reverente
Come nell'uso moderno, indica lo stato d'animo o l'atteggiamento esteriore di chi sente o mostra reverenza, ma, in armonia al valore fortemente impegnativo che ha appunto ‛ reverenza ' nel lessico dantesco, esprime l'idea della soggezione, nutrita di rispetto e di timore, che si deve a un'autorità, sia essa morale o intellettuale, politica o religiosa.
Il vocabolo ricorre nella Commedia sia per definire un atteggiamento o un comportamento di D., sia in similitudini apparenti: If XV 45 'l capo chino / tenea com'uom che reverente vada; Pd VIII 41 Poscia che li occhi miei si fuoro offerti / a la mia donna reverenti; e così Pg XXVI 17, XXXIII 25. In un caso, anzi, il valore descrittivo del termine è così ricco che sull'idea del rispetto timoroso prevale quella dell'atteggiamento esteriore con il quale questo sentimento si manifesta: Pg I 51 Lo duca mio allor mi diè di piglio, / e con parole e con mani e con cenni / reverenti mi fé le gambe e 'l ciglio, m'invitò cioè a inginocchiarmi e a chinare il capo davanti a Catone.
Più complessa risonanza concettuale il vocabolo ha negli esempi del Convivio. Al momento di esaminare, per confutarne la validità, la definizione della nobiltà quale antica possession d'avere / con reggimenti belli (IV Le dolci rime 23-24), che la tradizione attribuiva a Federico II di Svevia, D. si preoccupa di dimostrare che la sua confutazione non infirma la reverenza dovuta all'Impero: a questo scopo distingue tra chi, venendo meno alla soggezione dovuta a un'autorità, è ‛ inreverente ', e chi invece, negando la necessità di quella soggezione, è ‛ non reverente ', per concludere che io, che in questo caso a lo Imperio reverenza avere non debbo, se la disdico, inreverente non sono, ma sono non reverente, che non è tracotanza né cosa da biasimare (IV VIII 14); e si vedano anche i §§ 11 (due volte), 13, 15 e 16.
Un secondo gruppo di esempi compare in IV XXV, nell'indicazione delle virtù che sono necessarie all'adolescenza: a questa etade è necessario d'essere reverente e disidiroso di sapere (§ 4). Ma le occorre anche ‛ stupore ', cioè uno stordimento d'animo per grandi e maravigliose cose vedere o udire o per alcuno modo sentire: che, in quanto paiono grandi, fanno reverente a sé quelli che le sente... E però li antichi regi ne le loro magioni faceano magnifici lavorii d'oro e di pietre e d'artificio, acciò che quelli che le vedessero divenissero stupidi, e però reverenti (§ 5). E si veda anche l'esempio del § 6 (quando Adrasto... ricordossi del risponso che Apollo dato avea per le sue figlie... divenne stupido; e però più reverente e più disideroso di sapere), dove anzi il vocabolo, meglio che negli altri casi, indica l'improvviso sbigottimento che s'impadronisce dell'animo umano di fronte alla rivelazione di un intervento divino.