RIBERA, Jusepe de, detto lo Spagnoletto
Pittore, nato a Játiva (Spagna) il 12 gennaio 1588, morto il 2 settembre 1652 a Posillipo presso Napoli. Adolescente, andò nella vicina Valenza per studiare all'università; ma, vedute le opere di Francisco Ribalta, signore in quel tempo della pittura valenzana, si sentì così attratto da quell'arte che rinunziò agli studî per entrare nella bottega del maestro. Il Ribalta era già stato in Italia, dove il natio realismo si era in lui alquanto raddolcito al contatto della scuola bolognese, allora fiorente per l'arte dei Carracci. Così nell'educazione artistica del R. fu già un seme di arte italiana.
Attratto dalla fama dei grandi artisti italiani, volle egli stesso ripetere il viaggio del maestro; ma giunto che fu in Italia, vi rimase tutta la vita. Fu prima a Roma, dove gli fu dato l'appellativo di "Spagnoletto"; indi a Parma, affascinato dalla grazia correggesca; poi nuovamente a Roma; infine a Napoli, circa il 1616, dove trascorse tutta la sua gloriosa maturità, e dove morì quasi povero. Tra i molti figlioli aveva avuto la bellissima Maria Rosa, che fu rapita (1648) da don Giovanni d'Austria, figlio naturale di Filippo IV.
Molto apprezzato dai viceré, specie dal conte di Monterey, e dalla fastosa nobiltà indigena, fu per oltre un ventennio la figura più in vista fra i pittori napoletani, sui quali esercitò una notevole influenza. Ebbe il titolo di cavaliere, e appartenne all'Accademia romana di San Luca (1626).
Al pari del suo maestro, il R. conservò nell'arte un carattere tutto spagnolo, fatto cioè di ascetismo profondo e di crudo realismo. Ma ciò non gl'impedì di sentire gl'ideali di bellezza e di grazia di Raffaello e del Correggio, i quali ebbero una forte eco nel suo spirito, sì da far tacere in lui il patrio temperamento e da fargli creare vere oasi di sorriso in mezzo al campo severo della sua produzione artistica.
A Napoli ritrovò sé stesso nelle audaci creazioni realistiche del Caravaggio; e ritornò con rinnovato vigore lo spagnolo riboccante di forza drammatica e di esaltazione ascetica, compiacentesi di strazianti scene di martirio, come di mistici rapimenti.
Il suo comporre è sintetico: poche figure, tese nello spirito e nei muscoli verso il dramma che rappresentano. Le figure, spesso ritratti, hanno sempre marcata espressione. Il colore è in lui subordinato alla plastica e alla luce; tetro in genere, così nelle ombre come nelle disfatte e grinzose carnagioni dei vecchi, che egli predilige. E il vigore plastico, che è l'essenza dell'arte sua, nasce di solito per improvvisi scatti di luce fra tenebrose profondità.
In quest'atmosfera nacquero: la S. Maria Egiziata della Galleria Borghese a Roma, vecchia consunta dal lungo strazio del corpo e dello spirito; la Visione di S. Francesco d'Assisi del Prado di Madrid, che singolarmente ricorda il S. Francesco con l'Angelo del Ribalta nello stesso museo; il Martirio di S. Bartolomeo del Prado, che è una delle sue opere dove più rude è il dramma; la Crocifissione di S. Andrea di Budapest; il Marsia scorticato da Apollo, il Prometeo e l'Issione del Prado; la Deposizione della chiesa di S. Martino a Napoli, forse la più caravaggesca delle sue opere, dove l'ardito scorcio del corpo di Cristo morto mostra in un miracolo di luce il suo sapiente realismo anatomico; gli Apostoli affrescati nella stessa chiesa, stupendi esemplari di ardita vecchiezza, ravvivati da un soffio veneto nel colore; e ancora nello stesso luogo, la Cena, che porta la data del 1651 e fu il suo ultimo lavoro. E accanto a queste creazioni, gl'innumerevoli "martirî", di S. Bartolomeo, di S. Lorenzo, di S. Sebastiano, e i molti S. Girolamo, forti studî anatomici di corpi disfatti, agitati da anime possenti.
Accanto a questa dinamica e copiosa produzione sono, più esiguo numero, le opere da lui italianamente sentite. Una ricerca di spiritualità è già nel Battista nel deserto, lambito da ricordi leonardeschi; e ancora nella Maddalena del Prado, nella cosiddetta Sibilla del Palazzo reale di Madrid; nella Santa Maria Egiziaca del Museo Filangieri di Napoli, squisitamente umana nel suo dolore; nella Maddalena dell'Accademia di S. Fernando, nella Madonna dell'Adorazione del Louvre, il cui sublime rapimento rifulge fra rudi e realistiche figure di pastori. Ma dove l'influenza italiana ha vinto in pieno l'animo dell'artista è nella Concezione in S. Agostino di Salamanca e nella S. Agnese di Dresda: la prima, divinamente serena, si libra in una luminosa gloria d'angioletti, dalla soave melodia cromatica; l'altra, pur balzando da un violento investimento di luce, splende della più delicata spiritualità nella bella e nobile testa, dove si credono riprodotte le sembianze della sventurata Maria Rosa.
V. tavv. XLIII e XLIV.
Bibl.: B. de Dominici, Vite de' pittori scultori ed architetti napoletani, III, Napoli 1742, pp. 1-24; L. Salazar, La patria e la famiglia dello Spagnoletto, in Napoli nobilissima, III (1894), pp. 97-100; B. Croce, Di alcuni artisti spagnoli che lavorarono a Napoli, ibid., IV (1895), p. 13; V. Spinazzola, L'arte e il Seicento in Napoli, Napoli 1905; M. Utrillo, J. de R., Barcellona 1907; A. L. Mayer, J. de R., Lipsia 1908; 2ª ed., 1923; P. Lafond, R. et Zurbaran (coll. Les grands artistes), Parigi 1909; E. Bayard, J. R., ivi 1909; E. Conte, R., ivi 1925; H. Voss, Die malerei des Barocks in Rom, Berlino 1925: A. de Rinaldis, Pinacoteca del Museo Nazionale di Napoli, Napoli 1928; id., La pittura del '600 nell'Italia meridionale, Bologna 1929; M. Nugent, Alla mostra della pittura ital. del '600 e '700, S. Casciano in Val di Pesa 1930, pp. 22-28; A. L. Mayer, J. d. R., 2ª edizione, Lipsia 1923; idem, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, XXVIII, Lipsia 1934.