RESURREZIONE (dal lat. resurrectio; ted. Auferstehung)
È propriamente il "rialzarsi" (gr. ἀνάστασις) dei morti, il loro ritorno in vita, o piuttosto, secondo le concezioni primitive, il ritorno della vita nel cadavere, la sua rianimazione. Esempî di risuscitamenti singoli si hanno in tradizioni religiose o nel folklore di popoli svariatissimi; alla base del concetto di resurrezione sta senza dubbio quel complesso d'idee per cui la morte è concepita quasi come un sonno, e non si dà vita senza materia, senza un corpo; ma l'idea della resurrezione, o della rinascita, può essere suggerita anche dal constatare ciò che si verifica nella vegetazione, o nei corpi celesti, come la Luna e il Sole, che anch'essi "muoiono" e "rinascono". Ma conviene distinguere tra le resurrezioni miracolose (avvenute per lo più in seguito al contatto o alla parola di un essere soprannaturale) di individui singoli alla vita ordinaria, e la resurrezione generale di cui parlano alcune dottrine escatologiche. Così pure, conviene distinguere tra la resurrezione dei morti in senso stretto e l'immortalità: il parlare, come fa qualche autore, di "resurrezione dello spirito" genera piuttosto confusione. Non è, pertanto, una vera resurrezione la vita umbratile dei defunti nelle tombe, anche se in certo modo ridestati dall'offerta di sacrifici, quale si trova nella religione dell'Egitto antichissimo, ove poi il defunto venne identificato con Osiride, divinità che muore e rinasce; così come muoiono e rinascono le divinità dei culti agrarî, talvolta sviluppatisi in misteri (v.), nei quali anche l'iniziato partecipa alla sorte del dio e si assicura pertanto l'immortalità beata. Tuttavia anche nelle dottrine misteriche manca la partecipazione del corpo all'immortalità, e tanto più l'universale risveglio dei morti tutti insieme. Sicché la credenza nella resurrezione vera e propria ci appare limitata a un gruppo relativamente esiguo di popoli e di religioni.
Una resurrezione generale, di tutti gli uomini, alla fine del ciclo di 12.000 anni, con una ricostituzione dei corpi che si sono sfatti nei varî elementi, costituisce uno dei concetti fondamentali dell'escatologia dello zoroastrismo: tale credenza, attestata già presso i Magi (Teopompo, in Diog. Laer., Prooem., 9; cfr. Plutarco, De Is. et Os., 47), si è conservata presso i Parsi.
Secondo parecchi scrittori, dallo zoroastrismo l'idea della resurrezione sarebbe passata al giudaismo; altri (R. H. Charles, G. F. Moore) osservano invece che questa concezione risponde in tutto al carattere della religione degli Ebrei e si inquadra perfettamente nello sviluppo storico di essa, sì da potersi perfettamente spiegare come d'origine indigena, sia pure ammettendo una limitata influenza dello zoroastrismo. L'idea della restituzione dei morti alla vita (teḥiāt ha-mētīm) si trova chiaramente espressa in Isaia, XXVI, 12-14 (passo circa la cui datazione i critici indipendenti discordano, pur ritenendolo generalmente postesilico: si ammette da questi critici che su esso possano avere influito Ezechiele, XXXVIII, 12-14, e Isaia, LXVI, 7-9). La fede nella resurrezione è strettamente legata a quella nel regno messianico, al quale per tal modo possono partecipare anche i giusti defunti. Qualunque ne sia l'origine, certo è che questa fede prese particolare forza al tempo della persecuzione di Antioco IV Epifane e della lotta nazionale contro la Siria, allorché si affermò specialmente riguardo ai martiri e trovò vigorosa espressione in opere della letteratura canonica ed extracanonica, e in special modo nelle Apocalissi. Ma, oltre che con la dottrina del regno messianico, la resurrezione appare strettamente legata a quella del giudizio finale sui giusti e sui peccatori: onde si trovano, l'una accanto all'altra, due concezioni della resurrezione diverse tra loro, una che ne fa l'appannaggio dei soli giusti Israeliti (soprattutto i martiri), l'altra che ammette una resurrezione anche dei malvagi, per essere puniti. Ma vi fu più che una varietà di opinioni: poiché la dottrina della resurrezione, generalmente non accolta nel giudaismo alessandrino, costituì anche in Palestina uno dei punti controversi tra farisei e sadducei, i quali non l'ammettevano. Con il prevalere dei farisei e lo stabilirsi del cosiddetto giudaismo normativo essa divenne tuttavia un dogma; e si giunse ad affermare che precisamente coloro che rinnegavano la resurrezione non avrebbero avuto parte nel mondo avvenire, stabilendo così un'eccezione specifica - insieme con qualche altra - mentre si diffondeva il concetto che a quel "mondo avvenire" avrebbero partecipato tutti gl'Israeliti e anche, ma ciò non senza qualche contrasto, i giusti tra i gentili.
Del contrasto fra sadducei e farisei abbiamo testimonianza anche nel Nuovo Testamento, dove troviamo più che un'eco delle difficoltà suscitate dal concetto del risuscitamento dei corpi malati, deformi o comunque imperfetti e da quello del riprendersi degli atti della vita materiale. Nel giudaismo normativo la risposta alla prima questione fu che i corpi sarebbero risorti tali quali al momento della morte, ma che Dio li avrebbe poi resi perfetti. Nei Vangeli sinottici, per contro, si trova (Matteo, XXII, 23-33 e paralleli) la risposta di Gesù, precisamente rivolta a un sadduceo: "nella resurrezione saranno come angeli in cielo". Con maggiore sviluppo dottrinale la questione fu trattata da S. Paolo (I Corinzî, XV, specie 35 seg.) ricorrendo alla contrapposizione del "corpo spirituale" (σῶμα πνευματικόν) dei risorti, a quello "terreno" o "animale" (ψυχικόν).
Nel cristianesimo pertanto la "resurrezione della carne" è un dogma, che fu tuttavia talvolta avversato o inteso in maniera particolare. Avversi alla resurrezione furono, anzitutto, gli gnostici; ma anche pensatori più propriamente cristiani, per es., Clemente Alessandrino e Origene, non nascosero una certa ripugnanza, per lo meno a intendere la resurrezione nel senso crudamente letterale e realistico in cui la concepirono, per es., Tertulliano, difendendo il dogma contro Marcione, e gli gnostici (De carne Christi e De resurrectione carnis) e, con lui, i sostenitori del millenarismo (v.), o i seguaci del montanismo (v.). Anche S. Ireneo ne fa un caposaldo della sua confutazione dello gnosticismo. Un argomento comune (anche in Tertulliano e, d'altronde, negli scritti rabbinici) in difesa di essa fu che è giusto che, come l'anima, così anche il corpo sia premiato o punito con essa. Così nella teologia cristiana più matura la resurrezione della carne è difesa, e intesa in senso spirituale, da S. Epifanio e da S. Efrem, da S. Gregorio di Nissa e da Cirillo di Gerusalemme, da Enea di Gaza e da S. Giovanni Damasceno, tra gli Orientali; da S. Ilario di Poitiers, da S. Girolamo e da S. Agostino, tra i Latini. In maniera generalissima, si può dire che il concetto comune a questi Padri è che il corpo risorto sarà il medesimo, ma non tal quale: τοῦτο, ma non τοιοῦτον, secondo Cirillo di Gerusalemme. Insomma, per quanto spiritualizzato, il corpo dei risorti conserva - secondo la dottrina cristiana - la sua natura (resurrezione della carne), non è trasformato in etereo, o igneo, ecc. Particolarmente notevole, fra i Padri latini, la discussione dell'argomento fatta da S. Agostino nel De civitate Dei (XXII, cap. 12-29). È in parte dovuto all'enorme risonanza del pensiero agostiniano, in parte al crescente interesse per l'escatologia individuale in confronto di quella collettiva, il fatto che la teologia successiva non si occupò di questo dogma con lo stesso ardore della teologia patristica.
Il dogma della resurrezione fu più specialmente investigato dall'epoca della Scolastica in poi (v. specialmente S. Tommaso, Summa, Supplem., quaestio 75 segg.), mentre contro le varie negazioni si moltiplicavano i decreti della Chiesa. La dottrina cattolica circa la resurrezione della carne si può ridurre ai seguenti punti: la resurrezione futura dei morti non è un fatto che si possa dimostrare con la sola ragione naturale; tuttavia, supposta la sua rivelazione, la ragione ne offre argomenti di congruenza. Non è un fatto naturale, ma soprannaturale, dipendente dall'onnipotenza di Dio: suo simbolo è la resurrezione di Cristo, alla quale deve conformarsi quella universale degli uomini. Alla fine del mondo tutti gli uomini risorgeranno con i medesimi corpi quae nunc gestant, ut recipiant secundum opera sua, sive bona fuerint sive mala (Concil. Later. IV, cap. Firmiter); questa identità si ha sufficientemente se il corpo dei risorti è costituito almeno in parte con la materia della sua vita mortale. I corpi dei risorti avranno doti speciali, alcune delle quali saranno comuni ai reprobi e agli eletti, mentre altre saranno particolari a questi ultimi. Le doti comuni sono l'immortalità, e inoltre l'integrità, per cui ai corpi dei risorti non mancherà nulla di ciò che spetta ad naturae veritatem, atque ad hominis decus et ornamentum (Catech. Conc. Trident.). Le doti proprie agli eletti sono l'impassibilità, la luminosità, l'agilità, la sottigliezza, già mostrate da Cristo nel suo corpo dopo la sua resurrezione, la quale è simbolo e tipo di quella universale. V. anche gesù cristo.
Dal giudaismo e dal cristianesimo la credenza nella resurrezione passò anche nell'Islām: dove tuttavia non mancarono pensatori e teologi che cercarono di spiritualizzare le concezioni piuttosto grossolanamente materialistiche di Maometto (v. islamismo, XIX, p. 609).
Iconografia. - Per l'iconografia della resurrezione dei morti, v. giudizio universale, XVII, p. 312, e tavv. LXXXIX-XCII.
La Resurrezione di Cristo è uno dei temi le cui vicende meglio dimostrano quanto l'iconografia giovi nella storia dell'arte a seguire il diramarsi di svariate correnti, ad accertare l'azione di fattori diversi - le Scritture, la liturgia, i "misteri" -, a riconoscere elementi tradizionali anche nelle creazioni più individuali. Sembra che non sia stata rappresentata nella primitiva arte cristiana, ed è improbabile che sia simboleggiata in qualche antico sarcofago (Roma, Museo cristiano lateranense) nella corona col monogramma di Cristo, sulla croce. Quando nei secoli V e VI, gli artisti presero a trattarla, non immaginarono il sorgere del Cristo dal sepolcro: si attennero ai quattro Evangeli, che non avevano punto definito l'atto del risorgere, e rappresentarono invece la visita delle pie donne al sepolcro o le successive apparizioni del Redentore (avorî del Museo britannico di Londra, del Museo nazionale di Monaco, della raccolta trivulziana nel Castello di Milano; miniatura del ms. del monaco Rabula nella Laurenziana a Firenze); poi, seguendo gli apocrifi, a quelle rappresentazioni fu unita la Discesa al Limbo, che nell'Oriente cristiano e nelle regioni a esso più congiunte, come l'Italia, divenne figura principale della resurrezione, e suo sinonimo: ἡ ἀνάστασις. L'"anastasis" e le altre rappresentazioni su ricordate ebbero molte varietà, che gli studî iconografici cercano di localizzare sempre meglio, anche nei particolari (numero delle pie donne nella Visita al Sepolcro; forma del sepolcro, ecc.); ma sulle minori diversità iconografiche emerge fortemente, come essenziale nella stessa natura dell'arte, il contrasto che andò crescendo dal sec. XI in poi nell'iconografia della resurrezione tra l'Oriente cristiano, fedele a quella tradizione, e l'Occidente rivolto a nuove concezioni. L'arte dell'Oriente cristiano qualche volta, se pur raramente, aveva rappresentato il Cristo nell'atto di risorgere; l'arte occidentale, e prima specialmente dove era meno soggetta a influssi orientali, preferì sempre più, dall'età romanica in poi, quel modo immediato di rappresentare la resurrezione, dando minore importanza agli episodî collaterali, o tralasciandoli del tutto. Dal sec. XI al XIII il tema del Cristo risorgente si diffonde in Occidente, e prima nei mss. miniati, come se fosse evocato dalle parole stesse degli antifonarî; penetra largamente nel Dugento anche in Italia: se Duccio e Giotto rappresentano ancora la Resurrezione mediante la Visita al Sepolcro e il Noli me tangere, nel Trecento la nuova iconografia soppiantò interamente l'antica, che persistette invece nell'arte dell'Oriente cristiano.
Anche nel nuovo tema, che sorse ed ebbe fortuna da un immaginare più realistico e audace, si costituirono presto variazioni ben definite e tradizionali: il Cristo fu rappresentato in atto ora di sorgere faticosamente fuor dal sarcofago, ora di sostare su questo, ora librato in alto; ed è singolare vedere come quelle varianti si siano perpetuate attraverso i secoli anche nelle opere improntate all'individualità di grandi maestri. Ma dal Rinascimento in poi questa erompe pur entro gli schemi tradizionali e dà valore di creazioni nuove all'affresco di Piero della Francesca (Borgo S. Sepolcro) e al Cristo risorgente di L. Andreotti nell'arco di Bolzano; al rilievo di L. della Robbia nel duomo di Firenze e all'estatica Resurrezione del Perugino nella Pinacoteca Vaticana; alla mistica meteora della tavola di M. Grünewald (Colmar, museo) e ai disegni in cui Michelangelo sembra liberare l'umanità dai vincoli della carne.
Bibl.: C. Clemen, Das Leben nach dem Tode im Glauben der Menschheit, Lipsia 1920; P. Volz, Jüdische Eschatologie von Daniel bis Akiba, Tubinga 1903; R. H. Charles, Eschatology, a critical history of the doctrine of the Future Life, 2ª ed., Londra 1913; E. König, Geschichte der alttestam. Religion, 3ª-4ª ed., Gütersloh 1924, p. 581 segg.; W. Bousset, Die Religion des Judentums, 3ª ed., Tubinga 1926, c. 13; C. F. Moore, Judaism in the first centuries of the christian era, II, Cambridge Mass. 1927, pp. 295-317, 338-342, 379-394; C. Pascal, Le credenze d'oltretomba, 2ª ed., Torino 1924, II, p. 128 segg. Per il cristianesimo, v. escatologia e le principali storie dei dogmi (v. dogma); per l'Islām, v. islamismo. - Per l'iconografia, v.: G. Millet, Recherches sur l'iconographie de l'Évangile, Parigi 1916, pp. 510-554; O. Schönewolf, Die Darstellung der Auferstehung Christi, Lipsia 1909; H. Schrade, Ikonographie der christlichen Kunst, I: Die Auferstehung Christi, Berlino 1932.