azione dinamica specifica degli alimenti, è di circa il 25% superiore alla minima. Il che importa, per un giovane di 68 kg., una trasformazione totale di energia pari a circa 2100-2200 calorie, 31-32 calorie per chilogrammo.
Infatti, essendo il metabolismo basale di 72 calorie per ora (v. sopra), si può fare il seguente calcolo approssimativo:
Calcolando come eguale a 20% l'efficienza meccanica dei muscoli, il lavoro di kgm. (0,00235 Cal) esigerebbe una produzione di energia di
E poiché la produzione di energia di un uomo di 68 kg., a riposo e nutrito nel modo ordinario, è di 2200 Cal, la produzione totale di energia durante il lavoro ammonta a Cal 2200 + 0,012 L, in cui L esprime il lavoro eseguito in chilogrammetri.
Sarebbe facile determinare il bisogno di energia per ciascuna categoria di lavoratori, se conoscessimo il lavoro che suole essere eseguito nei diversi mestieri e professioni. Purtroppo, lo studio di questo problema di suprema importanza scientifica e sociale, è straordinariamente difficile, onde scarso è il numero delle ricerche eseguite a tale intento. Valendosi un po' dei risultati di tali ricerche un po' dell'esame delle razioni alimentari liberamente scelte, diversi autori hanno calcolato il bisogno di energia in varie categorie di lavoratori.
Riferito a individui sani e adulti e a una giornata di 8 ore di lavoro, tale bisogno è approssimativamente il seguente:
lavoro lieve (intellettuale, scrivano, sarto, rilegatore di libri, ecc.) da 2500 a 3000 calorie;
lavoro mediocre (calzolaio, meccanico, falegname, soldato in guarnigione, ecc.) da 3000 a 3500;
lavoro gravoso (soldato in campo, facchino, mietitore, segatore di legna, spaccapietre, ecc.) da 3500 a 5500.
(Per altri dati al riguardo, v. alimentazione).
L'energia che durante il lavoro muscolare si trasforma in lavoro e in calore deriva dall'energia chimica accumulata nell'organismo e in ultima analisi dagli alimenti. Non v'ha dubbio che tutti e tre gli alimenti organici: protidi, lipidi e glucidi sono in grado di fornirla. In un'esperienza di J. Frentzel, un cane mantenuto a digiuno compie in tre giorni un lavoro di 217.000 kgm ed elimina in media 5,54 g. di N pro die, mentre ne eliminava 3,85 nei giorni di riposo. Durante il lavoro si è, dunque, verificato un aumento nell'ossidazione dei protidi, ma il calcolo dimostra che tale aumento poteva produrre appena un terzo del lavoro effettivamente prodotto. Gli altri due terzi devono essere derivati dal glicogeno e dai lipidi. E poiché nell'animale a digiuno la riserva di glicogeno è molto diminuita, la maggior parte dell'energia deve essere derivata dai lipidi. D'altra parte in animali (e nell'uomo) normalmente alimentati, il lavoro muscolare non produce aumento sensibile nell'escrezione dell'azoto, il che dimostra che in condizioni normali l'energia per esso occorrente non deriva dalle proteine. Così, p. es., in una esperienza di M. Pettenkofer e C. Voit, un uomo, che compiva per 9 ore al giorno un lavoro faticoso, eliminò in 5 giorni di lavoro 15,06 g. di N pro die, mentre in tre giorni di riposo ne eliminò 15,30 in media.
Si può, dunque, concludere che in condizioni normali di nutrizione e di alimentazione l'energia per il lavoro muscolare deriva dal glicogeno e dai lipidi. Secondo l'opinione di molti autori, per il lavoro muscolare sarebbero utilizzati innanzi tutto i glucidi, e solo dopo l'esaurimento di questi, i lipidi, i quali, inoltre, dovrebbero dapprima essere trasformati in glucidi. In questa trasformazione una parte notevole dell'energia potenziale dei lipidi (circa il 29% secondo un calcolo teorico dello Zuntz) andrebbe perduta. Bisogna, peraltro, convenire che non esistono prove convincenti della necessità di tale trasformazione.
4. Azione del lavoro intellettuale. - Il lavoro intellettuale non esercita alcun'azione diretta sulla produzione di energia. In esperienze eseguite dall'Atwater la produzione d'energia raggiunse durante tre giorni una media quotidiana di 2695 Cal durante il riposo intellettuale, e di 2620 Cal durante un lavoro intellettuale intenso. E Benedict e Carpenter hanno trovato una produzione di 1,62 Cal per kg. e per ora durante il riposo, di 1,63 durante il lavoro intellettuale. Tuttavia il lavoro intellettuale può esercitare una certa influenza sul ricambio, in quanto i fattori psichici possono, in diversi modi, produrre una maggiore attività dei muscoli.
5. Azione della temperatura ambiente. - Negli animali omeotermi il ricambio materiale ed energetico aumenta quando la temperatura si abbassa oltre a quella corrispondente alla neutralità termica. In un cane, p. es., per un abbassamento della temperatura ambiente da 27° a 12° la produzione di calore variò da 30,8 a 40,6 Cal per kg. e per ora: Questo aumento delle ossidazioni non si verifica più quando è soppressa l'influenza del sistema nervoso sui muscoli (mediante la sezione, in alto, del midollo spinale, o mediante il curaro). È lecito, quindi, ammettere che l'aumento delle ossidazioni provocate dal freddo dipenda da attività muscolare eccitata dal sistema nervoso. La questione è di sapere se per attività muscolare si debba intendere l'esecuzione di movimenti visibili (brividi, tremori) o altro. Secondo alcuni autori (A. Loewy, J.E. Johansson, L. Sjöström) i processi di ossidazione nell'uomo aumentano solo quando si verificano tremori e aumenti della tensione muscolare; secondo altri (C. Voit, M. Rubner, ecc.), invece, l'aumento si verificherebbe indipendentemente da ogni movimento, perché il freddo ecciterebbe, in via riflessa, il metabolismo delle cellule muscolari. È da notare che, quando si somministra con gli alimenti una quantità abbastanza grande di proteine, i processi ossidativi non aumentano per azione del freddo, perché la maggiore produzione di calore da esse determinata (azione dinamica specifica) è sufficiente a coprire i bisogni dell'organismo.
Anche a temperatura alta, superiore a quella corrispondente alla neutralità termica, si ha aumento delle ossidazioni, a causa del riscaldamento delle cellule per l'insufficiente dispersione di calore, ciò che dimostra che anche negli omeotermi la velocità dei processi ossidativi cresce con l'aumentare della temperatura.
6. Azione delle ghiandole endocrine. - Fra le ghiandole endocrine la tiroide è quella che esercita la massima influenza sul metabolismo basale, il suo increto avendo un'azione fortemente eccitatrice dei processi ossidativi. La determinazione del metabolismo basale ha acquistato, perciò, grande importanza nella clinica, non solo per la diagnosi di alterazioni funzionali della tiroide, ma anche e soprattutto per apprezzare e regolare l'azione dell'opoterapia tiroidea o della terapia iodica. Anche l'ipofisi (lobo anteriore) esercita una influenza sul metabolismo, come dimostra il fatto che nell'acromegalia (sindrome dovuta a iperfunzione dell'ipofisi) il metabolismo basale aumenta sino al 30%, mentre diminuisce di regola nell'infantilismo ipofisario e in generale in tutte le sindromi da ipofunzione ghiandolare. È da notare, però, che la preipofisi elabora un ormone tireotropo, che eccita la funzione della tiroide, e non è quindi agevole distinguere se la sua azione sui processi ossidativi è diretta o indiretta.
Attraverso la tiroide pare agiscano le gonadi, come dimostra il fatto che, mentre la castrazione abbassa il metabolismo e gli estratti o il trapianto delle gonadi lo innalzano negli animali castrati, nessuna influenza esercita la castrazione e gli estratti negli animali tiroidectomizzati. Meno importante e generale è l'azione delle altre ghiandole endocrine (surrene, pancreas, ecc.).
Il ricambio durante il digiuno e durante la somministrazione degli alimenti. -1. Il ricambio durante il digiuno. - Durante il digiuno gli organismi ottengono l'energia necessaria per la vita dall'ossidazione, dapprima delle riserve accumulate nel corpo e poi dall'ossidazione dei proprî tessuti. La sopravvivenza varia secondo lo stato di nutrizione all'inizio del digiuno, secondo le condizioni ambientali e, soprattutto, secondo che venga o meno somministrata acqua, gli animali resistendo pochissimo al digiuno, quando questo venga esteso anche all'acqua. Nelle esperienze di digiuno che qui vengono riferite, i soggetti in esperimento ricevevano acqua a volontà.
L'esperienza più lunga di digiuno eseguita sugli animali è quella riferita da P.B. Hawk: un cane fu mantenuto a digiuno per 117 giorni: pesava all'inizio 26,3, alla fine 9,76 kg., subendo così ma perdita di peso del 59%. In pochi mesi si rimise completamente. La più lunga ricerca sull'uomo fu quella studiata da L. Luciani sul digiunatore professionale Succi, che durò 30 giorni con una perdita del peso corporeo del 25%. Ma la ricerca più completa è quella eseguita dal Benedict su un giovane uomo per mezzo della camera calorimetrica di Atwater. In questa ricerca, che durò 10 giorni (7 giorni di digiuno e 3 giorni di rialimentazione), fu determinato il ricambio materiale e la produzione di calore. In questo modo fu possibile stabilire la perdita in C, H, O ed N e calcolare la perdita di protidi, lipidi e glucidi subita dall'organismo, nonché la quantità di calore prodotta dalla loro ossidazione e confrontarla con quella direttamente determinata. Il risultato di questa ricerca è riepilogato nella tabella in basso.
Come si vede, il ricambio durante i primi 4 giorni di digiuno si mantenne press'a poco costante e fu solo di poco inferiore a quello che si verificava durante l'alimentazione, poi diminuì piuttosto rapidamente; tuttavia al 7° giorno di digiuno fu appena del 7% minore che al 1° giorno (nel soggetto in esame la produzione di calore dopo 3 giorni di rialimentazione ammontava a 31 Cal per kg.). L'organismo messo a digiuno ricava, dunque, dai suoi tessuti (depositi) una quantità di energia press'a poco eguale a quella che ricavava dagli alimenti. Ma la tabella dimostra anche che l'organismo digiunante ricava la massima parte dell'energia dall'ossidazione dei lipidi: nei 7 giorni di digiuno, complessivamente considerati, circa l'80%, mentre il 14% lo ricava dai protidi e solo il 60% dai glucidi. Da notare anche il comportamento opposto dei glucidi e dei lipidi: l'ossidazione dei primi diminuisce, quella dei secondi aumenta criticamente già al 2° giorno di digiuno, il che dipende dal fatto che le riserve dei glucidi (glicogeno) sono scarse in confronto di quelle dei grassi, per cui già nel primo giorno di digiuno subiscono una notevole riduzione.
Per ciò che riguarda il consumo dei protidi, questo di regola diminuisce poco e lentamente, per stabilizzarsi, infine, intorno a un valore di circa 1 g. (g. o, 16 di N nell'urina) per kg. di peso corporeo e pro die. Nel digiuno prolungato l'eliminazione di N si riduce di molto: sembra che il minimo si aggiri intorno a 3 g. di N pro die. Il consumo dei primi giorni dipende, per altro, notevolmente da due fattori: 1. dalla quantità di proteine ingerite nel periodo immediatamente precedente il digiuno, essendo tanto più elevato quanto maggiore fu tale ingestione; 2. dalla ricchezza delle riserve lipidiche, la partecipazione dei protidi alla produzione di energia essendo nei primi giorni di digiuno minore negli individui grassi che nei magri.
Il quoziente respiratorio nel digiuno è molto basso, il che è d'accordo col fatto che l'organismo ossida prevalentemente lipidi. Ma non di rado esso scende al disotto di 0,7, il che dipende, innanzi tutto, da ciò che, specialmente nell'uomo, durante il digiuno si ha una notevole eliminazione di carbonio nell'urina sotto forma di corpi acetonici, ciò che porta a una diminuzione dell'anidride carbonica eliminata attraverso i polmoni e quindi a un abbassamento del quoziente respiratorio. Alcuni autori ammettono anche una trasformazione dei protidi (e dei lipidi) in glicogeno, che si accumulerebbe nei muscoli, trasformazioni che richiedono una fissazione di ossigeno nell'organismo; si ricorda che, mentre i glucidi contengono il 49% di ossigeno, le proteine ne contengono 22 e i lipidi 12,1. Se nei primi giorni di digiuno l'organismo ossida soprattutto le riserve accumulate durante il periodo di alimentazione, in seguito attinge sempre più largamente ai tessuti viventi, tuttavia i varî organi perdono tanto meno della loro sostanza costitutiva, quanto più importante per il mantenimento della vita è la funzione che essi compiono. Per questa ragione il cuore e il sistema nervoso conservano quasi intatto il loro peso, lavorando, evidentemente, a spese di sostanze cedute dagli organi la cui funzione è meno importante (v. digiuno).
2. Il ricambio durante la somministrazione degli alimenti. - Gli alimenti naturali contengono in varia proporzione, oltre ad acqua, sostanze minerali, vitamine, protidi, lipidi e glucidi. Circa l'importanza dell'acqua, v. acqua. Delle sostanze minerali basterà ricordare che gli animali ne eliminano continuamente con le urine, con le feci, con il sudore anche durante il digiuno, onde la necessità che queste perdite vengano continuamente riparate. Animali, infatti, che ricevono una dieta soddisfacente per quanto si riferisce ai costituenti organici (comprese le vitamine) e all'acqua, ma priva di sostanze minerali, presentano dopo pochi giorni disturbi gravissimi della nutrizione, che producono la morte in un periodo di tempo press'a poco eguale a quello in cui si produce la morte per digiuno assoluto. Per le vitamine, v. questa voce.
a) Il ricambio durante la somministrazione di protidi. - Se si dà a un cane una quantità sufficientemente grande di protidi (carne sgrassata), l'animale può raggiungere l'equilibrio del bilancio materiale e vivere in buone condizioni, malgrado l'assenza di lipidi e di glucidi negli alimenti. Ma se l'animale non riceve protidi, ma solo glucidi e lipidi, sia pure in quantità grandissima, l'equilibrio del bilancio non si raggiunge mai, perché continuamente si distruggono proteine del corpo, e l'animale muore dopo un intervallo di tempo che è sempre più lungo di quello nel quale sarebbe morto se fosse rimasto a digiuno completo. Quello che s'è detto per il cane vale, in linea teorica, per tutti gli animali e quindi anche per l'uomo, sebbene questi, a lungo andare, difficilmente potrebbe digerire e assorbire tante proteine quante sarebbero necessarie per il mantenimento dell'organismo.
Questa posizione speciale dei protidi si spiega facilmente, se si pensa che essi rappresentano costituenti cellulari che l'organismo animale è incapace di fabbricare. Il bisogno di essi durante l'accrescimento è, perciò, intuitivo, ma anche per l'adulto è facile a comprendere, se si pensa che la distruzione dei protidi del corpo non cessa mai. neppure nel digiuno e nel riposo assoluto. Anche i glucidi e i lipidi sono costituenti cellulari, ma l'organismo animale può formarli dai protidi.
I protidi hanno fra gli alimenti organici una posizione speciale anche per un'altra ragione, e cioè che l'organismo li distrugge quale che sia la quantità che ne riceve. Un uomo, p. es., che introduce con gli alimenti 8 g. di azoto (cioè 8 × 6,25 = 50 g. di protidi), ne elimina altrettanti con le urine e con le feci; esso si trova, dunque, in equilibrio di azoto. Se ora l'introduzione dei protidi aumenta da 50 a 200 g., immediatamente l'eliminazione dell'azoto aumenta e raggiunge in pochi giomi 32 g.
L'organismo tende, dunque, a realizzare l'equilibrio dell'azoto, quale che sia la quantità che ne riceve con gli alimenti, mantenendo la distruzione dei protidi al livello dell'ingestione. In altre parole, mentre è necessaria l'introduzione di un minimo di protidi per raggiungere l'equilibrio dell'azoto, questo si può stabilire a un livello variabilissimo, tanto più alto quanto maggiore è l'introduzione.
L'equilibrio, peraltro, sia che l'introduzione dei protidi aumenti, sia che diminuisca, non viene raggiunto immediatamente, come dimostra il seguente esempio, tratto dalle esperienze eseguite da C. Voit sul cane.
Quando l'introduzione dell'azoto aumenta, l'organismo lo immagazzina (sia sotto forma di amminoacidi, sia sotto forma di proteine); quando l'introduzione diminuisce, il materiale immagazzinato viene eliminato. Si noti, però, che l'immagazzinamento non può mai essere cospicuo, perché l'equilibrio tra introito ed esito si raggiunge in pochi giorni, specialmente se s'ingeriscono soltanto protidi. In quest'ultimo caso, poi, con l'aumentare dell'introduzione aumenta anche la produzione di calore.
Qual'è la quantità minima di protidi necessaria per raggiungere l'equilibrio dell'azoto? Si è già detto che nel digiuno assoluto non eccessivamente prolungato l'organismo distrugge circa 1 g. di protidi per kg. di peso pro die, ma occorre somministrarne una quantità almeno tre volte maggiore per raggiungere l'equilibrio dell'azoto (e si noti che in queste condizioni si raggiunge l'equilibrio dell'azoto senza raggiungere l'equilibrio del carbonio). Ma le cose cambiano, quando insieme con i protidi vengano somministrati anche gli altri alimenti organici, come sarà detto in seguito. Qui vogliamo soltanto notare che non tutti i protidi si equivalgono per ciò che riguarda la loro capacità di soddisfare i bisogni dell'organismo.
b) Il ricambio durante la somministrazione di lipidi. - Se a un animale a digiuno, che non abbia esaurite le riserve di grasso, si dà da mangiare tanto grasso quanto ne consuma del suo proprio corpo, il grasso introdotto viene assorbito e bruciato in sostituzione di quello dell'organismo, mentre l'eliminazione dell'azoto non si modifica. Se la quantità di grasso somministrata è maggiore di quella consumata nel digiuno, l'eccesso s'immagazzina nell'organismo senza produrre un aumento delle ossidazioni, o tutt'al più con un piccolo aumento (4-5%) dovuto all'azione dinamica specifica. L'introduzione di grassi, dunque, a differenza di quella delle proteine, non modifica sensibilmente la grandezza dei processi ossidativi dell'organismo. Ma se a un cane a digiuno si dà da mangiare del grasso insieme con piccole quantità di protidi, si osserva che una quantità di azoto eguale a quella eliminata nel digiuno è sufficiente a stabilire l'equilibrio dell'azoto, laddove ne occorrono 3 o 4 volte di più, se manca l'introduzione del grasso. Il grasso esercita, dunque, un'azione di risparmio sul consumo dei protidi.
c) Il ricambio durante la somministrazione di glucidi. - Se a un animale a digiuno si dànno da magiare dei glucidi, l'eliminazione dell'azoto si riduce e la produzione del calore aumenta poche ore dopo il pasto del 10-15%. A parte questo aumento, che si ricollega con l'azione dinamica specifica dei glucidi, bisogna sapere se sono i glucidi stessi oppure i lipidi a essere ossidati. Il fatto che il quoziente respiratorio si eleva dopo l'ingestione di glucidi, dimostra che questi sono ossidati appena assorbiti, sostituendo, almeno in parte, i lipidi nella produzione di energia. Ciò non significa, per altro, che i glucidi debbano essere completamente ossidati prima dei lipidi di deposito (o alimentari), ché anzi, come risulta dalle esperienze innanzi riferite del Benedict (v. sopra), l'organismo anche nel digiuno non ossida mai completamente il glicogeno depositato nel suo corpo. Per fare scomparire completamente o quasi il glicogeno dal corpo e particolarmente dai muscoli di un animale, non basta, infatti, tenerlo a digiuno, ma occorre fargli compiere un notevole lavoro muscolare e ucciderlo subito dopo. Si può, dunque, ammettere che i glucidi vengano bruciati prima dei lipidi negli animali che contengono una riserva normale di glicogeno nei loro tessuti, mentre negli altri casi essi vengono in parte immagazzinati nell'organismo in forma di glicogeno. In ogni caso è evidente che i glucidi preservano i grassi dall'ossidazione, venendo bruciati prima di questi.
Ma molto più importante è il fatto che durante la somministrazione di glucidi anche la distruzione dei protidi si riduce. In una esperienza di E. P. Cathcart, un uomo che al 7° giorno di digiuno eliminava 7,48 g. di azoto, ne eliminava solo 2,84 dopo 3 giorni d'ingestione di glucidi. E mentre per stabilire l'equilibrio dell'azoto in un individuo, è necessario somministrargli, insieme con i protidi, una quantità di azoto 3 o 4 volte superiore a quella che elimina nel digiuno, e con i protidi e lipidi insieme, una quantità eguale, è sufficiente una quantità minore quando i protidi vengono associati ai glucidi. Mediante la somministrazione di glucidi è possibile, come si vede, mantenere l'equilibrio dell'azoto a un livello più basso di quello corrispondente all'eliminazione dell'azoto nel digiuno.
Mentre a digiuno assoluto l'uomo elimina circa 10 g. di azoto (v. sopra), l'eliminazione può ridursi alla metà o anche meno mediante somministrazione di glucidi (V. O. Sivén, W. A. Thomas, R. H. Chittenden, ecc.). Quest'azione di risparmio delle proteine i glucidi l'esercitano anche se vengono somministrati insieme con i lipidi, purché il 10% delle calorie totali derivi dai glucidi. Appena si scende al disotto di tale percentuale, si ha un aumento dell'azoto e dei corpi acetonici nell'urina.
La quantità minima di azoto che si elimina, quando s'ingerisce una notevole quantità di glucidi (o di glucidi e lipidi insieme, nella proporzione di almeno1:4) è stata indicata da M. Rubner come quota di logorio.
Per soddisfare i bisogni nutritivi dell'uomo la razione alimentare non solo deve contenere l'energia potenziale corrispondente al lavoro che egli compie, e i tre principî organici nella proporzione approssimativa che abbiamo indicata, ma anche sostanze minerali e vitamine, e deve, inoltre, essere gradita al gusto.
Nella voce razione alimentare questi punti sono illustrati in modo speciale.
Bibl.: W. O. Atwater, Neue Versuche über Stoff- und Kraftwechsel im menschlichen Körper, in Ergebn. d. Physiol., 1904, p. 497; F. Bottazzi e G. Jappelli, Fisiologia dell'alimentazione, Milano 1911; F. Bottazzi, Alimentazione dell'uomo, Napoli 1919; E. Lambling, Précis de biochimie, Parigi 1925: G. Lusk, The element of the Science of Nutrition, Londra 1928; R. Tigerstedt, Trattato di fisiologia dell'uomo, Torino 1934.
Patologia del ricambio.
Le varie fasi e i varî atti del ricambio materiale possono essere singolarmente alterati, ma, per le condizioni di equilibrio che dominano le reazioni chimiche svolgentisi nell'organismo, è difficile che la modificazione di un determinato processo del ricambio non si ripercuota più o meno su tutto l'insieme. Pur tuttavia si possono partitamente descrivere alterazioni del ricambio dei singoli costituenti organici, così delle proteine, dei grassi, dei carboidrati, dell'acqua e dei costituenti minerali; tenendo presente che esistono interdipendenze complesse e ingranaggi molteplici e delicati. Esistono anche rare anomalie isolate, parziali, di ben definiti atti metabolici, o a carico di una sola e determinata sostanza, come quelle che vanno sotto il nome di alcaptonuria, cistinuria, pentosuria, ecc. (v. appresso).
Con o senza alterazioni del ricambio dei diversi gruppi di costituenti chimici dell'organismo si hanno modificazioni dell'intensità globale del ricambio, espresse dalle combustioni organiche, quali si possono determinare in base alla conoscenza degli scambî respiratorî. Sempre maggiore importanza assume infatti nella medicina moderna lo studio del cosiddetto metabolismo basale, cioè l'intensità metabolica (espressa dal consumo di ossigeno e dalla produzione di anidride carbonica), nell'organismo a digiuno, in condizioni di assoluto riposo e di temperatura ambiente tale da non importare alcun lavoro di regolazione calorica. Si studia poi anche con particolare rilievo l'influenza eccitatrice che l'alimentazione ha sopra i processi delle combustioni interne (azione dinamica specifica degli alimenti); l'influenza che hanno la fatica, le emozioni (E. Totten, ecc.); da tutti questi studî ricavandosi criterî diagnostici e perfino terapeutici. Così è, si può dire, sintomo patognomico degli stati d'ipertiroidismo (morbo di Basedow e affini) l'aumento del ritmo metabolico, espresso da un'elevazione notevole del metabolismo basale; mentre è proprio degli stati ipotiroidei il languire delle combustioni con abbassamento del metabolismo basale. Una resezione parziale della tiroide per morbo di Basedow potrà dirsi ben riuscita, se farà tornare il metabolismo in confini normali per l'età, sesso, costituzione del soggetto. Così pure è caratteristica di certe forme di obesità (E. Grafe), forse particolarmente delle forme di origine ipofisaria (R. Plaut), la scarsa azione dinamica specifica degli alimenti, come se questi soggetti non sapessero adattare la misura delle loro combustioni all'apporto alimentare e fossero perciò incapaci di rispondere con la caratteristica esaltazione metabolica allo stimolo rappresentato dagli alimenti, rispetto ai quali, quindi, sussisterebbe un abnorme attitudine risparmiatrice. Oggi la determinazione dell'intensità delle combustioni è semplice e rapida, grazie all'uso degli apparecchi di Krogh, Benedict, ecc.
Il ricambio è dominato in primo luogo dalla quantità e qualità degli alimenti: nell'inanizione completa, infatti, scomparendo tutto l'insieme di trasformazioni cui gli alimenti devono andare incontro nel ricambio intermedio, restano solo i fenomeni di demolizione dei costituenti cellulari (sostanza vivente e materiali di riserva); e allora tali fenomeni possono essere studiati allo stato puro, tanto che i fisiologi hanno sempre indagato con particolare interesse gli effetti del digiuno (v. inanizione). Quando gli alimenti sono assunti e la loro elaborazione oltre la parete del tubo digerente si sovrappone ai processi endogeni del ricambio, le influenze sono notevoli e diverse. Intanto ci si può porre la questione se un eccesso di alimenti oltre il fabbisogno conduca a un immagazzinamento di materiali di riserva oppure a un vero e proprio aumento della massa protoplasmatica. È accertato che di regola i carboidrati e i grassi in eccesso si depongono come glicogeno (nel fegato e nei muscoli) e come grasso di deposito o di riserva (nel tessuto adiposo), per essere utilizzati in momenti di bisogno; e che esistono anche depositi di proteine di riserva nel fegato e forse altrove, contrariamente a una più vecchia opinione. Un aumento di massa cellulare vivente per iperalimentazione invece non si ottiene, le cellule seguendo la cosiddetta legge di Pflüger, per la quale la costruzione di nuovo protoplasura è determinata dai bisogni funzionali e la cellula non assume senz'altro ciò che le viene offerto di materiali nutritivi, ma solo quello che le occorre per le sue prestazioni. Nei soggetti precedentemente denutriti e nei convalescenti avviene bensì una nuova apposizione di protoplasma vivo; ma solo fino al ripristino della normale massa corporea attiva, il di più finendo poi col passare nelle riserve.
Le alimentazioni insufficienti dal punto di vista semplicemente quantitativo o anche da quello qualitativo possono condurre a deviazioni del ricambio di svariata natura; così una deficienza d'idrati di carbonio nella razione può condurre a una formazione eccessiva di chetoacidi o corpi acetonici, con la conseguenza di un'autointossicazione acida, di una vera acidosi, perché solo in presenza di carboidrati il ricambio intermediario dei grassi e delle proteine batte vie normali, mentre in loro assenza o deficienza esso ristagna in parte a uno stadio che corrisponde alla formazione e accumulo di quei corpi a carattere acido. Una deficienza di grassi nella dieta d'altro lato produce un aumento dell'attitudine dei tessuti a fissare acqua; ne aumenta cioè l'idrofilia; onde la comparsa di edemi, come in certe forme di distrofie alimentari dei lattanti alimentati prevalentemente con farinacei e come nei cosiddetti edemi da inanizione, così diffusi negl'Imperi centrali durante il blocco dell'Intesa nella guerra mondiale. Probabilmente già in queste affezioni edematogene sono in giuoco deficienze di vitamine legate ai grassi; ma deficienze di fattori vitaminici diversi sono causa di altri disturbi metabolici, che si estrinsecano come quadri morbosi speciali. Oggi è accertato che, perché gli alimenti possano essere normalmente utilizzati, devono essere presenti nelle razioni i diversi fattori vitaminici: in loro assenza gli alimenti non sono fissati dalle cellule e insorgono stati distrofici, che taluno ha indicato come fame interna dei tessuti.
Anche i costituenti minerali della dieta hanno importanza nella regolazione del ricambio: così, per esempio, deve aversi per ogni specie animale un certo rapporto fra contenuto in calcio e contenuto in fosforo nella dieta, perché lo sviluppo dello scheletro prosegua normale nei giovani organismi; e uno squilibrio qualunque, con eccesso dell'uno o dell'altro elemento, conduce ad alterazioni del ricambio dello scheletro, estrinsecantisi con quadri più o meno simili al rachitismo.
Dopo i fattori alimentari possiamo ricordare alcuni fattori ambientali come particolarmente importanti per modificare il ricambio: così la temperatura esterna, le cui oscillazioni implicano una messa in giuoco dei meccanismi termoregolatori, dominati essenzialmente dal sistema nervoso vegetativo; e così certe forme di energia raggiante, in modo peculiare le radiazioni della zona ultravioletta dello spettro, che hanno sul metabolismo un'azione ingranata con quella di una vitamina, la calcio-fissatrice o antirachitica o vitamina D, rappresentata appunto da una modificazione di una sterina (ergosterina) sotto l'influenza delle radiazioni ultraviolette del sole.
Per la comprensione di svariati quadri morbosi ha importanza fondamentale la nozione della regolazione neuro-endocrina del ricambio: l'intensità del metabolismo globale e anche il modo e il ritmo del metabolismo di determinati costituenti organici sono regolati dal sistema nervoso vegetativo nelle sue due sezioni, simpatica e parasimpatica, e dal sistema endocrino. Una stessa sindrome morbosa può avere origine per lesione in punti diversi della catena neuro-endocrina regolatrice: per es., un aumento di zucchero (glucosio) nel sangue (iperglicemia) e pertanto un'eliminazione urinaria di zucchero (glicosuria) si possono avere per lesione dell'una o dell'altra ghiandola a secrezione interna, dominante il ricambio dello zucchero, o per lesione dei centri e vie nervose, che pure ingranano nei meccanismi di questo ricambio. Fra le ghiandole endocrine abbiamo il pancreas e forse le paratiroidi, i cui secreti specifici od ormoni, riversati nel sangue, attivano l'utilizzazione e il consumo dello zucchero, elevando la tolleranza dell'organismo per questo carboidrato; e abbiamo la tiroide, i surreni e l'ipofisi, i cui secreti hanno azione antagonista ai primi, rendono meno facile l'utilizzazione e l'immagazzinamento dello zucchero, ne favoriscono invece il passaggio dai depositi nel sangue e quindi ne determinano eventualmente l'eliminazione per le urine, ossia abbassano la tolleranza e capacità assimilativa dell'organismo rispetto a questo carboidrato. D'altra parte esistono centri nervosi, scaglionati a varia altezza nel nevrasse, i quali operano pure come regolatori del tasso glicemico, cioè del livello cui deve mantenersi lo zucchero nel sangue: oltre a un centro bulbare, la cui irritazione dà luogo a glicosuria, secondo la vecchia famosa esperienza di C. Bernard, esistono sicuramente centri superiori; e sembra che nell'ipotalamo (porzione ventrale del cervello intermedio) siano localizzati i centri supremi della regolazione del tasso di zucchero nel sangue, cioè di un'importantissima costante chimica di questo liquido organico. In realtà la patologia umana e sperimentale fanno conoscere disturbi di questa regolazione nel senso di un aumento (iperglicemia) o di una diminuzione (ipoglicemia) per lesioni endocrine e per lesioni nervose, nonché per lesioni complesse e miste (com'è facile comprendere, quando si tenga presente che anche fisiologicamente ci sono interdipendenze strette fra regolazione nervosa e umorale). Così uno stato di minorata funzione pancreatica conduce a iperglicemia; come vi conduce un'iperfunzione tiroidea o surrenale. E anche lesioni anatomiche varie della zona ipotalamica dell'encefalo o del bulbo conducono a iperglicemia.
Quello che è stato esposto in modo schematico per il ricambio dei carboidrati, si può riferire in gran parte al ricambio dei grassi e forse anche delle proteine; certamente poi vale pure per il ricambio idrico-minerale. Vi sono gruppi di ghiandole a secrezione interna attivanti la combustione e lo smaltimento del grasso (come la tiroide, l'ipofisi, forse le ghiandole genitali); e altre che facilitano con i loro secreti l'immagazzinamento del grasso (il pancreas e forse l'epifisi); d'altra parte vi sono centri nervosi, i supremi fra i quali nell'ipotalamo, che regolano il consumo e l'accumulo del grasso. Si capisce dunque come disturbi del metabolismo del grasso, nel senso di un aumento nei depositi adiposi (obesità) o nel senso opposto (magrezza patologica) si possano avere per lesioni di organi diversi: si hanno obesità di origine endocrina, come quella di origine tiroidea o ipofisaria, dovute a ipofunzione delle ghiandole relative; e obesità di origine nervosa, le quali in parte si confondono con quelle ipofisarie, perché i centri nervosi ipotalamici dominanti l'accumulo e la distribuzione del grasso sono anatomicamente prossimi all'ipofisi e perciò offrono netta, o lasciano supporre, una loro lesione nelle affezioni (tumori, infiammazioni, ecc.) dell'ipofisi.
La documentazione precisa e l'inquadramento in uno schema sono più difficili per il ricambio delle proteine; sono invece assai meglio accessibili nel caso del ricambio dell'acqua e dei sali. Così noi conosciamo un ormone, contenuto nel secreto della lamina epiteliale o parte intermedia dell'ipofisi, il quale ha una funzione che oggi, dopo molte incertezze dovute alle modalità sperimentali, si sa essere essenzialmente antidiuretica; e quindi è l'agente curativo per eccellenza della poliuria essenziale o diabete insipido, la cui genesi è ritenuta da taluno collegata a un'ipofunzione di questa porzione dell'ipofisi, da altri ricondotta a una lesione di centri regolatori della diuresi localizzati alla base dell'encefalo, in quell'ipotalamo che è spazialmente prossimo all'ipofisi e quindi facilmente coinvolto in lesioni anatomiche della ghiandola. Lo studio del diabete insipido con le enormi poliurie caratteristiche (fino a 10-20 litri di urina diluitissima al giorno) ha chiarito appunto la regolazione neurormonica del ricambio dell'acqua.
Risulta dunque che nell'ipotalamo esistono raggruppati centri nervosi regolatori supremi di varie funzioni vegetative attraverso a centri subordinati e vie periferiche decorrenti nel simpatico e nel parasimpatico. Quei centri provvedono a regolare i fatti dissimilativi o disintegrativi e quelli assimilativi o sintetici in modo da mantenere certe costanti chimiche (come il tasso dello zucchero) o certe costanti chimico-fisiche (come la concentrazione molecolare, l'equilibrio fra certi ioni) o addirittura certe costanti fisiche (come la temperatura: v. febbre) del sangue e quindi anche la nutrizione dei tessuti, in collaborazione molto complessa col sistema delle ghiandole endocrine. Fra le malattie del ricambio più comunemente note alcune, come il diabete e l'obesità, sono sindromi neuro-endocrine o disturbi di questo meccanismo regolatore nervoso e chimico.
Per altre malattie del ricambio, come la gotta, siamo ancora del tutto all'oscuro sul meccanismo fisiopatologico d'insorgenza: la gotta tipica è in rapporto con una ritenzione nel sangue e soprattutto nei tessuti, di quella scoria del ricambio di certi componenti nucleari (acido nucleinico), che è l'acido urico; e deve probabilmente rientrare in un gruppo di alterazioni metaboliche (a carico di proteine o di gruppi molecolari azotati con le proteine consociati, come l'acido nucleinico) colpenti soprattutto le fasi demolitive del ricambio, implicanti una comparsa e spesso un ristagno di scorie abnormi per quantità o qualità, che esercitano azioni dannose sui tessuti nei quali s'infiltrano (per esempio, tessuti articolari o paraarticolari, specialmente prediletti).
Così conosciamo l'alcaptonuria, caratterizzata dalla comparsa nelle urine di acido omogentisinico o alcaptonico (acido idrochinonacetico), che determina l'annerimento delle urine dopo l'emissione, quando si alcalinizzano per la fermentazione ammoniacale: questo corpo è un prodotto del ricambio di certi costituenti aromatici delle proteine (come la tirosina), compare per un'anomalia nel processo di demolizione di questi costituenti e non di rado si infiltra nelle parti periarticolari, nelle cartilagini, legamenti, ecc., condensandosi a sostanze brune o nere (ocronosi di Virchow), e producendo ivi qualche volta lesioni flogistiche croniche e distruttive (artrite deformante alcaptonica, rara, ma molto istruttiva come paradigma di affezioni del ricambio ad esplicazione articolare).
Molti prodotti intermedî di scissione proteica hanno azioni tossiche complesse: ecco l'essenza della cosiddetta intossicazione proteica, corrispondente agli effetti dell'introduzione nell'organismo per via parenterale di proteine estranee al sangue (eterologhe, cioè di altra specie zoologica; o anche proprie dell'organismo, ma denaturate da processi morbosi). In condizioni non solo sperimentali ma anche naturali si ha un'intossicazione per prodotti di scissione proteica tutte le volte che microrganismi o loro prodotti di disfacimento o di ricambio penetrano nell'organismo o che esistono focolai di mortificazione di tessuti e conseguente riassorbimento dei relativi derivati (ustioni, traumi con versamenti di sangue e larga distruzione di tessuti, ecc.). I prodotti di scissione proteica hanno azioni complesse, mettono in giuoco specialmente certi meccanismi nervosi vegetativi (v. febbre); se penetrano o si formano massivamente nell'organismo si hanno quadri morbosi acuti, generali o localizzati in certi sistemi; se penetrano lentamente e a lungo, si hanno quadri cronici, talora con risentimento specialmente degli organi emopoietici (F. Pentimalli). L'intossicazione proteica cronica può condurre a precipitazione in seno a svariati connettivi di certi abnormi prodotti di elaborazione, comparenti all'istologo come sostanza ialina o sostanza amiloide.
Bibl.: Oltre ai trattati generali di fisiologia e patologia del ricambio, v. per alcune questioni qui accennate: R. Plaut, in Deutsches Archiv für klin. Med., XXXIX (1922), pag. 285; CXLI (1923), pag. 266; E. Grafe, Die pathologische Physiol. des Gesamtstoff- und Kraftwechsels, Monaco 1923; F. Pentimalli, in Riforma medica, 1921, n. 23; 1924, n. 35; in Virchow's Archiv, CCLXXV (1930), pag. 193.
IL RICAMBIO NEI VEGETALI
Ricambio materiale.
Nei vegetali superiori verdi il ricambio generale conduce essenzialmente alla formazione e all'accumulo di sostanze organiche nei tessuti; il ricambio si presenta qui con aspetto piuttosto unilaterale, con prevalenza di fenomeni assimilatorî e nutritivi. Il ricambio materiale si alimenta qui con pochi e semplici composti inorganici; acqua, anidride carbonica, sali, ecc. Il ricambio energetico ha pressoché per intero carattere d'accumulazione, il che conferisce al ricambio generale dei vegetali clorofillici il suo carattere essenziale e inconfondibile. Nella serie estesa di vegetali inferiori, soprattutto del gruppo dei microrganismi non clorofillici, il ricambio generale ed energetico assume invece, almeno in linea formale, aspetti complessi, che richiamano più da vicino il ricambio animale. Il ricambio materiale è qui alimentato da sostanze organiche complesse: zuccheri e sostanze idrocarbonate diverse, amminoacidi, peptidi, sostanze proteiche e così via; i prodotti del ricambio sono dati invece da sostanze svariatissime, come alcool etilico, alcool amilico, acetone, glicerina, mannite, acido acetico, lattico, butirrico, succinico, tartarico, citrico e così via. Tali indirizzi e modificazioni del ricambio materiale hanno importanza assai notevole nella biologia e nella tecnica; molti dei prodotti suaccennati sono ottenuti tecnicamente per via fermentativa.
Tali processi non possono essere qui che accennati, poiché sono trattati nella voce fermentazione. L'esposizione è pertanto limitata al ricambio materiale ed energetico dei vegetali clorofillici. Per la fotosintesi clorofilliana v. assimilazione: Assimilazione del carbonio.
Il ricambio idrico. - Il processo di traspirazione. - L'attività fisiologica di ogni cellula, di ogni tessuto e di ogni organo vegetale è inseparabilmente congiunta a un ininterrotto ricambio idrico; senza tregua la pianta assorbe acqua dall'anbiente e senza tregua restituisce acqua all'ambiente stesso. Nel caso più frequente la pianta attinge l'acqua dal terreno attraverso il proprio apparato radicale (assorbimento idrico) e restituisce all'atmosfera l'acqua sotto forma di vapore attraverso l'apparato fogliare (traspirazione vegetale). L'assorbimento dell'acqua allo stato di vapore e l'emissione di acqua allo stato liquido dalla foglia (guttazione) sono fenomeni di elevato interesse fisiologico, ma di limitata portata pratica.
I modi, le intensità, i limiti di tale ricambio idrico persuadono agevolmente che il processo si svolge indipendentemente, salvo naturalmente le correlazioni che saranno descritte più oltre, dagli altri processi di ricambio (nutrizione azotata, nutrizione inorganica, ecc.). Esso appare variamente connesso all'insieme dei fenomeni di metabolismo vegetale e non particolarmente a ciascuno di essi. L'assorbimento idrico si compie nelle piante superiori con particolare intensità attraverso la zona pilifera dell'apparato radicale. Sono condizioni essenziali al suo svolgersi determinati limiti di acidità e di salinità e un determinato potenziale ossiriduttore della soluzione. Il grado di adattabilità e la resistenza dell'apparato radicale alle diverse acidità e alle diverse salinità è assai diverso da pianta a pianta. Alcune piante (piante ossifile) resistono a gradi elevati di acidità, altre (piante anossifile) resistono a gradi elevati di alcalinità; per alcune piante l'attività assorbente dell'apparato radicale non può svolgersi che in mezzo ossidante; alcune altre piante tollerano, soprattutto in virtù di particolari disposizioni anatomiche o fisiologiche, di vegetare anche in mezzo riducente. Il potenziale ossiriduttore limite è vario da pianta a pianta.
Il carattere di semipermeabilità parziale o totale delle pareti cellulari assorbenti conferisce al processo di assorbimento idrico carattere indipendente dall'assorbimento degli elementi disciolti nell'acqua stessa; la soluzione assorbita dall'apparato radicale può essere cioè più concentrata o più diluita, secondo i casi, rispetto alla soluzione in cui l'apparato radicale è immerso.
I moti e l'economia dell'acqua nell'interno delle cellule, dei tessuti e degli organi vegetali sono governati dai fenomeni di turgescenza cellulare e dalle relative pressioni osmotiche, dai fenomeni capillari, dal metabolismo interno dei tessuti e dallo stesso processo di traspirazione.
Il processo di traspirazione si compie con speciale intensità attraverso gli organi aerei della pianta. Le particolari disposizioni anatomiche del sistema epidermico fogliare (stomi, aperture stomatiche) pongono il tessuto attivo delle foglie (mesofillo) in comunicazione diretta, ma suscettibile di regolazione, con l'atmosfera. Attraverso a tali aperture si svolge la parte più cospicua del ricambio traspiratorio (traspirazione stomatica). Non è tuttavia del tutto impervio all'acqua il sistema epidermico, sebbene normalmente protetto da cuticola, sicché una parte, in genere minima, della traspirazione si svolge anche all'infuori delle aperture stomatiche (traspirazione cuticolare). Attraverso le modificazioni dello stato di turgescenza delle cellule che limitano le aperture stomatiche, la traspirazione stomatica può essere regolata dalla pianta in relazione ai suoi bisogni fisiologici; la traspirazione cuticolare obbedisce invece essenzialmente a ragioni puramente fisiche. È tuttavia assai varia negli organi aerei delle diverse piante la distribuzione e la frequenza delle aperture stomatiche e sono anche estremamente varie le disposizioni anatomiche atte a moderare la traspirazione cuticolare (ispessimenti della cuticola, rivestimenti cerosi, formazioni pilifere e così via).
Il fenomeno di guttazione si compie invece attraverso a stomi particolari (stomi o pori acquiferi) situati ai margini fogliari e sorretti da un tessuto speciale (epitema) che regola il fenomeno di secrezione. L'intensità della traspirazione è anzitutto un carattere specifico delle diverse piante e tale varia intensità ha parte assai spesso preminente nel determinare i tipi ecologici diversi nei riguardi della disponibilità idrica (piante igrofile, mesofile, xerofile, succulenti, palustri, alofile, epifite e parassite). La misura di tali variazioni d'intensità può essere desunta a guisa di esempio dalle classiche esperienze di J. Wiesner.
Le variazioni d'intensità traspiratoria per le diverse specie poste in condizioni comparabili (luce solare) emergono altresì dai seguenti risultati sperimentali (Frey).
Tali varie intensità della traspirazione nelle diverse piante appaiono connesse anzitutto ai caratteri e alle intensità specifiche del metabolismo interno e in secondo luogo alle particolari disposizioni anatomiche sia del sistema radicale sia degli organi aerei.
Oltre che ai caratteri anatomici e fisiologici specifici dei singoli vegetali, le intensità del fenomeno di assorbimento idrico, e di quello a esso collegato di traspirazione, appaiono estremamente mutevoli col mutare delle condizioni fisiologiche e ambientali: sono massime, per ovvie ragioni, nelle piante in piena attività fisiologica e minime nelle piante in riposo. Non sussistono tuttavia fra l'attività fisiologica, commisurata a un indice qualsiasi, e l'intensità del fenomeno traspiratorio le correlazioni semplici che furono un tempo supposte.
Emerge dall'esperienza che tra i fattori esterni che hanno influenza sull'intensità del processo di traspirazione primeggia l'intensità della radiazione solare; seguono l'evaporazione, la temperatura e il grado di umidità dell'atmosfera e infine l'intensità del vento.
Precisamente intercorrono fra l'intensità della traspirazione nel frumento e le diverse condizioni dell'ambiente esterno i seguenti indici di correlazione statistica (L. Manzoni e A. Puppo):
Ond'è che all'intensità I del processo di traspirazione (acqua traspirata in grammi per unità di superficie) può essere data l'espressione statistica:
nella quale Q rappresenta la radiazione globale espressa in calorie-grammo per unità di superficie.
I consumi acquei unitarî e i coefficienti di rendimento. - Emerge chiaramente dall'insieme delle correlazioni fisiologiche or ora ricordate, rilevate e misurate statisticamente, che non v'è e non può esservi rapporto semplice di proporzionalità fra l'intensità del processo di traspirazione e l'intensità del processo di fotosintesi clorofilliana. E ciò soprattutto per il fatto che non corre una relazione di proporzionalità fra l'intensità della fotosintesi clorofilliana e l'intensità della radiazione globale. Le recenti ricerche di G. Tommasi e dei suoi collaboratori sull'intensità del processo traspiratorio nelle piante di frumento considerate nelle diverse fasi vegetative confermano tale induzione. Quando peraltro la misura dei volumi di acqua traspirata sia riferita a un intero ciclo vegetativo e sia posta in relazione con la sostanza organica complessiva formata nel ciclo stesso, le due quantità appaiono legate da una relazione di proporzionalità, che si mantiene in certa guisa costante per ogni pianta e per ogni complesso ambientale. Il rapporto fra le quantità d'acqua complessivamente traspirate dalla pianta nel ciclo vegetativo e il peso della sostanza organica formata nel ciclo stesso è stato designato col nome di consumo acqueo unitario della pianta stessa ed esprime evidentemente la quantità di acqua necessaria per formare l'unità di peso di sostanza organica. Il rapporto inverso, fra la quantità di sostanza organica formata e l'acqua complessivamente traspirata, moltiplicato per mille, è invece designato come coefficiente di rendimento ed esprime la quantità di sostanza organica che le diverse piante sono atte a produrre col consumo di mille unità di acqua traspirata complessivamente.
Le cifre raccolte nel quadro seguente, desunto da estese ricerche eseguite nel Colorado da L. J. Briggs e H. L. Shantz riflettono le variazioni dei consumi acquei unitarî e dei coefficienti di rendimento di alcune piante maggiormente interessanti fra quelle coltivate.
Si scorge agevolmente da questo quadro che agli effetti dell'economia dell'acqua nella produzione vegetale è assai diverso da pianta a pianta il consumo acqueo unitario e quindi il coefficiente di rendimento.
Per un gruppo di piante sobrie (nei riguardi dell'acqua) i consumi acquei unitarî sono contenuti in limiti ristretti: da 265 a 305; appartengono a questo gruppo il miglio, il sorgo, il panico, il mais; un gruppo di piante caratterizzate da alti consumi unitarî è dato invece dalle leguminose foraggere più comuni, come la medica, il trifoglio, il lupino (da 636 a 844). Presentano consumi acquei intermedî i comuni cereali - frumento, orzo, segale, avena e riso - (da 545 a 682) oltre alla bietola zuccherina (377) e alla patata (543). La varia altezza dei consumi acquei unitarî ha notevole importanza ai fini pratici, in quanto è misura del grado di sobrietà delle diverse colture, e nell'economia e nel governo delle acque d'irrigazione.
Oltre alle influenze di carattere specifico, l'altezza dei consumi acquei unitarî risente notevolmente dei caratteri di varietà. Ne sono documento i risultati riferiti nelle pagine precedenti (L.J. Briggs e H.L. Shantz) e i dati seguenti ottenuti da G. Tommasi.
I consumi acquei unitarî per varietà diverse di frumento hanno cioè oscillato da 1 a 1,67 e per varietà diverse di mais da 1 a 1,25.
Sull'altezza dei consumi acquei unitarî di una stessa specie in condizioni ambientali diverse hanno profonda influenza le variazioni dei fattori ambientali stessi. Hanno particolare importanza da tale punto di vista l'intensità della radiazione, la temperatura, l'umidità atmosferica, i venti, la copia d'acqua nel terreno e la ricchezza nutritiva delle soluzioni del terreno. I consumi acquei unitarî aumentano, per una stessa pianta e per una stessa coltura, col crescere dell'intensità della radiazione, col crescere della temperatura, dell'intensità dei venti e dell'umidità del terreno; decrescono invece col crescere del grado di saturazione acquea dell'atmosfera e per concentrazioni crescenti delle soluzioni nutritive del terreno. Tali correlazioni sono strettamente collegate all'economia della produzione delle sostanze organiche nei rispetti delle disponibilità di acque e assumono pertanto importanza notevole ai fini della tecnica agraria.
Il ricambio azotato. - Il ricambio azotato si riduce nei vegetali sostanzialmente al processo di nutrizione azotata, ché l'intero metabolismo azotato nei vegetali è orientato verso l'accumulo delle multiformi sostanze azotate nei vegetali stessi. Tale processo nutritivo ha importanza fondamentale, non soltanto nella vita delle piante, bensì anche in quella degli animali e nell'economia naturale, giacché l'attitudine a trasformare l'azoto e i composti azotati inorganici in sostanze azotate organiche (organicazione dell'azoto) è, nel mondo biologico, prerogativa essenziale degli organismi vegetali; ed è chiaro come a tale prezioso privilegio sia legato, e in certa guisa subordinato, il ricambio azotato nel vasto mondo animale.
L'azoto elementare nella nutrizione vegetale. - Storicamente, l'idea che le piante fossero atte ad assimilare l'azoto elementare ha dominato i primordî della chimica fisiologica vegetale, sino a che le prove rigorosamente condotte da J.B. Boussingault (1838) hanno dimostrato che le piante superiori non sono dotate di tale attitudine. L'indagine successiva, laboriosamente condotta per oltre un cinquantennio da chimici (M. Berthelot), da fisiologi (H. Hellriegel e H. Willfarth), da batteriologi e agronomi (J. B. Lawes e J. H. Gilbert) poté schiudere la via alla verità riposta: l'attitudine a sopperire con azoto elementare ai bisogni della nutrizione azotata, di cui sono prive le piante superiori, è invece posseduta da una serie di vegetali inferiori (Schizomiceti e Ifomiceti), ai quali l'economia naturale è debitrice, nei limiti delle attività biologiche, della produzione diretta delle sostanze organiche azotate dall'azoto elementare.
Sono dotati di tale preziosa attitudine un gruppo di fermenti butirrici, qualcuno anaerobico (Clostridium Pasteurianum) e altri aerobici (Azotobacter chroococcum, un Granulobacter, un Radiobacter). L'Azotobacter ha rivelato la più elevata attività assimilatrice rispetto all'azoto elementare.
Le alghe non hanno rivelato sinora attitudine alcuna a fissare azoto elementare; esse hanno tuttavia parte notevole nei processi di fissazione microbiochimica dell'azoto elementare nel terreno (induzione dell'azoto) per i rapporti di simbiosi ch'esse contraggono con i batterî - l'Azotobacter soprattutto - fissatori di azoto.
Un altro gruppo di batterî, Bacillus radicicola, dotato ugualmente di tale attitudine, è atto a vivere in simbiosi con le piante della famiglia delle Leguminose; tali bacilli penetrati nel tessuto corticale delle radici attraverso la membrana dei peli radicali, vi determinano le notissime formazioni ipertrofiche di varia mole e di varia foggia, già descritte da M. Malpighi e che vengono designate come tuberosità o tubercoli radicali delle leguminose. Vegetano nel tessuto di tali tuberosità le forme batteriche - batteroidi - che s'alimentano all'azoto atmosferico e che la pianta dissolve, per virtù di particolari lisine, utilizzando a suo profitto i prodotti azotati della digestione.
I moderni metodi sierologici hanno consentito di distinguere nel gruppo specifico del Bacillus radicicola alcuni sottogruppi dotati di specificità per le diverse leguminose.
L'attitudine miglioratrice delle leguminose sui terreni, già notissima ai georgici antichi non meno che agli agronomi moderni, trova in tale rapporto di simbiosi la sua ragione e la sua spiegazione ultima.
La capacità di alcuni micelî di funghi (micorrize), che vivono in rapporto simbiotico nell'apparato radicale di molte piante, di assimilare azoto atmosferico è resa assai probabile dalle condizioni stesse della simbiosi e dal comportamento analogo a quello dei batterî delle leguminose; è mancata sino ad ora, peraltro, una dimostrazione esauriente di tale attitudine (v. Micorriza).
La nutrizione azotata delle piante superiori. - L'assorbimento radicale. - Fatta eccezione dei gruppi di vegetali inferiori atti ad assimilare l'azoto elementare (organismi azoto-prototrofi), tutti gli altri vegetali sopperiscono ai bisogni della loro alimentazione azotata assumendo dalle soluzioni nutritive in cui vivono l'azoto sotto forma combinata; hanno particolare importanza a questo riguardo i sali ammonici, i nitrati e i nitriti, fra i composti inorganici; e alcune forme di combinazione organica fra le più semplici: ammine, ammidi, ecc. Sono in genere privi di valore nutritivo diretto i derivati cianici e solfocianici. L'ammoniaca come tale, diluita nell'atmosfera, è atta a essere assorbita e direttamente assimilata dalle piante attraverso i loro organi aerei; il fatto ha peraltro importanza pratica limitata in ragione dell'esiguo contenuto in ammoniaca nell'atmosfera. In linea del tutto preminente, la nutrizione azotata delle piante superiori si compie mediante l'assorbimento dei sali ammonici e dei nitrati attraverso il sistema radicale. Dalle soluzioni nutritive in cui vivono, le piante superiori assorbono l'ione ammonico e l'ione nitrico, né appare da alcun segno esterno una qualsiasi azione selettiva o preferenziale. Solo si avverte per qualche pianta un assorbimento più celere dell'azoto nitrico e in qualche altra un assorbimento più celere dell'azoto ammoniacale. È da notare altresì a questo riguardo che la pianta resiste a concentrazioni relativamente elevate di nitrati (2-3 per mille) e ha tolleranza minore per le soluzioni di sali ammonici (limite di tossicità 0,5-0,6 per mille). I nitriti presentano in soluzione acquosa tossicità relativamente elevata per la pianta; a tale tossicità dei nitriti non è naturalmente estraneo l'elevato potere riducente, specie in mezzo leggermente acido. In mezzo alcalino la tolleranza delle piante di fronte ai nitriti può salire anche al 0,5 per mille. Quando la nutrizione azotata delle piante superiori si compie attraverso il terreno, l'attività chimica e microbiochimica di questo interviene a modificare, spesso profondamente, i modi della nutrizione stessa. I nitrati, che non sono assorbiti dal terreno e sono tollerati dalla pianta anche a concentrazione elevata, assumono parte preminente nella nutrizione azotata dei vegetali superiori. I sali ammonici, che sono invece intensamente fissati dal terreno, sono assorbiti per sé dalla pianta assai più lentamente; nelle condizioni opportune di temperatura, umidità, reazione e potenziale ossiriduttore del terreno, l'azoto ammoniacale ha peraltro esistenza effimera nel terreno e si converte in acido nitroso prima e in acido nitrico poi. Quando le condizioni di nitrificazione siano meno propizie o addirittura assenti - terreni acidi, terreni sommersi e riducenti, terreni congelati, terreni aridi - l'assorbimento dei sali ammonici da parte delle piante rimane forzatamente lento. I composti organici azotati di tipo più semplice, per esempio l'urea, la glicocolla, la guanidina, ecc., sono rapidamente assorbiti dalla pianta anche attraverso il terreno. Si tratta a ogni modo di composti che, salvo casi eccezionali, hanno esistenza effimera nel terreno, il quale li converte rapidamente in composti ammoniacali e quindi in nitrati.
Nei riguardi della nutrizione azotata dei vegetali superiori, non entrano in genere in linea di conto composti organici azotati più complessi di quelli ricordati.
Nei vegetali inferiori la nutrizione azotata ha assai sovente per base sostanze organiche azotate più complesse: amminoacidi, peptidi, polipeptidi, sostanze proteiche, ecc. Tale elevata eterotrofia è peraltro assai sovente un'apparenza. Il vegetale - Schizomiceti Blastomiceti, Ifomiceti - compie assai sovente la demolizione preventiva ed esterna delle sostanze azotate e assorbe poi i prodotti della demolizione ultima.
Il ricambio degli elementi inorganici. - L'attività fisiologica del protoplasma e in particolar modo il complesso e vario metabolismo vegetale hanno per condizione la presenza di un certo numero di elementi inorganici; l'esperienza pone fra gli elementi inorganici necessarî allo sviluppo e al metabolismo di tutti gli organismi vegetali il fosforo, lo zolfo, il potassio, il magnesio, il ferro. A tale novero è da aggiungere il calcio, per gli organismi vegetali superiori. Per alcune piante, non numerose in verità, è dimostrata altresi la necessità di minime quantità di boro e di manganese. La necessità del fosforo e dello zolfo emerge in modo evidente dal fatto che i due elementi partecipano alla costituzione molecolare di alcuni importanti gruppi di proteine fosforate e solforate. È noto per di più che ai nucleoproteidi sono particolarmente legati i fenomeni della moltiplicazione cellulare. Anche si scorge la necessità del magnesio per le piante clorofilliane, in quanto che il magnesio è parte integrante della molecola clorofillica. La necessità del magnesio è estesa peraltro anche agli organismi non clorofillici. Né si ha formazione di clorofilla in assenza di ferro, sebbene il ferro non entri nella molecola di questo composto. Il ferro è del resto necessario anche agli organismi non clorofillici. La necessità del potassio e del calcio ha per fondamento l'attività fisiologica della cellula, ma sino a oggi non è ben chiarito il meccanismo intimo di tale necessità. Sono presenti nelle ceneri delle piante elementi in numero assai più cospicuo: cloro, bromo, iodio, fluoro, silicio, sodio, alluminio, manganese, rame, zinco, ecc., oltre a quelli già indicati come indispensabili. L'esperienza dimostra che tali elementi sono talora del tutto privi di funzioni fisiologiche (bromo, iodio, fluoro, alluminio); la loro presenza appare cioè affatto accidentale; talora invece esplicano funzioni non strettamente indispensabili, ma tuttavia utili (cloro, manganese); a volte la loro funzione e la loro importanza è connessa con la fisiologia animale più che con la fisiologia vegetȧle (bromo, iodio, fluoro). Gli elementi della nutrizione inorganica (elementi delle ceneri) sono assunti dalle piante superiori dalle soluzioni nutritive attraverso il sistema radicale. I fosfati sono assorbiti solo nella forma di ortofostati (esclusi quindi i metafosfati, i pirofosfati, nonché i fosfuri e i composti intermedî); lo zolfo è assunto solo dai solfati (esclusi i solfiti, i solfuri e composti intermedî); il ferro, di regola, solo dai sali ferrici.
I modi e le condizioni dell'assorbimento radicale. - Fatta eccezione per alcuni vegetali inferiori e per alcune piante superiori di non grande diffusione, le piante attingono di regola gli elementi inorganici necessarî al loro ricambio da soluzioni relativamente diluite; le diluizioni più favorevoli alla vita vegetale sono dell'ordine dell'uno per mille circa. Sono tollerati dal sistema radicale delle piante superiori anche concentrazioni maggiori, ma con disagio crescente per crescenti concentrazioni; le concentrazioni saline del 3-4 per mille sono di regola già tossiche per le piante; la tolleranza è tuttavia diversa a seconda della natura dei sali. È particolarmente degna di rilievo l'attitudine delle piante ad assorbire elementi e composti inorganici da soluzioni nutritive anche estremamente diluite; nelle soluzioni nutritive che imbevono il terreno l'acido fosforico è contenuto in misura del tutto esigua, 5-10 milionesimi, e talora anche1-2 milionesimi, solamente. Tale estrema diluizione rallenta, ma non impedisce l'assorbimento dell'acido fosforico da parte delle piante. Il potassio e l'ammonio sono contenuti nell'acqua che imbeve il terreno in misura di poco superiore, da 10 a 50 milionesimi; l'acido nitrico, nei terreni più comuni, giunge anche a 20-30 milionesimi. Queste elevate diluizioni consentono tuttavia alle piante il regolare ricambio inorganico. Di fronte alla salinità eccessiva della soluzione nutritiva presentano particolare resistenza alcuni vegetali inferiori (Schizomiceti, Ifomiceti, Alghe) e alcune piante superiori (piante alofile) atte a tollerare concentrazioni relativamente assai elevate (3-6%) di sali.
La pianta assorbe dalle soluzioni nutritive in cui vegeta i singoli elementi e composti inorganici in modo indipendente, non solo per ciò che riguarda i componenti disciolti, ma anche per ciò che riguarda l'acqua. L'assorbimento ha cioè carattere selettivo. Il meccanismo di tale azione selettiva sta evidentemente nel fatto che la pianta elabora e sottrae all'equilibrio osmotico cellulare gli elementi e i composti necessarî alla sua attività fisiologica, il che richiama via via l'affluenza dell'elemento e del composto elaborato. Quale primo risultato di tale indipendenza nell'assorbimento delle sostanze disciolte e del solvente, si ha talora, per effetto dell'assorbimento fisiologico della pianta, una diluizione delle soluzioni nutritive (le sostanze disciolte sono assorbite più intensamente che l'acqua; soluzioni diluite) e talora invece una concentrazione (l'acqua è assorbita più intensamente che le sostanze disciolte; soluzioni concentrate). Nell'assorbimento degli elementi e dei composti inorganici, i costituenti acidi (anioni) non sono assorbiti in misura corrispondente ai costituenti alcalini (cationi). Ne segue che le soluzioni nutritive in cui vegetano le piante superiori si acidificano progressivamente, a causa dell'eccedenza dei costituenti alcalini assorbiti (ammonio, potassio, calcio, magnesio, ecc.) sui costituenti acidi (ione fosforico, ione nitrico, ione cloro, ecc.).
Tale acidificazione progressiva si avverte solo lentissimamente (nel corso di anni) nel terreno a causa dell'inerzia di questo di fronte alle variazioni elettrolitiche (potere tampone), ma è avvertita rapidamente (nel termine di poche ore), quando le piante siano allevate in soluzione nutritiva, fuori dal terreno. Si deve a tale selettività il fatto d'osservazione comune che piante diverse cresciute in uno stesso terreno o in uno stesso liquido nutritivo (acque dei laghi, dei mari, ecc.) dànno ceneri di composizione affatto diversa, d'altro lato le ceneri rivelano quasi sempre (fatta eccezione delle alofite) una notevole preminenza del potassio, anche là dove il sodio predomina sul potassio nel substrato nutritivo.
È tuttavia degno di nota anche l'assorbimento di carattere accidentale soprattutto nei riguardi del calcio; si osservano cioè assorbimenti cospicui e non necessarî di calcio, quando il substrato ne sia particolarmente ricco.
Ricambio energetico.
Il ricambio energetico dei vegetali è dominato dal processo di fotosintesi clorofilliana; i processi respiratorî hanno nel quadro del ricambio energetico vegetale un'importanza del tutto subordinata. Il lavoro chimico sintetico della cellula clorofillica, per cui l'anidride carbonica e l'acqua sono convertite in sostanze organiche, è compiuto dall'energia luminosa assorbita dagli organi assimilanti. L'intensità del processo assimilatorio è anzitutto carattere specifico ed è assai diverso, a parità di condizioni, da specie a specie; per una stessa specie, per uno stesso organo anzi, l'intensità del processo appare funzione di una serie numerosa di fattori esterni, fra cui primeggiano l'intensità e la composizione spettrale della radiazione incidente, la temperatura, la tensione parziale dell'anidride carbonica, oltre che dell'insieme delle condizioni di attività fisiologica interna. Nelle condizioni normali e per le piante più comuni la quantità di sostanza organica formata per ora e per metro quadrato di superficie fogliare oscilla fra 1 e 3 grammi. L'indagine sul rapporto fra la quantità di anidride carbonica fissata in un'ora e la quantità di clorofilla presente nel tessuto assimilante considerato (fattore d'assimilazione) oscilla normalmente fra 6 e 7 (R. Willstaetter e A. Stoll); un grammo di clorofilla è atto cioè a convertire in un'ora 6 a 7 grammi circa di anidride carbonica in sostanza organica. Nelle foglie a contenuto clorofillico basso tale rapporto assume per altro valori anche cento-duecento volte superiori.
L'accumulazione energetica della cellula clorofillica in attività fotosintetica può pertanto essere commisurata a 3000-9000 calorie per ora e per metro quadrato di superficie assimilante. Poiché può essere commisurata a 600.000 calorie circa l'energia complessiva contenuta nella radiazione solare per ora e per metro quadrato (costante solare), il rendimento energetico del processo di fotosintesi clorofilliana appare dell'ordine 0,5-1,5%. Tale rendimento, assai esiguo, rappresenta la frazione utile di lavoro che può essere ricavato attraverso l'apparecchio clorofillico dall'energia luminosa.
Il rendimento effettivo del processo fisiologico appare assai più elevato. Occorre rilevare anzitutto a tale riguardo che l'intensità del processo assimilatorio muta di poco anche con un'intensità di radiazione ridotta alla metà o a un quarto. Ciò raddoppia o quadruplica il rendimento utile del processo; ed è superfluo osservare che nell'economia naturale le foglie che fruiscono di un'irradiazione ridotta, per fatto di aduggiamento, predominano sulle foglie che possono utilizzare la radiazione integrale. È necessario d'altra parte por mente al fatto che la sintesi di 1-2 grammi di sostanze organiche nell'apparecchio clorofillico non può andare disgiunta dalla traspirazione di 300-600 grammi di acqua, il che implica un assorbimento termico di 180.000-360.000 calorie. Tale considerazione eleva evidentemente il rendimento fisiologico effettivo al 28 e al 60% circa nei tessuti normali e al 90-95% nei tessuti poveri di clorofilla. L'apparecchio clorofillico si rivela cioè attraverso a tali computi come meravigliosamente adatto a trasformare l'energia luminosa in energia chimica. L'energia raggiante non trasformata in energia chimica riappare sotto la forma di energia termica e contribuisce con ciò alla regolazione termica della reazione. Il processo di fotosintesi clorofilliana ha un coefficiente di temperatura poco dissimile da 2; esso raddoppia cioè d'intensità per ogni aumento di 10 gradi, nei limiti, s'intende, in cui il processo non è perturbato da influenze secondarie. E poiché il rendimento energetico e la temperatura dell'apparecchio fotosintetico sono strettamente collegati, vien fatto di pensare che un ulteriore aumento di rendimento non potrebbe avvenire che a detrimento dello stato termico dell'apparecchio stesso. A un esame sommario del problema, si scorge nell'apparecchio clorofillico un altro esempio del meraviglioso adattamento biologico alle condizioni esterne a beneficio dell'economia naturale.
Bibl.: R. Willstaetter e A. Stoll, Untersuchungen über die Assimilation der Kohlensäure, Berlino 1918; W. Stiles, Photosynthesis, Londra 1925; H. A. Spoehr, Photosynthesis, New York 1926; S. Kostytschew, Lehrbuch der Pflanzenphysiologie, voll. 2, Berlino 1926, p. 31; H. Lundegardh, Die Nährstoffaufnahme der Pflanze, Jena 1932; U. Pratolongo, Chimica vegetale e agraria, voll. 2, Milano 1933-34; K. Stern, Plfanzenthermodynamik, Berlino 1933; U. Pratolongo, Idrologia vegetale e agraria, Firenze 1935; A. Frey-Wyssling, Die Stoffausscheidung der höheren Pflanzen, Berlino 1935.