Rettorica [sempre -tt- secondo la grafia medievale, con etimo sentito da rector, non da rhetor; francese, infatti, rect]
Ricordata da D. fra le sette scienze del Trivio e del Quadrivio (Cv II XIII 8), assume nella sua opera un'importanza fondamentale, non solo perché ne condizionò largamente e profondamente l'aspetto letterario, ma perché divenne oggetto, da parte del poeta, di riflessione teorica e segno di una particolare concezione della cultura e dell'arte. Tanta e tale importanza attribuita alla R. si spiega sullo sfondo dell'eredità culturale alla quale D. partecipava.
La R. designò originariamente l'arte di ben costruire un discorso, ma col tempo, presso i Greci e poi presso i Latini, divenne una scienza assai ampia e articolata, sino a includere non più soltanto l'arte del discorso, ma l'espressione letteraria in tutti i suoi generi e le sue manifestazioni. Evolutasi con lo sviluppo dell'attività politica e della consuetudine forense (donde nacquero e si determinarono i due generi dell'eloquenza ‛ deliberativa ' e ‛ giudiziari ') e arricchitasi nel genere epidittico, o panegirico, soprattutto nella tarda antichità, la R. andò sempre più caratterizzandosi come una disciplina scolastica necessaria alla formazione dell'uomo colto accanto alle altre scienze liberali. Nel sistema dell'insegnamento scolastico, quale si costituì alla fine dell'età classica e s'irrigidì attraverso il Medioevo, la R. figura come una delle arti del Trivio assieme alla Grammatica e alla Dialettica, dalle quali si distingue perché ha come compito principale la ‛ persuasione ' (v.), affidata all'ornamento dello stile, che supera le rigide leggi grammaticali e prescinde dal rigore della logica.
Già in Cicerone la R., fondamentale scienza dell'oratore, assurge alla dignità più alta nella scala dei valori culturali, e in Quintiliano essa presiede alla completa formazione dell'intellettuale, dai primi passi fino alla più schietta educazione letteraria. E quantunque il testo che fu alla base di tutta la molteplice produzione scolastica medievale relativa alla R., la cosiddetta Rhetorica ad Herennium, contempli i tre generi fondamentali dell'eloquenza (genus deliberativum, iudiciale, demonstrativum) e si proponga d'insegnare l'arte della persuasione all'oratore propriamente detto, le norme relative all'oratio vennero via via estese alla poesia e a ogni genere di prosa, talché nel tardo Medioevo i trattati di ‛ poetica ' non erano altro che trattati di R., e i trattati di ‛ rettorica ' si estendevano normalmente alla considerazione della poesia.
La sensibilità dantesca per la R. va messa in relazione non solo con lo studio diretto di alcune fra le opere dell'antichità più divulgate, la citata Rhetorica ad Herennium, il De Inventione di Cicerone e l'Ars poetica di Orazio, che egli cita, ma con le ‛ arti poetiche ' dei secoli XII e XIII (di Giovanni di Garlandia, di Goffredo di Vinsauf, di Everardo Alemanno, di Matteo di Vendôme, sui quali v. le voci relative) e soprattutto con le artes dictaminis, nelle quali confluiscono, in seguito al rifiorire della scienza giuridica, il più cospicuo impegno retorico e la tradizione epistolografica della tarda antichità. I retori, o ‛ dettatori ' (v. RETTORICO), al cui magistero D. spesso rimanda, sono appunto i maestri bolognesi, a opera dei quali, pur rimanendo al di qua da ogni prospettiva preumanistica, si era operato un certo rinnovamento rispetto al tipico manierismo artificioso della tradizione. E Brunetto Latini, del cui insegnamento e del cui esempio sicuramente D. si valse, era tornato nella sua Rettorica al grande modello ciceroniano, al quale non solo aderiva, entro certi limiti, per la ricerca di uno stile misurato e organico, ma soprattutto per la concezione della R. quale fondamento e strumento del vivere civile. Una direzione che si affermerà in D. sia nell'impegno e nell'originalità con cui affronterà la prosa volgare, sia nella considerazione dell'eloquenza quale fondamento delle istituzioni civili.
Ma è lo stesso D. a dichiarare l'importanza decisiva che ebbe nello sviluppo della sua formazione l'incontro con la R., che significò propriamente l'incontro con i due grandi elaboratori ed espositori della sapienza antica, Cicerone e Boezio. Infatti nel Convivio, narrando e interpretando quel momento critico della propria vita, in cui la sofferenza per la morte di Beatrice lo aveva indotto a cercare la consolazione nella filosofia, D. ricorda di aver cercato il testo di Cicerone e di Boezio, per trovarvi un esempio di consolazione, e di aver trovato nei loro scritti l'avvio agli studi filosofici, alla ricerca della verità. Fu la suggestione di quegli autori di cui la filosofia era donna, come pareva al poeta (II XII 5), a suggerirgli la ‛ figura ' sotto la quale nascondere la vicenda reale della sua anima, il nuovo amore per la scienza. Questo rapporto analogico fra la persuasiva parola dei maestri e l'utilità in senso scientifico del loro insegnamento da una parte, la bella figura della Donna gentile e il suo riposto significato dall'altra, va posto in relazione con l'impostazione stessa della prima canzone del Convivio, diretta alle intelligenze che muovono il terzo cielo, quello di Venere, corrispondente appunto, secondo la classificazione fatta dallo stesso poeta, alla Rettorica (II XIII 13-14; cfr. anche II XIV 21).
Gli attributi del cielo di Venere, che ne rendono perspicuo il significato simbolico, ossia la chiarezza e la soavità (v. PERSUASIONE), illustrano a loro volta il valore e la funzione della R., la quale con la sua opera illuminatrice e i suoi modi persuasivi conduce all'amore della scienza, in cui propriamente consiste la filosofia. Il rapporto R.-filosofia appare dunque, nel momento in cui D. si propone di affidare all'allegoria la sua esperienza culturale, come una necessità, non essendo altro la R. che la veste in cui la verità può brillare, per chi, naturalmente, sia in grado d'intendere.
Si tratta, in effetti, dello sviluppo di un germe che già aveva dato luogo a un approfondimento in senso critico del discorso della Vita Nuova, quando nel capitolo XXV il poeta aveva sottolineato l'uso da lui fatto della ‛ personificazione ', una figura largamente impiegata dagli antichi, per rendere sensibile l'immagine di un accidente qual è Amore. Solo che, allora, la figura o colore rettorico era considerata soprattutto una ‛ licenza ' concessa al poeta; ossia il carattere di ‛ ornamento ' che la tradizione attribuiva all'elaborazione retorica aveva la preminenza sul concetto di necessaria corrispondenza analogica fra l'immagine significante costruita con l'ausilio dell'arte retorica e il reale significato, che appartiene al dominio della filosofia propriamente detta.
La concezione della R. come teoria dell'ornato è tuttavia presente nel Convivio, quando il commento al ‛ congedo ' della prima canzone (" Ponete mente almen com'io son bella ", dovrebbe dire la canzone a chi non fosse in grado d'intenderne il vero significato; cfr. Cv II XI) sembra appunto avallare l'assoluta distinzione fra la ‛ ragione ' del componimento e il suo rivestimento letterario, fra la bontade e la bellezza, la quale ultima può essere anche gustata per sé, quantunque abbia un valore limitato: la bontade e la bellezza di ciascuno sermone sono intra loro partite e diverse; ché la bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne l'ornamento de le parole; e l'una e l'altra è con diletto, avvegna che la bontade sia massimamente dilettosa (§ 4). Dov'è stato visto riflettersi un principio aristotelico accolto da s. Tommaso (cfr. il commento al Convivio di Busnelli-Vandelli), allorché dice " bella " l'immagine che " perfecte repraesentat rem, quamvis turpem "; laddove è estranea al pensiero di D. questa possibilità, la quale escluderebbe dall'universale principio retorico della convenientia quella considerazione di ordine morale, che presuppone la necessaria corrispondenza fra i gradi dell'elaborazione artistica e quelli dell'impegno etico. A parte il fatto che la bella disposizione delle parti, l'ordine del sermone, di cui parla D. in questo luogo, non riguardano la perfezione rappresentativa quanto l'armonia della composizione nella sua forma esterna, ed è semmai in relazione con il concetto agostiniano del De pulchro et apto. Inoltre la bellezza quale risultato dell'elaborazione retorica non sembra tanto riguardare, in questo caso, l'ornatus con le sue figure di pensiero, che intervengono nel concepimento vero e proprio della poesia e ne sorreggono il senso intrinseco, quanto l'ordine del sermone (così come la grammatica contribuisce alla bellezza con la grandezza della costruzione, e la musica con il ritmo, II XI 9), cioè l'aspetto veramente più tecnico della R. come arte del discorso. A questo più generico significato sembrano riferirsi i versi della Commedia, in cui Beatrice affida a Virgilio il compito di dare a D. ammaestramenti di vita con la sua parola ornata (If II 67-68). Ma si ripropone certo in questo tema quello del Convivio, per il quale attraverso la parola ornata dei grandi scrittori dell'antichità D. aveva ricevuto l'illuminazione della scienza.
D., che nel definire la R. attraverso il suo simbolo celeste si riferisce chiaramente alla tradizione scolastica di questa scienza, ossia al duplice campo dell'oratoria e dell'ars dictaminis (e appare da mane, quando dinanzi al viso de l'uditore lo rettorico parla, appare da sera, cioè retro, quando da lettera, per la parte remota, si parla per lo rettorico, II XIII 14), tiene in gran conto quei precetti retorici atti a rendere gradita agli uditori e ai lettori l'opera letteraria. E se in Cv II XI 6 lo abbiamo visto curare e sottolineare la finezza della conclusione, in III X 5-6 lo vediamo fare altrettanto, quando indica la lodevole figura retorica con cui ha chiuso la canzone. Al dovere che ha il ‛ rettorico ', inteso appunto come un fabricatore, di curare la parte finale dell'opera sua si fa del resto esplicito riferimento in Cv IV XXX 2 (ciascuno buono fabricatore, ne la fine del suo lavoro, quello nobilitare e abbellire dee in quanto puote). Così, per non soffermarci su altri particolari precetti retorici cui D. intende esplicitamente attenersi (il non parlare di sé, I II 3; il dissimulare al fine di manifestare la reale bellezza di una cosa fingendo il contrario, VII 12; l'esser molto laudabile figura in rettorica quando le parole sono a una persona e la 'ntenzione è a un'altra, III X 6; l'usar prudenza per non incorrere nelle obiezioni degli avversari, IV VIII 10; e in questo caso è evidente che D. accosta il suo argomentare a quello dell'oratoria - generico è il riferimento di III XI 9 a coloro che si dilettano studiare in Rettorica o in Musica, e l'altre scienze fuggono e abbandonano, che sono tutte membra di sapienza -), in II VI 6 a proposito della prima canzone viene considerato come massimo compito del ‛ dicitore ' quello di persuadere, e questo fine viene affidato soprattuto all'esordio, dove egli promette di dir cose nuove suscitando l'attenzione del pubblico: l'‛ abbellimento ' non è altro che il modo con cui si opera la persuasione, che è compito precipuo della Retorica.
Tale accorgimento retorico relativo all'esordio, così palese nella prima canzone del Convivio, compare in altri componimenti lirici, quantunque in forma più coperta: si pensi a rime come Donne ch'avete intelletto d'amore, / i' vo' con voi de la mia donna dire (Vn XIX 4 1 ss.), che predispone l'eletto pubblico ad ascoltare un nuovo tema laudativo; O voi che per la via d'amor passate (VII 3 1 ss.), Venite a intender li sospiri miei (XXXII 5 1 ss.), Voi che savete ragionar d'amore (Rime LXXX), rime che sottolineano proprio nell'apostrofe dei primi versi l'eccezionale condizione che intendono rappresentare; e infine Così nel mio parlar voglio esser aspro (Rime CIII), che promette appunto d'inaugurare un insolito stile, e Doglia mi reca ne lo core ardire (Rime CVI, che prevede la meraviglia degli uditori per le parole che dirà (vv. 3-5).
Analogamente il primo capitolo del De vulg. Eloq. e quello della Monarchia contengono un'affermazione di originalità, che equivale a quella promessa di dir cose nuove, cui D. accenna nel Convivio come a una fondamentale norma retorica. L'esordio infatti, che nei trattati di R., e quindi di poetica, veniva considerato come uno dei momenti di maggiore impegno per l'oratore e lo scrittore, ottiene una particolare considerazione da parte di D., che lo impiega largamente, ma anche ne illustra la convenienza, non solo nel passo citato del Convivio e nel commento alle altre canzoni, dove si distingue chiaramente il proemio dalle successive divisioni, ma soprattutto in un famoso luogo di Ep XIII. Questa (§ 44-52) in merito all'esordio del Paradiso fa una distinzione fra il ‛ prologus ' degli oratori, il ‛ preludio ' dei musici e il ‛ proemio ' dei poeti, e attribuisce a quest'ultimo il duplice compito di preannunciare l'argomento, destando l'attenzione del lettore, e d'invocare l'ausilio divino: duplice compito assolto sistematicamente da D. nelle tre cantiche del poema. Ma importa particolarmente, per i rapporti fra D. e la tradizione dell'insegnamento retorico, il dichiarato rimando alla Nova Rethorica (v. CICERONE), di cui l'autore dell'epistola, discostandosi tuttavia alquanto dall'antica fonte, vede applicato nel Paradiso rigorosamente i dettami, quando sottolinea nel proemio la ricerca della benevolenza, dell'attenzione e dell'interesse del lettore attraverso la promessa di dire cose utili, meravigliose e tali che anche altri, divenendone degni, possano poi direttamente provare. In realtà l'articolazione di questa formula vale per l'ultima cantica e non per le due precedenti, in cui l'impegno del lettore viene sollecitato soltanto attraverso la prospettiva di un viaggio eccezionale e difficoltoso.
Il condizionamento della R. appare in tutta la sua importanza, se al di là della considerazione teorica dei rapporti fra ornatus e scientia, al di là dell'ottemperanza ai canoni della dispositio, consideriamo la cura posta da D. nell'elocutio, non solo nell'effettivo comporre (e si rimanda per questo alle singole voci sulle figure retoriche), ma nella riflessione riguardante i problemi dello stile. Quest'ultima si sviluppa in stretto rapporto con la discussione sulla lingua volgare e media il passaggio, assai importante nella meditazione letteraria di D., fra il problema ‛ politico ', ‛ civile ', insito nell'originale impostazione della questione linguistica e quello propriamente rivolto alla ricerca dei fondamenti dell'arte poetica.
Se nel Convivio la qualità essenziale di una lingua è riposta in un attributo retorico quale la chiarezza e adeguatezza dell'espressione al concetto (in ciascuna cosa di sermone lo bene manifestare del concetto sì è più amato e commendato, Cv I XII 13) e il pregio di un componimento poetico è indicato nella dolcezza e armonia ottenuta col legame musaico (VII 14), che altro non è se non l'applicazione delle norme offerte dalle Poetriae, in VE II IV 2 la poesia è definita nella famosa formula fictio rethorica musicaque poita e l'insegnamento retorico delle ‛ arti poetiche ' viene additato a modello per i nuovi poeti in volgare e, naturalmente, per chi intenda, come l'autore stesso, fornire a essi quel corredo già apprestato ai poeti latini: Unde nos doctrinae operi intendentes, doctrinatas eorum poetrias aemulari oportet (II IV 3). Sicché la nozione di ‛ volgare illustre ', che assume nel trattato dapprima il più generico significato di linguaggio d'arte per eccellenza, distinto cioè dal rozzo o ridicolo parlare quotidiano o regionale, e poi il più specifico significato di linguaggio della più alta espressione poetica quale va affrontata nella forma adeguata della canzone, è strettamente connesso con la considerazione della R. come l'arte capace di dare armonia e dolcezza e quindi dignità al discorso attraverso il legame sapiente costituito dallo stile opportunamente scelto e coerentemente applicato.
Difatti al fondo del De vulg. Eloq. c'è la teoria retorica degli stili, dei generi dell'ornatus, che costituisce la parte più importante dell'elocutio, soprattutto quando, una volta individuato il volgare illustre, se ne distinguono i gradi, riproducendo la tripartizione tradizionale (umile, medio, grande) nelle tre categorie del pure sapidus, del sapidus et venustus, e del sapidus et venustus etiam et excelsus (II VI 5), e collegando il grado dell'elaborazione retorica alla dignità dei temi. Sicché la canzone, che si distingue dalle forme minori della cantilena e della ballata per la nobiltà della sua origine e l'altezza dei suoi contenuti, richiede il massimo di elaborazione retorica, quella che D., secondo la terminologia medievale (si pensi alla tripartizione dello stile in elegiaco, comico, tragico, IV 5-7) e secondo il suo particolare concetto dell'arte come armonico legame, chiama tragica coniugatio (VIII 8). In effetti la trattazione dantesca, che tiene fermo il principio retorico della convenientia dello stile con la sententia, per il quale anche cita la poetica oraziana (§ 4), segue il procedimento inverso a quello tradizionale, perché parte dalla determinazione dello stile più nobile, dalla caratterizzazione del poeta degno dello stile tragico, per poi ricercare i contenuti adeguati a quello stile. Procedimento che, invero, non è solo condizionato dall'impostazione stessa dell'opera, fondamentalmente dedicata all'elocutio, ma dalla preminenza che D. sentiva di dover dare, nei limiti della pur osservata norma della corrispondenza fra veste retorica e tema poetico, al primo dei due elementi. Si spiega in questa prospettiva il quasi esclusivo interesse dedicato a quello stile sommo che rappresenta il suo massimo ideale di espressione artistica e in cui D. vede convergere, con la ‛ gravitas sententiae ', la ‛ superbia carminum ', la ‛ constructionis elatio ' e la ‛ excellentia vocabulorum '.
S'intende che la caratterizzazione di tale stile, che si sviluppa nel libro II del De vulg. Eloq., corrisponde all'ideale del linguaggio lirico, nel quale naturalmente assumono un particolare rilievo la scelta lessicale in base a un equilibrato criterio di dolcezza e la considerazione propriamente musicale del ritmo. Se guardiamo invece all'esperienza della prosa epistolare, della prosa scientifica (v. PROSA) e del poema, vedremo che alla ricerca vigile e costante dell'ornatus, in cui predominano le ripetizioni, le paronomasie, i parallelismi, le anafore, e in cui la transumptio e la perifrasi (v.) rendono sempre complessa la frase e difficile il discorso, fa riscontro un'altrettanto intensa ricerca di varietà, anch'essa riconducibile allo spirito dell'insegnamento retorico. Varietà che è soprattutto riscontrabile nella Commedia, in cui viene meno proprio la scelta organica dei vocabula secondo la teoria del De vulg. Eloq. e s'intreccia il melodioso stile lirico con quello ora grave ora comico dell'invettiva, e con quello ora complicato ora austero e immaginoso della scienza. La mescolanza degli stili costituisce propriamente uno degli aspetti dell'arte dantesca della Commedia, ma è anche un indice notevole della sua formazione retorica, tipicamente medievale, per la quale il poeta, mentre è teso verso la ricca elaborazione formale e avverte insieme il carattere istituzionale degli stili e la necessità di adeguare volta per volta il genere di ornato alla qualità del tema scelto, sfugge all'esigenza che sarà propria del classicismo, e cioè alla rigorosa selezione linguistica e all'uniforme temperanza dello stile. Anzi egli, proprio per la prospettiva innovatrice della retorica cristiana, che aveva appreso dalla consuetudine con i testi sacri a superare la rigida distinzione fra il linguaggio volgare e quotidiano e quello aulico, concepisce un poema sacro ampiamente rinvigorito dalle esperienze più varie dal punto di vista retorico ed espressivo.
Non va trascurato, tuttavia, quell'aspetto della R. dantesca che ci riporta al costume scolastico dell'esegesi, quantunque esso investa la complessa formazione intellettuale del poeta. Le divisioni sviluppate nella prosa della Vita Nuova e del Convivio sono indice notevole della familiarità dantesca con la diffusa tradizione letteraria dell'accessus ad auctores (v. PROSA). Ne è un significativo esempio l'Ep XIII, impegnata appunto nella delucidazione del complesso sistema retorico che presiede alla composizione della terza cantica. Si pensi alla già menzionata illustrazione dell'esordio, ma soprattutto alla determinazione della forma tractatus e della forma tractandi (§§ 26-27), che mette in luce, oltre i caratteri più esterni, la struttura propria del poema nel suo vario adeguarsi ai dettami dell'insegnamento retorico, quali quelli della fictio, della descriptio, della digressio, della transumptio, della ratiocinatio e dell'exemplum.
Bibl. - E. Faral, Les arts poétiques du XII et du ' XIII siècle, Parigi 1924; H. Pflaum, Il " Modus tractandi " della D.C., Firenze 1938; A. Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio, Roma 1943; E.R. Curtius, Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter, Berna 1948; A. Schiaffini, A proposito dello ‛ stile comico ' di D., in Momenti di storia della lingua italiana, Roma 1953, 43-56; ID., ‛ Poesis ' e e ‛ poeta ' in D., in Studia philologica et litteraria in honorem L. Spitzer, Berna 1958, 379-389; E. Auerbach, Literatursprache und Publikum in der Lateinischen Spätantike und im Mittelalter, ibid. 1958 (traduz. ital. Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano 1960, 31-67); F. Di Capua, Insegnamenti retorici medievali e dottrine estetiche moderne nel ‛ De Vulgari Eloquentia ', in Scritti minori, II, Roma 1959, 252-255; F. Tateo, R. e poetica fra Medioevo e Rinasc., Bari 1960, 207-212; F. Quadlbauer, Die antike ‛ genera dicendi ' im lateinischen Mittelalter, Vienna 1962; A. Bucx, Gli studi sulla poetica e sulla r. di D. e del suo tempo, in Atti del Congresso internaz. di studi danteschi, Firenze 1965, 249-278 (con bibl.); G. Nencioni, D. e la r., in D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 91-112; F. Tateo, Questioni di poetica dantesca, Bari 1971, 93 ss.