REVISIONE
. Già il diritto giustinianeo aveva, nel caso di errore del giudice, la retractatio della sentenza, provocata dalla supplicatio all'imperatore. In Francia l'ordinanza del 1344 istituì, per l'errore di fatto, le lettres de proposition d'erreur (deliberazione sovrana prima e, dopo, decisione del parlamento). Con Carlo VI (ordinanza di Moulins) si ebbero, invece, le lettres pour alléguer nullités, griefs et contrariétés, sostituite poi da quelle, en forme de requête civile, per gli errori derivanti dal dolo della parte o del giudice, o dall'ignoranza di questo, e da quelle de proposition d'erreur per gli errori di fatto: distinzione resa più chiara ancora dall'ordinanza di Blois (1579). La proposizione di errore fu abolita nel 1667 da Luigi XIV, ma ripristinata nel 1670 e nel 1738, col nome di revisione e con forme già quasi eguali a quelle odierne. In omaggio alla sovranità popolare (verdetto della giuria), l'istituto fu di nuovo soppresso dall'Assemblea costituente (1789). Lo richiamò parzialmente in vigore la Convenzione (1793). Fu abolito ancora nell'anno IV e risorse definitivamente, come è adesso, con i codici napoleonici, di procedura civile e d'instruction cnminelle (1806 e 1808).
Il diritto canonico prevede anch'esso la possibilità di errori di fatto e ammette il rimedio straordinario della restitutio in integrum (can. 1905 cod. iur. can.) quando si tratta di sentenza contro la quale non siano esperibili i gravami ordinarî o quando consti evidentemente l'ingiustizia: quando cioè sia fondata su documenti riconosciuti poi falsi; o si scoprano, dopo la sentenza, fatti nuovi che perentoriamente impongano una contraria decisione; oppure quando la sentenza sia fondata sul dolo di una delle parti, ovvero quando una prescrizione di legge risulti essere stata evidentemente negletta.
Il vigente codice di procedura penale italiano (articoli 553-574) accogliendo tra i mezzi straordinarî di impugnazione delle sentenze penali l'istituto della revisione, lo mantiene entro quegli stretti confini in cui lo giustificano gravi ed evidenti ragioni di giustizia. Con la domanda di revisione si denuncia alla Corte suprema una sentenza di condanna penale divenuta irrevocabile (anche se la pena sia già completamente espiata o altrimenti estinta, anche se deceduto sia il condannato), pronunciata per delitto (o per contravvenzione, se il contravventore fu dichiarato abituale o professionale) dall'autorità giudiziaria ordinaria. La domanda di revisione può essere avanzata dal condannato o da un suo prossimo congiunto, ovvero dalla persona che ha sul condannato l'autorità tutoria, e, se il condannato è morto, dall'erede o da un prossimo congiunto; può altresì - magari in unione a quella del privato - essere avanzata dal procuratore generale presso la Corte d'appello nel cui distretto fu pronunciata la sentenza di condanna o dal procuratore generale presso la Corte di cassazione. Detta domanda deve basarsi su elementi tali da escludere, se accertati, che il fatto sussista o che lo abbia commesso il condannato, oppure tali da dimostrare del tutto mancante la prova che il fatto sussista o che il condannato lo abbia commesso. Non si potrebbe, perciò, chiedere la revisione per dimostrare, ad es., la non imputabilità del condannato, o la legittimità del fatto, o la corrispondenza del fatto a un minore titolo di reato. Solo nei quattro casi tassativamente enunciati dal codice è ammessa domanda di revisione, vale a dire: a) nel caso di inconciliabilità dei fatti stabiliti a fondamento della sentenza di condanna con quelli stabiliti in altra sentenza penale irrevocabile dell'autorità giudiziaria ordinaria o di giudici speciali, eccettuate le sentenze di condanna pronunciate dal senato costituito in alta corte di giustizia (es.: Tizio fu condannato per furto in seguito all'autocalunnia diretta a salvare il vero colpevole, autocalunnia per la quale fu poi condannato); b) nel caso di condanna basata su sentenza civile o amministrativa, poi revocata, risolvente una questione pregiudiziale al giudizio penale (es.: una questione di proprietà in relazione a un reato di appropriazione indebita); c) nel caso in cui, dopo la irrevocabile condanna, siano soppravvenuti o si scoprano nuovi fatti o nuovi elementi di prova che, soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento, rendano evidente che il fatto non sussiste ovvero che il condannato non lo ha commesso (es.: si prova che è viva la persona che si credette, prima, vittima di omicidio); d) nel caso, infine, in cui si dimostri che la condanna fu pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio, o in conseguenza di un altro fatto preveduto dalla legge come reato (es.: in conseguenza di corruzione, di calunnia, ecc.).
L'istanza per revisione, debitamente corredata degli atti e documenti che la giustificano (art. 557), è diretta alla Corte di cassazione, la quale può, in materia, valersi di una competenza istruttoria che in via di eccezione le attribuisce la legge, delegando all'uopo uno dei suoi consiglieri. La Corte procede col rito della camera di consiglio e delibera con sentenza. La quale può essere: a) sentenza dichiarativa della inammissibilità della istanza di revisione (ad es., perché l'istanza mira a scopi non consentiti dalla legge, o fu avanzata da persona che non aveva il diritto di avanzarla); b) sentenza di rigetto della istanza (perché infondata); c) sentenza di accoglimento dell'istanza, con annullamento incondizionato o condizionato della sentenza di condanna, vale a dire con annullamento senza rinvio oppure con annullamento con rinvio (a seconda che il rinvio non sembri o sembri opportuno alla Corte). Nel caso di rinvio, la Corte di cassazione designa il giudice, investendolo del giudizio di revisione (attribuzione di competenza), e lo designa di primo o dí secondo grado, secondo la natura della sentenza annullata: il giudice, in ogni modo, deve essere diverso da quello che pronunciò la sentenza stessa. Il giudizio di rinvio (per la cui pronuncia da parte della Cassazione il "condannato" riprende la qualità di "imputato", e, se morto, è sostituito con un "curatore" speciale) si svolge come qualunque altro giudizio di rinvio. Il giudice di rinvio confermerà la sentenza di condanna o assolverà. Può assolvere soltanto quando vi è la prova che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o quando viene del tutto a mancare la prova che il fatto sussiste o che l'imputato lo ha commesso; in ogni altro caso deve confermare la sentenza di condanna. La sentenza di assoluzione è soggetta al ricorso in Cassazione per parte del Pubblico Ministero presso il giudice che pronunciò la sentenza di assoluzione (salvi, s'intende, i poteri d'impugnazione del procuratore generale), mentre la sentenza di conferma è inoppugnabile, pur non pregiudicando il diritto di presentare una nuova domanda di revisione fondata su elementi diversi. La revisione, in quanto mezzo di impugnazione, non può non produrre l'effetto estensivo delle impugnazioni in genere (art. 203 cod. proc. pen.); perciò, provata l'insussistenza del fatto, l'annullamento senza rinvio, o l'assoluzione, riguarderà non solo la persona per cui si è avuta revisione, ma tutti i condannati per lo stesso fatto. Annullata, senza rinvio, la sentenza di condanna o prosciolto l'ex-condannato, si provvederà alla restituzione della somma pagata a titolo di pena pecuniaria, alla liberazione dell'excondannato, e, se questi è morto, si provvederà (art. 564) a quella che con frase tradizionale, è detta "riabilitazione della sua memoria".
In virtù di leggi speciali, anche sentenze di giudici speciali possono essere assoggettate a revisione (con particolare procedura, evidentemente): v. legge 25 novembre 1926, n. 2008, e r. decr. 3 ottobre 1929, n. 1759, per la revisione delle sentenze del tribunale speciale per la difesa dello stato, e istituzione di un consiglio di revisione ad hoc; inoltre gli articoli 537 cod. pen. per l'esercito e 566 cod. pen. mar., art. 10 decr. luogoten. 4 luglio 1919, n. 1083 (in relazione all'art. 58 r. decr. 28 maggio 1931, n. 602), decr. luogoten. 11 aprile 1918, n. 459, 6 ottobre 1918, n. 1608, decr. legge 8 aprile 1928, n. 458, per la revisione delle sentenze emanate dai tribunali delle forze armate.
Al condannato prosciolto, e, se questi è morto, alle persone che avrebbero potuto da lui, se vivo, esigere gli alimenti, può essere accordata su domanda, una riparazione pecuniaria.
La possibilità della riparazione pecuniaria degli errori giudiziarî si riscontra già nella legislazione toscana e in quella napoletana preunitarie. Nella legislazione straniera il principio è pure, più o meno largamente e chiaramente, sancito (cfr. le seguenti leggi: germanica 20 marzo 1898; svedese 12 maggio 1886; norvegese 1° luglio 1887; danese 5 aprile 1888; svizzera del 1884, 1886 e 1889; austriaca 16 marzo 1892; belga 18 giugno 1894; francese 8 giugno 1895; ungherese del 1896; spagnola 7 agosto 1899; ecc.).
In Italia proposte e disegni di legge furono rispettivamente presentati ai congressi giuridici e al parlamento (es., Lucchini 1903; Ronchetti 1905; Finocchiaro-Aprile 1905 e 1911) finché il principio, entro certi limiti, fu accolto nel codice di procedura penale del 1913, e riprodotto in quello vigente del 1930. Questo agli articoli 571 e seguenti dispone che colui, il quale è stato assolto per effetto della sentenza della Corte di cassazione o del giudice di rinvio, se in conseguenza della sentenza annullata abbia espiato una pena detentiva per tre mesi almeno, o sia stato sottoposto a misura di sicurezza detentiva per durata non minore, o abbia risarcito il danno senza che gli rimanga possibilità di efficace ripetizione, può domandare una riparazione pecuniaria a titolo di soccorso, qualora sia riconosciuto che per le sue condizioni economiche ne abbia bisogno per sé o per la sua famiglia. Nel caso, poi, di morte del prosciolto, le persone che, secondo le leggi civili, avrebbero avuto diritto agli alimenti possono, anche per mezzo del curatore speciale, proporre l'istanza per la riparazione, o giovarsi di quella che fosse già stata proposta. Ma a queste persone non può mai essere assegnata, per tale titolo, una somma complessiva maggiore di quella che, tenuto conto delle condizioni economiche e familiari del prosciolto, avrebbe potuto essere liquidata a lui. Si conferisce, dunque, dal codice vigente alla riparazione pecuniaria il carattere di soccorso, piuttosto che quello di indennità, che non tocca affatto il principio della irresponsabilità dello stato verso i singoli per gli atti compiuti nell'esercizio della sua potestà sovrana. Così il concetto della riparazione pecuniaria rientra in quello più largo dell'assistenza che lo stato, per finalità di carattere sociale, presta a coloro che hanno sofferto la disgrazia di una ingiusta condanna.
Nei citati articoli del codice di procedura penale sono anche indicate le modalità per la presentazione e la documentazione della istanza di riparazione, fissati i termini e i casi di decadenza, come pure è indicato il giudice competente per deliberare in merito alla istanza stessa.
Bibl.: D. Giuriati, Revisione, in Encicl. giur. it., XIV (1906); A. Ravizza, Revisione, in Digesto italiano, XX (1913); Art. Rocco, La riparazione alle vittime degli errori giudiziarî, Napoli 1906; V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, IV, Torino 1932, pp. 671-719.