RESTAURO
(XXIX, p. 127; App. II, II, p. 698; IV, III, p. 210)
Inquadramento generale
di Michele Cordaro
C. Brandi, come è noto, agli inizi degli anni Sessanta aveva riunito in un unico volume i suoi scritti teorici dando una impostazione unitaria e variamente articolata alla moderna metodologia del restauro. I suoi principi ispiratori diventarono i cardini della Carta del restauro del 1972 e il dibattito successivo non poté prescindere dalla definizione critica e storica elaborata dallo studioso senese. L'Istituto Centrale del Restauro di Roma, fondato da C. Brandi, ha proseguito il suo impegno istituzionale nella didattica, nell'aggiornamento professionale e nella realizzazione di importanti interventi conservativi (basti ricordare la ricognizione dei danni causati dal terremoto del 1976 che colpì il Friuli e il pronto intervento successivo, diffuso in una vasta area territoriale per quello che riguarda i dipinti murali, o ancora i r. degli affreschi della chiesa superiore di San Francesco ad Assisi, 1976-83). Sotto la direzione di G. Urbani (1974-83) ha approfondito poi la ricerca tecnico-scientifica per un più efficace sistema d'individuazione diagnostica dello stato di conservazione delle varie tipologie di materiali costitutivi del patrimonio culturale e conseguentemente per un più sicuro controllo dei materiali e dei procedimenti d'intervento. Urbani ha colto inoltre l'importanza di una programmazione degli interventi, fondata sull'ordine delle priorità e sul dimensionamento correlato delle risorse finanziarie e professionali, individuando anche gli aspetti quantitativi e qualitativi della formazione dei tecnici qualificati. Sono le indicazioni che emergono dal Piano Pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria, coordinato da Urbani e realizzato dall'Istituto Centrale del Restauro con la collaborazione della Tecneco e di numerosi docenti universitari di discipline sia scientifiche che umanistiche (1975).
A Firenze le conseguenze gravissime della piena dell'Arno del 1966 attivarono negli anni successivi risorse necessarie al recupero e al r. di gran parte dei beni danneggiati dall'alluvione, potenziando i laboratori tecnici e determinando un'azione decisa di interventi sul patrimonio storico-artistico, librario, archivistico e monumentale della città; in particolare l'Opificio delle Pietre dure, sotto la guida di U. Baldini, ha visto aumentare gli spazi operativi con l'utilizzazione di ampi locali della Fortezza da Basso, ed è stato dotato anche di laboratori di diagnostica e di ricerca. Ugualmente un notevole potenziamento hanno ricevuto le strutture della Soprintendenza per i beni artistici e storici di Venezia finalizzate all'attività di conservazione e di r., con i laboratori della Misericordia e di San Gregorio, della Soprintendenza di Bologna con il Centro per la conservazione delle sculture all'aperto, della Soprintendenza Archeologica di Firenze. La ricerca ha coinvolto con notevole impegno, ma con insufficiente coordinamento, oltre alle strutture istituzionali che operano nell'ambito del ministero per i Beni culturali e ambientali anche laboratori di università e di società private e sezioni operative appositamente create nell'ambito del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
L'indicazione di Urbani rivolta alla definizione non empirica di una ''scienza della conservazione'' ha trovato dunque negli anni Ottanta un significativo impulso che si è rivolto essenzialmente a una più precisa analisi dei processi meccanici, chimico-fisici e biologici del degrado dei materiali costitutivi delle opere di interesse artistico, storico e culturale e a una più raffinata possibilità di individuazioni diagnostiche tramite l'utilizzo degli strumenti più moderni offerti dalla tecnologia. Soprattutto nel campo delle indagini non distruttive (che non implicano il prelievo di campioni per il riconoscimento delle caratteristiche dei materiali e dei prodotti di deterioramento) si sono compiuti notevolissimi progressi che hanno portato a un più sicuro e consapevole risultato per la definizione dei procedimenti conservativi e di restauro. La spettroscopia con raggi X (diffrattometria e fluorescenza), le indagini termovisive o riflettografiche, l'olografia a doppia esposizione, la gascromatografia per l'individuazione della natura delle sostanze organiche, il microscopio elettronico a scansione sono alcune delle metodiche che più hanno contribuito a una più corretta definizione dello stato di conservazione di un manufatto. Hanno consentito inoltre la migliore comprensione delle conseguenze che uno dei fattori più gravi del degrado, l'inquinamento prevalentemente urbano, sempre più intenso e incontrollabile, produce sul patrimonio culturale, soprattutto, ma non solo, quando è esposto all'aperto.
Il rapido progredire del degrado di paramenti lapidei di importanti complessi monumentali e archeologici, con gli annessi apparati decorativi, scultorei o pittorici, l'aggravarsi dei fenomeni di corrosione per manufatti in bronzo o in marmo esposti all'aperto, la consapevolezza che i fattori inquinanti esterni interferiscono inevitabilmente anche con lo stato delle opere conservate all'interno degli edifici, per es. chiese o musei, hanno causato un giustificato allarme che, in una dimensione urbanistica, è stato proposto con forza soprattutto per la salvaguardia e la conservazione del patrimonio archeologico di Roma. Una legge speciale (l. 23 marzo 1981 n. 92, cosiddetta ''legge Biasini'') ha erogato le risorse finanziarie occorrenti alla revisione e allo studio di importanti monumenti romani, quali per es. gli Archi di Costantino e di Settimio Severo, le Colonne di Traiano e Antonina, permettendo la progettazione e l'attuazione di interventi conservativi opportuni, anche se con la consapevolezza del loro carattere non risolutivo.
La necessità di periodiche manutenzioni e il dibattito sull'efficacia e sulla natura delle sostanze protettive superficiali, in grado di impedire l'azione diretta degli agenti inquinanti sulla superficie dei manufatti, sono le conseguenze di quella complessa esperienza. Analoghe conclusioni hanno comportato gli studi e gli interventi su monumenti scultorei isolati, in bronzo o in pietra, per es. la statua equestre del Marc'Aurelio, nella piazza del Campidoglio a Roma, con la più facile soluzione in simili casi della sostituzione degli originali con copie, pratica questa soprattutto diffusa per le statue esposte all'esterno di chiese o edifici fiorentini. Ugualmente in altre parti d'Italia e d'Europa interventi mirati alla conservazione e alla protezione dagli agenti inquinanti di significativi edifici di età medievale e rinascimentale o di monumenti archeologici (le cattedrali di Ferrara, Bologna, Bruges, Losanna, Chartres, Venezia, il Battistero di Parma, San Zeno a Verona, l'Acropoli di Atene e altri) hanno ampliato la risonanza del problema, attivando convegni e ricerche in vari paesi europei.
Parimenti hanno avuto notevole risonanza i problemi connessi all'esigenza di riparare i danni, spesso rovinosi, causati dagli eventi sismici che in Italia si succedono con particolare frequenza, investendo in modo traumatico estese zone e importanti centri storici. I terremoti di Ancona, del Friuli, della Valnerina, dell'Irpinia, con conseguenze gravi anche per il centro storico di Napoli, e della Basilicata, hanno posto in evidenza da un lato la vulnerabilità del patrimonio edilizio antico, con il connesso apparato decorativo e le opere d'interesse storico e culturale in esso conservate, fragilità causata spesso anche dall'incuria precedente agli eventi sismici e dalla mancata manutenzione; dall'altro hanno determinato interventi di riparazione, e a volte di ricostruzione, che, utilizzando materiali e procedimenti desunti dalla tecnologia dell'edilizia moderna, hanno snaturato il senso e la funzionalità degli organismi architettonici antichi.
Questa situazione è resa ancora più grave dalla necessità che gli interventi non solo riparino i danni, ma resistano anche, sulla base di una normativa precisa e con un margine di sicurezza più ampio per le persone, a possibili eventi sismici futuri. I calcoli e le tecniche di consolidamento strutturale, peraltro nella gran parte dei casi fondati sui sistemi costruttivi moderni, hanno effetti dirompenti e invasivi rispetto agli edifici antichi, e hanno innestato pertanto polemiche e dibattiti intorno alla loro legittimità, favorendo la conseguente ricerca di possibili e funzionali alternative. È questo il tema di un'iniziativa che fu promossa da Urbani e dall'Istituto Centrale del Restauro con una mostra dal titolo La protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico, con i saggi di approfondimento pubblicati in catalogo (1983). Il nodo del dibattito riguarda fondamentalmente il fatto se siano legittimi ed efficaci i presidi esterni di consolidamento, usati nelle tecniche di consolidamento tradizionali anche a scapito della immagine tramandata del monumento o dell'edificio, oppure se siano più opportuni consolidamenti invisibili che utilizzano cordoli, iniezioni di cemento o di resine, reticoli cementati, reti elettrosaldate e altro. Una commissione interministeriale di studio è stata nominata nel 1984 allo scopo di definire gli interventi più idonei a preservare dai rischi sismici il patrimonio edilizio antico, con la sua specificità costruttiva, nel rispetto però delle esigenze di sicurezza e della normativa generale in materia.
Le implicazioni teoriche e metodologiche derivanti dal dibattito sugli esiti e sull'efficacia degli interventi conservativi degli edifici e dei monumenti esposti all'aperto, come pure, sulla prevenzione del rischio sismico e sulle metodologie di intervento conseguenti, sono numerose e risultano a volte dirompenti rispetto agli equilibri che la teoria elaborata da C. Brandi e le formulazioni della Carta del restauro del 1972 avevano saputo raggiungere. Anzi ne è derivata un'occasione per un attacco esplicito ai presupposti su cui si fondavano le definizioni di metodo indicate da Brandi, soprattutto da parte di architetti e, in misura minore, di archeologi. Si rimprovera a Brandi una visione elitaria del r. e la scarsa considerazione per il tessuto storico e culturale minore, per es. l'edilizia antica o la cultura ''materiale''; si nega la validità delle sue proposte per l'architettura, dal momento che esse sarebbero troppo legate ai principi e alle esigenze del r. pittorico e degli oggetti d'arte per adattarsi anche a tipologie di manufatti diversi, aventi ciascuno una propria specificità. Il presunto eccessivo rigorismo delle formulazioni di Brandi favorirebbe una progressiva ''ruderizzazione'' del patrimonio architettonico, e ancor di più archeologico, esposto inevitabilmente all'aperto, e dunque soggetto ai danni dell'inquinamento atmosferico, oltre che dei possibili rovinosi effetti degli eventi sismici. Per gli archeologi, interessati ai problemi del r., i limiti della teorizzazione di Brandi deriverebbero dalla sua irrimediabile estraneità all'archeologia per diversità di referenti e di ottica disciplinare, al punto da non considerare quanto sarebbe frutto di più recenti riflessioni e preoccupazioni conservative e di climi culturali diversi dal suo presunto idealismo.
La necessità di una conservazione adeguata ed efficace ha spinto talora ad avanzare ipotesi di ripristino più o meno parziale di aspetti significativi degli antichi manufatti, apportando sostanziali modifiche all'aspetto col quale essi storicamente sono pervenuti fino a noi. Sul fronte opposto degli storicisti panconservatori, il bersaglio principale è la corretta valutazione dell'esteticità nella definizione del restauro. Per aver affermato che è possibile il ''ristabilimento dell'unità potenziale'' dell'opera d'arte, Brandi è ritenuto responsabile della disinvolta pratica distruttiva del r.; la sua distinzione tra ''aspetto'' e ''struttura'' dei materiali costitutivi dell'opera comporterebbe inevitabilmente il sottovalutare i principi funzionali dell'organismo architettonico e favorirebbe la non considerazione, e l'alterazione, di importanti elementi della storicità del manufatto architettonico.
Sulla scia di queste contrapposizioni polemiche è stata inevitabilmente messa sotto accusa anche la Carta del restauro del 1972, legata alla teoria brandiana nei principi generali, soprattutto per la parzialità di alcune delle norme tecniche di dettaglio contenute nelle sue varie appendici. Il superamento e la revisione di questa Carta è uno degli aspetti più significativi del dibattito attuale. C'è stato un discutibile tentativo di riformulazione di una nuova Carta (1987), contestata soprattutto laddove presume di dettare normative tecniche particolari, col risultato di essere comunque inevitabilmente generica e di non poter coprire tutta la casistica che nelle occasioni concrete le varie esigenze conservative e di r. comportano. Da più parti, di contro, si nega l'utilità di qualsiasi Carta, come strumento atto a imporre una regola che eviti i rischi di interventi sbagliati o dannosi, come l'esperienza successiva al 1931 insegna. Si discute perfino sul valore legale e obbligante delle norme del r., e non soltanto come riferimento generale di metodo, col rischio che le aule di tribunale diventino il luogo della valutazione e delle sanzioni per scelte che non possono non riguardare principalmente un dibattito storico e culturale. Si fa strada, pur tra difficoltà e ritardi, l'esigenza di uno strumento più agile e insieme più dettagliato di norme, di puro contenuto tecnico e materiale, che, con la possibilità di una periodica revisione, diventi, con la forma di ''capitolati speciali tipo'', il quadro procedurale di riferimento per ogni intervento di conservazione e di restauro.
La contrapposizione di fondo che si è appena delineata nel dibattito attuale sul r., in particolar modo quello architettonico, tra quanti, in nome della più efficace conservazione, auspicano il ristabilimento della funzionalità originaria degli edifici e il recupero delle tradizioni delle manutenzioni storiche, e quanti, sempre in nome della più efficace conservazione, sollecitano il mantenimento della situazione di fatto in cui è pervenuto l'edificio o il complesso monumentale, con l'ausilio delle tecnologie più moderne e attuali, si riflette su molti dei problemi specifici che la pratica di cantiere comporta.
Per es. è acceso il dibattito sulla scelta dei materiali di r., in particolar modo per quello che concerne i prodotti consolidanti o i protettivi superficiali di pietre e intonaci e, in genere, dei materiali porosi da costruzione: si polemizza contro l'uso dei materiali sintetici prodotti industrialmente, sulla cui funzionalità e compatibilità con i materiali antichi si nutrono forti dubbi, proponendo in contrasto l'utilizzazione dei materiali tradizionali che una lunga esperienza ha reso noti negli effetti e nella durata. In realtà questo è davvero un falso problema, connotato da un forte ideologismo, dal momento che l'unico criterio che di volta in volta può far preferire un materiale piuttosto che un altro è la verifica sperimentale, controllata scientificamente e con l'attenzione dovuta al risultato conservativo e alla determinazione delle modifiche che possono interferire con l'aspetto storicamente definito. Ugualmente un'utilissima indagine storica e archivistica, che ripropone all'attenzione le modalità costruttive e l'impianto architettonico e decorativo degli edifici antichi, dai solai alle volte e agli infissi, pretende di trasformarsi di fatto in criterio di rifacimento nell'ambito degli interventi conservativi, piuttosto che essere una semplice traccia e un riferimento utile alle modalità di riparazione dei danni prodottisi, nel rispetto della definizione materiale e storica dell'organismo architettonico.
Un problema analogo è rappresentato dagli interventi di rifacimento di intonaci e coloriture di edifici dei centri storici, susseguitisi sempre più numerosi da quando dalla fine degli anni Settanta la qualificazione e la conservazione dei prospetti esterni degli edifici sono diventati, nell'ambito delle normative che regolano i canoni d'affitto, uno dei parametri di valutazione del loro valore. Tali interventi hanno determinato una tale difformità di esiti, per il prevalere dei meno costosi e più pratici materiali sintetici del tipo del quarzo plastico, e di tenui colori del tutto estranei alla tradizione, da stravolgere l'aspetto di edifici, di complessi monumentali e di interi quartieri delle città storiche.
Anche in questo caso, pur nel loro valore, le indagini filologiche, archivistiche e iconografiche, come pure le verifiche di cantiere sulla stratificazione degli intonaci e delle coloriture, hanno comportato rifacimenti indifferenziati, con notevoli mutazioni dell'aspetto degli edifici e, spesso, con una totale incomprensione delle variazioni coloristiche legate alla definizione dell'ordine architettonico e delle caratteristiche dei materiali da costruzione, intonaci, pietra o cotto, veri o simulati, presenti negli esterni. Ma anche gli interventi più attenti e scrupolosi, dal punto di vista della corretta individuazione dei colori originali e della loro riproposizione, non sempre hanno considerato la realtà delle modificazioni storicamente succedutesi nell'ambito degli stessi edifici, spesso causate anche da ampliamenti e aggiunte che hanno comportato inevitabilmente nuove tinteggiature e una ridefinizione unitaria della coloritura complessiva della costruzione. L'esito anche corretto dunque contrasta, a livello più ampio, urbanistico o macromonumentale, con un contesto inevitabilmente difforme. Il tentativo di imporre una norma per limitare il caos delle scelte nei rifacimenti degli intonaci e delle coloriture ha portato alla definizione di ''piani del colore'' in diverse città o in parti di esse: essi hanno avuto effetto pratico limitato data la difficoltà di regolamentare interventi riguardanti edifici di proprietà pubblica e privata, ma, laddove sono stati realizzati, hanno finito con l'imporre un valore normativo predefinito a una specifica fase dell'evoluzione storica delle scelte cromatiche e materiche, sovrapponendola antistoricamente a una realtà urbanistica che si è successivamente modificata sia per l'inserimento di nuove costruzioni sia per le sostanziali modifiche subite da quelle esistenti. A questa tendenza si contrappone quella che si è affermata però soltanto in alcune architetture di particolare rilevanza storica, per es. il Broletto di Milano (1988), a mantenere la situazione come ci è pervenuta, con tutti i rabberci, le stratificazioni, le lacune che le successive manutenzioni, il tempo o l'incuria hanno causato, proponendo unicamente interventi di fissaggio, consolidamento e protezione, con procedimenti e materiali moderni, di quei rivestimenti che si sono conservati, e nel modo in cui si sono conservati.
Fortemente collegata alle polemiche riguardanti gli strati di finitura e le coloriture degli edifici è la definizione dei limiti e del livello di pulitura da rispettare negli interventi sui paramenti lapidei di rivestimento e sull'apparato decorativo scultoreo situato all'esterno, sia quello in stretto rapporto con l'architettura, siano statue e complessi plastici a sé stanti. È indubbio che negli ultimissimi decenni il progresso delle tecnologie e dei procedimenti di pulitura di manufatti lapidei ha consentito risultati notevolissimi e soprattutto la possibilità, prima pressoché inesistente, di un sicuro controllo in fase di applicazione degli strumenti meccanici e dei mezzi chimici utilizzati, come dimostra l'esito, universalmente accolto, di restauri esemplari, quali per es. quello condotto sulla facciata della chiesa bolognese di San Petronio (1979). L'applicazione ai manufatti lapidei di metodologie più raffinate rispetto a quelle fortemente aggressive solitamente adoperate nei normali cantieri di r. edilizio da maestranze non specialistiche, metodologie in massima parte desunte dai sistemi d'intervento sui dipinti murali e per di più condotte da operatori con larga esperienza di r. pittorico, ha consentito non soltanto di definire con molta più precisione lo stato di conservazione dei materiali costitutivi, ma anche di graduare in modo selettivo i livelli della pulitura.
Tra i risultati più importanti dei nuovi sistemi utilizzati occorre indicare il recupero, sotto depositi e incrostazioni tenaci, di frammenti di pittura ancora superstiti su manufatti scultorei d'età classica e soprattutto medievale. Si è evidenziato altresì un fenomeno mai anteriormente approfondito, ma sicuramente diffuso su paramenti e rilievi di diversa epoca e configurazione: si tratta di pellicole sottili, a volte sovrapposte in più strati, di colore variabile dal giallo al bruno, che aderiscono, generalmente in modo discontinuo, alla superficie della pietra. Le indagini scientifiche condotte su di esse ne hanno definito la composizione chimica, individuandone come principale elemento costitutivo l'ossalato di calcio. Il problema di chiarirne la natura e l'origine si è mostrato in tutta la sua complessità nel caso dei monumenti dei Fori Romani, al punto da suscitare un'estesa discussione che ha coinvolto con pareri contrastanti archeologi, chimici, petrografi e architetti. Le principali ipotesi avanzate sono così schematizzabili: gli strati sono il risultato naturale dei fenomeni di alterazione della superficie lapidea, causati dai residui organici di alghe e licheni e dal deposito superficiale di particellato atmosferico; essi invece dipendono dalle tecniche e dai materiali usati per la lavorazione della pietra, soprattutto nella fase della levigatura e della lucidatura; sono scialbi sovrammessi in occasione d'interventi di manutenzione e di restauro con lo scopo di ''patinare'' in modo omogeneo i materiali della decorazione, soprattutto laddove è stata realizzata qualche sostituzione di parti, oppure per proteggere la pietra dal degrado determinato dagli agenti atmosferici; non è mancato infine chi ha creduto di riconoscervi resti di scialbi o patinature originarie, volute all'atto della costruzione del monumento. Risulta evidente come dall'accettazione di una o l'altra di tali ipotesi discendano conseguenze diversissime in ordine al mantenimento o alla rimozione degli strati, con una determinazione dello stato e della configurazione storica del monumento oltremodo diversificata. Il dato certo è che queste pellicole sono molto difficilmente rimuovibili a causa della scarsa solubilità, e che, laddove si sono conservate, esercitano un'indubbia funzione protettiva delle superfici sottostanti, pur determinando a volte, per la loro irregolarità e frammentarietà, interferenze poco funzionali alla migliore leggibilità delle superfici o dei rilievi. Gli esiti degli interventi eseguiti su superfici con presenza di ''patine di ossalati'' sono stati finora molto diversi, con soluzioni molto varie: rimozione, mantenimento, assottigliamento, e hanno suscitato polemiche inevitabili sulla qualità del risultato estetico e conservativo. Per di più a complicare la soluzione del problema è intervenuta l'osservazione di tali patine anche su altre tipologie di manufatti, per es. su dipinti murali, e non soltanto su quelli esposti all'aperto. L'atteggiamento prevalente è comunque quello del loro mantenimento come misura di prudenza, in attesa di risposte sicure sulla loro natura, a meno che la loro rimozione non consenta il recupero di strati di policromia e di pittura sottostanti, come è avvenuto nei rilievi dei Mesi nel protiro di San Zeno a Verona (1989).
Gli interventi sempre più numerosi sui paramenti esterni di edifici monumentali e sui loro apparati scultorei, motivati nella maggior parte dei casi da effettive esigenze di conservazione (per l'aggressione che negli ambienti urbani particolarmente inquinati colpisce i materiali lapidei, ma anche per i danni normalmente prodotti dagli agenti atmosferici), ma spesso altresì da esigenze di ordinaria manutenzione per la rimozione dei depositi atmosferici dalle superfici, hanno comportato polemiche aspre sugli esiti della pulitura, soprattutto dal punto di vista estetico: si è lamentata la rimozione della ''patina'' e il conseguente eccessivo risalto del colore della pietra o del biancore dei marmi, spesso potenziati anche dalle sostanze usate per la protezione superficiale. Queste polemiche non hanno risparmiato interventi di r. corretti, che certo in nulla hanno scalfito i materiali originari, e che hanno dato buon esito dal punto di vista conservativo, almeno sulla base delle conoscenze e delle esperienze attuali. In realtà la difficile definizione del concetto di ''patina'', quando è riferito ai materiali lapidei, e la mancata distinzione tra patina, intesa come naturale e inevitabile alterazione della superficie determinata dall'interazione con l'ambiente e dall'ovvio invecchiamento dei materiali, e ''patinatura'', intesa come intenzionale risultato di una specifica lavorazione e come esplicita sovrammissione di strati di finitura, hanno dato luogo a un dibattito confuso e approssimativo che ha scambiato la giusta esigenza di conservare patine e patinature originarie, o comunque antiche, con il mantenimento dello sporco e dei depositi atmosferici, spesso anche inquinanti, come pure delle sostanze utilizzate in manutenzioni o r. precedenti e a volte soggette a evidenti alterazioni. In parte tale polemica è spiegabile per il fatto che interventi di pulitura condotti su edifici e monumenti isolati stridono se confrontati con lo stato di edifici contigui, dando una sensazione di ''nuovo'' che sembra distruggere, o comunque diminuire, l'evidenza della loro qualificazione storica ed estetica. Occorre pertanto distinguere caso per caso la necessità e il risultato di un intervento di r. sui manufatti lapidei, cogliendo, al di là dell'impatto iniziale che può apparire più o meno deviante, le motivate ragioni conservative e il rispetto portato al mantenimento delle caratteristiche costitutive dei materiali e della loro conformazione storicamente pervenuta.
Il problema della patina ha animato anche il dibattito e le polemiche sul r. dei dipinti, soprattutto nel corso degli anni Ottanta e agli inizi degli anni Novanta. I progressi in quest'ambito sono stati davvero notevoli sia dal punto di vista delle possibilità diagnostiche preventive, che rendono più plausibili e consapevoli le definizioni di progetto, sia per gli esiti degli interventi che si sono giovati delle conoscenze scientificamente più precise in ordine al comportamento dei materiali di r. e della loro interazione con la realtà dell'ambiente di conservazione. Basti considerare i notevoli progressi compiuti nella metodologia di pulitura con l'applicazione dei principi della solubilità, oppure l'attenzione portata sulla consistenza e sulla caratterizzazione dei supporti, siano essi tele, legno, strutture murarie o altro, per la migliore definizione dei metodi di conservazione delle superfici dipinte. Gli studi sulle strutture elastiche di sostegno o di contenimento dei supporti lignei, oppure l'approfondimento dei metodi di foderatura dei dipinti su tela, con la ricerca di nuovi materiali e di nuovi procedimenti che superino gli inconvenienti o rischi delle foderature tradizionali, sono alcune delle esemplificazioni possibili. Ma è anche evidente che né i nuovi procedimenti tecnici né l'applicazione di strumentazioni scientifiche risolvono di per sé la problematicità di scelte che investono la determinazione critica e storica dell'opera pittorica, per es. la rimozione o il mantenimento di rifacimenti o ridipinture o il livello cui fermarsi nel procedimento di pulitura delle superfici dipinte. Proprio su tali questioni più vivacemente si è discusso.
Un'impostazione che si presume ''filologica'' sta alla base del progetto di r. del Cenacolo di Leonardo nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano: la precoce rovina del dipinto e i conseguenti numerosi interventi di reintegrazione e di rifacimento di estese parti non sarebbero tali da limitare o impedire la possibilità del recupero, sia pure frammentario, della configurazione originaria dell'opera leonardesca. I primi saggi di pulitura, compiuti alla fine degli anni Settanta, tecnicamente accurati e davvero complessi per l'attenzione che ha richiesto la loro esecuzione, riuscendo a rimuovere i tenaci strati di sostanze consolidanti e protettive del colore, ultima la gommalacca usata da M. Pelliccioli, hanno rilevato una gamma cromatica brillante e tersa, sicuramente più plausibile dell'esteso tono bruno, quasi tenebroso, che caratterizzava la superficie dipinta. Ma hanno rilevato anche estese ridipinture e rifacimenti che riguardano particolari essenziali della struttura architettonica e spaziale del dipinto e intere figure. I lavori, che procedono con molta lentezza e sono ancora in corso, mantengono alcune parti dei rifacimenti, soprattutto quanto definisce la costruzione dell'invaso prospettico, ricercando un difficile equilibrio tra l'originale recuperato, raccordato con velature per la definizione essenziale dell'immagine, e alcuni dei rifacimenti posteriori.
Dibattuto è stato anche l'intervento (1989) sulla Santa Caterina del pittore manierista G.B. Ragazzini, che si sovrapponeva a una parte della Madonna in Trono con il Bambino, dipinta nel duomo di Orvieto, unico affresco superstite di Gentile da Fabriano; essa è stata del tutto rimossa a vantaggio di una più chiara definizione dell'immagine di Gentile e a una sua lettura più precisa. Ma la storicità complessiva del frammento quattrocentesco e quanto individuava le vicende successive della decorazione pittorica del Duomo di Orvieto sono oggi unicamente testimoniate dalla documentazione fotografica e dalla Santa recuperata anch'essa come frammento e rimontata su un nuovo supporto. Ugualmente la rimozione dei rifacimenti e delle aggiunte a secco sul ciclo masaccesco nella Cappella Brancacci (1988), comprese le foglie che nascondevano i genitali dei progenitori nella Cacciata, ha trovato opinioni contrarie e ha suscitato polemiche tuttora non sopite.
Ma il dibattito più veemente di questi ultimi anni ha sicuramente riguardato il r. e la pulitura degli affreschi michelangioleschi della Cappella Sistina (v. anche Vaticano, Stato della Città del: Arte, in questa Appendice), conclusi con i lavori condotti sulla parete del Giudizio (1994). La riscoperta di una gamma cromatica particolarmente accesa e dai toni chiari ha contraddetto la consueta considerazione di Michelangelo pittore, unicamente intento alla definizione plastica dell'immagine con la contrapposizione netta del chiaroscuro. L'esito del r., accolto con favore da quasi tutti gli storici dell'arte, dagli esperti del r. e di Michelangelo, che non hanno mancato di porre in relazione i colori della Sistina con le scelte da Michelangelo realizzate nel Tondo Doni oppure, nel caso del Giudizio, con la vicinanza davvero sorprendente con la copia dipinta dal Venusti, ora a Capodimonte, ha tuttavia suscitato rifiuti e critiche violentissime soprattutto da parte di artisti, cui successivamente non hanno mancato di aderire anche alcuni storici dell'arte. Il nucleo del problema riguarda innanzitutto la caratteristica essenziale della tecnica esecutiva e dunque l'ipotesi di finiture a secco, usate fondamentalmente per rinforzare le ombre, e di una velatura finale, estesa a tutta la superficie della volta allo scopo di smorzare la forza cromatica delle superfici dipinte a fresco. L'attuale r. avrebbe rimosso, con una pulitura eccessiva, le ultime definizioni originali volute da Michelangelo, restituendo una superficie dipinta squillante e dissonante, quale mai l'artista avrebbe voluto.
Le polemiche hanno finito con il coinvolgere tutte le questioni inerenti il r. come attualmente è praticato: i suoi presupposti metodologici, il valore e la funzione dei sussidi scientifici nella determinazione del progetto d'intervento e nella presunta capacità di suggerire parametri oggettivi di riferimento per la fase sia di studio preliminare sia di controllo in corso d'opera, il rapporto tra impostazione di un intervento e qualificazione estetica e storica dell'opera, l'organizzazione e la responsabilità dell'intervento, la qualificazione e la natura dei tecnici del r., arrivando ad affermare che solo la sensibilità di un artista è in grado di avvicinarsi ai capolavori del passato. Questo dibattito, che certo mette in luce aspetti non funzionali nell'attuale organizzazione dell'attività di conservazione e di r. e propone, perfino indipendentemente da chi lo ha promosso e dalle motivazioni solitamente addotte, il problema delle difformità metodologiche e tecniche riscontrabili ancora oggi, sarebbe certamente non inutile qualora si nutrisse delle informazioni e delle conoscenze teoriche e tecniche più precise e avanzate, prendesse atto dei risultati finora conseguiti, non per difenderli sempre e comunque, ma per farne base di un reale e concreto progredire, lontano dalle valutazioni approssimate, dalle abitudini mentali e visive tradizionalmente e acriticamente accolte.
Le conoscenze sui fattori e sui processi del degrado delle opere di interesse artistico e storico sono sicuramente aumentate in questi ultimi decenni, come pure le possibilità operative e la qualità degli esiti di molti degli interventi realizzati. Lo dimostrano gli studi diagnostici condotti per es. sulla situazione conservativa della Cappella degli Scrovegni a Padova (1981), della Camera degli Sposi a Mantova (1986), del ciclo di Piero della Francesca ad Arezzo (1989, r. in corso); i r. davvero qualificanti di importanti dipinti considerati difficili e di problematica valutazione metodologica, quali il Seppellimento di Santa Lucia del Caravaggio (1984), non poche opere di Tiziano conservate a Venezia, Treviso e Ancona, il Trionfo della morte di ignoto quattrocentesco nel museo di palazzo Abatellis di Palermo (1989), vari dipinti fiorentini del Botticelli e molti altri. Tra le sculture, in marmo o in bronzo, si ricordano i r. dei Cavalli di San Marco a Venezia (1977) e del Marc'Aurelio a Roma (1991), della Giuditta di Donatello a Firenze (1988), della fontana del Nettuno a Bologna (1992), dei bronzi di Riace (1980), dei rilievi dell'Ara Pacis a Roma (1983), del protiro di San Zeno a Verona (1989) e dei rilievi del Duomo di Ferrara (1981).
Un altro importante aspetto del progredire della qualità del r. è anche la graduale applicazione di una corretta impostazione di metodo e di ricerca tecnologica a importanti manufatti considerati generalmente marginali, per i quali erano finora prevalsi, negli interventi riparativi dei danni, procedimenti di sostanziale rifacimento. Ci si riferisce agli interventi sulle vetrate o sugli arazzi, sui tessuti e sui mosaici, finalmente sottratti questi ultimi al rovinoso dilemma del distacco o del rifacimento. Tali interventi generalmente venivano affidati a maestri mosaicisti o arazzieri o vetrai, sicuramente abilissimi artigiani ma troppo inclini a interpretare il r. alla stessa stregua di integrali ripristini. È ovvio che ciascuna tipologia richiede procedimenti e soluzioni specifiche, però sempre riferendo le scelte al presupposto irrinunciabile di ogni corretto r., il rispetto della determinazione storica e materica dell'opera.
L'unico ambito in cui tale principio appare di applicazione difficile o, a volte, impossibile è quello relativo ad alcune avanguardie artistiche contemporanee, sia per la deperibilità intrinseca dei materiali utilizzati sia per la loro intenzionale non durata, come accade per performances, installazioni, e quant'altro qualifica come un ''evento'' l'espressione artistica. Non rimane per simili casi che la documentazione, col risultato però di trasporre il problema conservativo ad altri materiali, pellicola o stampa fotografica, film o nastro magnetico, materiali o strumentazione elettronica, quali videodischi o altri supporti similari, sulla cui conservazione però non c'è certezza. Questo è uno dei tanti aspetti su cui dovrà portarsi la riflessione di metodo e la ricerca tecnico-scientifica e operativa nei prossimi anni.
Bibliografia
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Riviste specialistiche sono Studies in conservation; Materiali e strutture; OPD Restauro; Kermes; Restaurator. International journal for the preservation of library and archival material; Science and Technology for Cultural Heritage Journal of the ''Comitato Nazionale per la Scienza e la tecnologia dei Beni Culturali'' CNR; Maltechnik; sul r. architettonico: Restauro; Restauro & Città; Tema; ῾ΑΝΑΓΚΗ. Saggi e ricerche su problemi di conservazione e di r. compaiono nei bollettini o quaderni dei musei più importanti (Metropolitan Museum di New York, National Gallery di Washington, National Gallery di Londra, Musées du Louvre, Musei Vaticani, Uffizi e altri) e di alcune soprintendenze quali le Soprintendenze per i beni artistici e storici di Roma, di Venezia, di Firenze. Ugualmente ospitano articoli specialistici sull'argomento riviste di storia dell'arte come: Bollettino d'Arte del Ministero per i beni culturali e ambientali, anche con fascicoli monografici; Palladio; Ricerche di Storia dell'arte; Critica d'Arte. Contributi importanti sono contenuti negli atti dei convegni o dei seminari specialistici organizzati periodicamente da istituzioni che, a vario titolo, si occupano dei problemi di conservazione: l'ICOMOS-RILEM; l'ICCROM (International Centre for the study of the preservation and the restoration of Cultural property - Rome); l'IIC (The International Institute for Conservation of historic and artistic works); l'UNESCO; l'AIPnD (Associazione Italiana Prove non Distruttive Monitoraggio Diagnostica); l'IUAV-Dipartimento di scienza e tecnica del restauro delle università di Padova e Venezia, Bressanone.
Restauro di opere dell'antichità classica
di Alessandra Melucco Vaccaro
Per i manufatti archeologici, come del resto per le altre classi di beni culturali d'interesse storico e artistico, il punto di riferimento è rappresentato dalla Teoria del restauro elaborata da C. Brandi (1963). Nel trentennio che ci separa dall'apparizione della fondamentale opera alcuni temi centrali nella riflessione del critico hanno mantenuto il medesimo rilievo, mentre altri, che allora non furono presi in considerazione per la diversità di orizzonte culturale e di condizioni obiettive, hanno nel frattempo acquisito particolare importanza.
Uno degli insegnamenti dello storicismo di Brandi che appare oggi più attuale è nella sua sottolineatura del carattere relativo e transeunte di qualunque r., in quanto espressione del clima culturale nel quale si realizza. Oggi, addirittura, si torna a porre in evidenza i limiti di efficacia del r. o la sua potenziale pericolosità, messa in rilievo dagli effetti troppo spesso negativi di tecnologie e materiali innovativi, nati in campo industriale e applicati alle operazioni di r. in modo improprio e senza le necessarie verifiche di compatibilità. Appare tuttora pienamente valida e riferibile al bene archeologico la definizione brandiana del r. come "qualunque operazione volta a ripristinare l'efficienza di un prodotto dell'attività umana", un'operazione che, se applicata alla funzionalità di reperti di significato culturale, dev'essere consapevole della peculiare natura di questi e pertanto scegliere procedimenti e strumenti idonei a ripristinare tale funzionalità culturale, senza sfigurarla e cancellarla. Sono però mutate alcune condizioni al contorno, che hanno avuto particolare incidenza sul rudere e sul manufatto archeologico, in sé estremamente fragile sul piano materico, per il suo intrinseco carattere d'incompletezza e frammentarietà. Nel clima degli anni Settanta, ai fenomeni negativi, sopra ricordati, indotti da improprie applicazioni dell'innovazione tecnologica, si è sommato un degrado progressivo dell'ambiente. Se l'allarme si è inizialmente rivolto alla rapidità dei processi di degrado a carico dei monumenti archeologici all'aperto, e ha portato alla costituzione di un'apposita Commissione e alla messa a disposizione di risorse finanziarie straordinarie per il r., tuttavia non meno critica appare la condizione del patrimonio musealizzato, ben lontano dal soddisfare a requisiti minimi di leggibilità e di fruibilità.
La cultura architettonica, là dov'è intervenuta per realizzare nuovi allestimenti di collezioni storiche, o presentazioni di reperti di recente rinvenimento, è apparsa infatti poco sensibile al rispetto dei criteri di conservazione, gestione, manutenzione, presentazione dei materiali esposti, e viceversa li ha spesso bloccati in esposizioni permanenti inamovibili e in condizioni ambientali lontane dagli standard di base per la loro conservazione. Anche la disciplina archeologica, per la sua parte, ha finora mostrato ben scarsa sensibilità alla leggibilità del materiale collocato in esposizione, alle condizioni anche estetiche e di presentazione e ha inoltre posto limitata attenzione a quelle operazioni, misure, ricerche, che risultano idonee alla restituzione del testo critico, offuscato da fenomeni di alterazione o da inadeguati r. del passato.
Nel contesto sopra tratteggiato i temi centrali della definizione di r. e del suo rapporto con la ricerca storica, come delineati nella Teoria di Brandi, in sé pienamente validi, sono stati accolti con ritardo (Melucco Vaccaro, Archeologia... 1989). Mentre da un lato avanzavano la modernizzazione e la forzata applicazione di nuovi prodotti e tecnologie, e dall'altro le condizioni ambientali cui il patrimonio archeologico è sottoposto si mostravano sempre più sfavorevoli, la stessa disciplina archeologica ha mostrato notevoli difficoltà a percepire quanto le condizioni materiche del reperto fossero determinanti per comunicare la dignità culturale e il valore storico e/o estetico del reperto archeologico. Inoltre sono intervenute sensibili modificazioni nel dibattito teorico e nel concreto esercizio della disciplina archeologica: con l'accento posto sul reperto, non solo come opera d'arte ma soprattutto quale documento storico, e con l'affinamento delle tecniche di scavo e di ricognizione sul campo, si recuperano materiali, si registrano tracce ed evidenze impensabili qualche decennio fa. La domanda rivolta allo specialista della conservazione si è, di conseguenza, accresciuta enormemente e ormai riguarda una gamma vastissima di materiali e di reperti. La distanza rispetto all'approccio estetizzante di Brandi appare quindi, in questo mutato contesto, più marcata.
Tale distanza si misura specialmente in alcuni passaggi della Teoria del restauro, che, posti in relazione alla tematica del manufatto archeologico, si presentano particolarmente inattuali. Lo è in particolare la distinzione istituita da Brandi tra una materia come ''supporto'' e una materia come ''aspetto'', immagine. Questa distinzione può risultare praticabile se ricondotta alla stratificazione del dipinto (supporto, preparazione, pellicola pittorica), ma non risulta applicabile ad alcun manufatto tridimensionale, dalla ceramica alla scultura, ancor meno all'architettura, se non postulando l'eguaglianza ''aspetto=superficie''. Per questa via si è infatti finito per attribuire alla superficie uno status particolare, di epifania dell'immagine e testimone dell'autenticità dell'opera e della sua vicenda storica. Questo approccio teorico, travalicando le intenzioni dello stesso Brandi, ha avuto precise conseguenze sulle corrette prassi di restauro. Poiché, secondo un noto assioma di Brandi, solo la materia, e non mai l'immagine, è oggetto del r., sull'immagine, ridotta a identificarsi con la superficie del manufatto, si è operato ricercando materiali che, nell'immediato, apparivano non alteranti. Di qui la delega alle scienze, in particolare alla chimica, per la ricerca di prodotti che non comportassero impatto visivo, quindi non tradizionali, cioè trasparenti.
I prodotti di sintesi, concepiti per applicazioni ai materiali moderni e alle strutture in cemento, sono apparsi illusoriamente rispondere ai requisiti, ma hanno, nel tempo, dimostrato di essere tutt'altro che durevoli e privi di interferenze visive, determinando scurimenti e patine deturpanti, o sono risultati non compatibili, quindi distruttivi, per la radicale diversità del loro comportamento meccanico o termico, rispetto alla materia antica. Nello stesso modo si è operato sulla struttura. Su questa, richiamandosi a Brandi che la considera materia profonda non attinente all'immagine, si è agito occultamente ma invasivamente con tecniche indebitamente mutuate dalle pratiche del cantiere edile, ritenendo che ciò non avrebbe avuto effetti indesiderati sull'immagine.
Come conseguenza dell'innovazione tecnologica e delle mutazioni da essa indotte nella cultura e nel saper fare tradizionale, anche i modi dell'intervento di r. sono stati investiti da un disordinato processo di modernizzazione, che ha causato l'abbandono di procedimenti e materiali di sicuro tramando artigianale e l'adozione, spesso senza sperimentazione o con inadeguate verifiche di compatibilità con la materia antica, di prassi di cantiere e di prodotti concepiti per l'edilizia corrente. Ne è derivato un generalizzato sfiguramento del patrimonio archeologico con perdita d'identità e di memoria storica.
Nell'ambito delle materie architettoniche e strutturistiche è però di recente iniziata un'approfondita riflessione teorica (Benvenuto 1988; Benvenuto, D'Agostino 1993), che sta evidenziando l'impatto, potenzialmente distruttivo, sulle metodologie e sulle tecniche della conservazione, di discipline quali l'ingegneria e la chimica. Queste fondamentali branche del sapere tecnico-scientifico, di per sé prive del senso della storia e aduse a negare le specificità dell'oggetto culturale, tendono a ricondurlo semplicemente ai materiali costitutivi. Oggi appare chiaro il pregiudizio ideologico che era alla base del distorto rapporto con le tecnologie e che giunse a investire la tradizione preindustriale di un giudizio negativo e a valutarla in blocco come erronea e regressiva, quindi da abbandonare. Di fronte ai danni che sono derivati da questo approccio si va affermando la necessità di una più puntuale e analitica conoscenza della materia antica (principi e metodi di conoscenza che sono alla base dei manufatti, tecniche esecutive e manutentive, vicende e manomissioni nel tempo), ponendo in risalto la funzione centrale degli strumenti d'indagine propri della storia e della filologia per determinare non solo la storia passata, ma nche il ''presente'' stato di conservazione, e quindi gli interventi compatibili (Melucco Vaccaro 1993). A seguito di questo nuovo indirizzo della riflessione teorica si sta tentando un'inversione di tendenza: una nuova attenzione è posta alla lettura degli interventi di presidio statico operati sui grandi monumenti archeologici nei secoli che hanno preceduto l'avvento del cemento e dell'acciaio (Gizzi 1991): in particolare i supporti visibili in mattoni attentamente patinati sono considerati ampiamente riproponibili. A una più matura riflessione l'apporto delle discipline chimico-fisiche appare più significativo e determinante in campo diagnostico. Almeno negli enunciati e nei temi di ricerca, l'attenzione si è progressivamente spostata dal manufatto al suo intorno museale, territoriale o urbano; sicché ogni approccio teorico e ogni misura concreta che prescindano dalle condizioni d'uso di un bene, dall'ambiente e dal contesto appaiono inefficaci e impropri e diviene sempre più necessario collegare strategie conservative e dinamiche della fruizione di massa. Quest'ultima, infatti, in assenza di controlli e di misure correttive, va rivelando aspetti sempre più distruttivi.
Attualmente un grave e diffuso stato di degrado e d'incomprensibilità caratterizza gran parte del patrimonio archeologico soprattutto italiano anche per il peso della tradizione purovisibilista di matrice brandiana, e per un giustificato rifiuto di interventi sfiguranti e inadeguati. Ma bisogna pur sottolineare che interventi, in molti casi ormai indifferibili, capaci di assicurare la conservazione non sono senza incidenza sull'immagine: tra queste due esigenze in potenziale contrasto, avanza il criterio del ''minimo intervento'' inteso come punto di equilibrio, sostanziato di qualificati apporti teorici e sperimentali, tra efficacia conservativa e minimo accettabile livello di modificazione dell'immagine storicizzata e della dignità culturale e storica dei manufatti (L'Athenaion di Paestum 1993). Oltre alla funzione e alla natura della ''materia'', anche il concetto di ''patina'', quale la definì Brandi in costante riferimento alla problematica pittorica, presenta difficoltà di applicazione al contesto della conservazione archeologica e richiede una messa a fuoco da approcci diversi. Gli antichi, soprattutto nel caso di bronzi esposti all'aperto, erano consapevoli dell'influenza dei fattori ambientali e, sulla base della qualità estetica delle alterazioni che si producevano, distinguevano i due ordini di fenomeni, la patina nobile e la patina vile, e talvolta imitavano le più belle patine naturali.
È quindi necessario riaffermare la distinzione tra alterazione involontaria dei materiali, e patina artificiale o intenzionale; poiché anche quest'ultima è soggetta ad alterazioni non intenzionali, ciò rende più difficile la sua lettura e il suo riconoscimento nel manufatto. Il massimo della confusione tra prodotti di alterazione e patinature intenzionali, a loro volta più o meno scurite e opacizzate da fattori ambientali, si raggiunse nell'età romantica, che segna un radicale cambiamento di gusto e di sensibilità. Parlando allora di ''tempo pittore'', s'intese paradossalmente rivalutare l'effetto estetico di un fenomeno non intenzionale, quale i segni del trascorrere del tempo, considerati allora assai più apprezzabili dei risultati di un restauro. Anche la definizione di ''patina'' costruita da Brandi non è immune da tali ambiguità. Egli la considera come il segno del passaggio del tempo sull'opera, ma senza distinguere gli interventi umani e i processi naturali. Essa rappresenterebbe "una sordina imposta alla materia per impedirle di prevalere" e per ciò stesso degna di essere mantenuta. Nella concreta prassi, instaurata presso la scuola dell'Istituto Centrale del Restauro, nel caso dei dipinti era buona norma, prima dell'avvento dei solventi di ultima generazione, fermarsi un attimo prima della totale rimozione delle vernici sovrammesse, per non intaccare eventuali velature originali.
Da questa problematica così specifica del dipinto postclassico, e già difficilmente applicabile alla materia fragile e alterata del dipinto archeologico, si sono volute estrapolare regole analogiche, da applicare su altri manufatti e materie. In realtà nel caso del materiale lapideo o del metallo il problema si pone in altri termini anche dal punto di vista dei presupposti fattuali. Soprattutto per il metallo proveniente da scavo, le alterazioni interessano tutta la materia e possono giungere a inglobare nei loro strati anche la superficie ''originaria'', che pertanto in tal caso è da considerare perduta. Per questo è errato spingere la pulitura, nel tentativo di recuperarla. Il criterio da seguire è, infatti, meramente conservativo: l'obiettivo è l'eliminazione dei prodotti ''instabili'' di alterazione, in modo da ridurre i fattori elettrochimici responsabili dei processi ciclici di corrosione. Al termine di tali operazioni, per attutire il disturbo visivo determinato dalla presenza di formazioni disomogenee per aspetto e colore, si può provvedere con tecniche di ritocco, per ottenere una buona presentazione finale.
In termini ancora diversi si presenta per i materiali lapidei il problema della patina e della sua rimozione. In occasione dei r. recenti ai monumenti marmorei di Roma, si è evidenziata la presenza di strati protettivi applicati in antico (Alessandri e altri 1986, Melucco Vaccaro 1987) e soltanto dove tali strati sopravvivono, sia pure ridotti a plaghe discontinue, si possono apprezzare anche visivamente le tracce delle lavorazioni e delle finiture originarie. Tali strati sovrammessi sono indicati convenzionalmente nella letteratura specializzata come ''patine ad ossalati'' (Melucco Vaccaro, Gratziu 1989), e secondo una delle ipotesi formulate si ritiene che siano trattamenti coprenti a base di calce con leganti organici (caseina, latte, colla, ecc.) applicati in epoche successive, in età sia classica che postclassica, in ripetute attività manutentive di cui si è persa la pratica e il ricordo, ma di cui documenti e trattati conservano la memoria. Tali strati, confusi spesso con le patine di alterazione prodotte dai moderni inquinanti chimici, a differenza di queste ultime vanno di norma conservati: oltre a essere tecnicamente rischiosa, per il forte ancoraggio alla pietra che tali patine a ossalati presentano, la loro rimozione è operazione storicamente errata, perché cancella porzioni di storia archiviati nella superficie dei monumenti e perché una volta rimossi tali avanzi dei trattamenti antichi sarebbe necessario sostituirli con protettivi chimici, sulla cui scelta esiste difformità di opinioni fra gli specialisti e la cui compatibilità con la materia antica è stata finora asserita sulla base di inadeguate simulazioni di laboratorio.
Nuovo e significativo è il ruolo crescente che la copia è chiamata a svolgere nelle strategie di tutela conservativa. L'aggravarsi delle condizioni ambientali (furti e vandalismi, spesso congiunti all'inquinamento) impone sempre più spesso di rimuovere dai contesti urbani, dalle ville storiche, dalle aree archeologiche gli originali ancora presenti (Laurenti 1992). Anche se un ricorso generalizzato alle repliche non è auspicabile, tuttavia in alcuni casi si tratta di risarcire per mezzo di esse una lacuna sfigurante del contesto architettonico e spaziale. Considerato il problema in questa prospettiva sembra superata la condanna a suo tempo irrogata da Brandi, secondo il quale la copia, essendo in tutto equivalente al falso, non si distinguerebbe da questo né concettualmente né tecnicamente. Pare al contrario che, a seconda delle intenzionalità e dei compiti legati alla funzione e alla collocazione di una copia, ne derivano ad essa requisiti assai condizionanti nell'aspetto da raggiungere e nelle tecniche con cui ottenerla.
L'attenzione finora è stata rivolta alla buona riuscita della replica e troppo poco alla salvaguardia dell'originale. Ma studi e indagini hanno messo in chiaro che i materiali da impronta di più comune impiego (attualmente gomme siliconiche) cedono prodotti dannosi che vengono trattenuti sulle superfici originali. Gli esperimenti applicativi più recenti (Le moulage 1988, Sculture da conservare 1990, Borrelli, Meucci 1994) consentono di ricorrere anche al calco per impronta diretta, purché si applichino sulle superfici degli originali una sequenza di strati con funzione, rispettivamente, di protezione delle superfici originali e di barriera contro i prodotti inquinanti.
Un residuo di passate tendenze puriste, sulle quali Brandi intervenne in modo assai netto, si è manifestato ancora negli anni Settanta con i cosiddetti ''de-restauri'', cioè le massicce cancellazioni dei r. storici, soprattutto nelle grandi raccolte di sculture, in nome di una malintesa esigenza filologica (Rossi Pinelli 1986). Oltre che contro le spuliture dei Marmi Elgin del British Museum, Brandi (1950, 1951) si espresse contro gli smontaggi operati da F. Magi al Laocoonte vaticano, giudicandoli come distruttivi esiti del purismo ottocentesco, in contrasto con il rispetto della storicità. E certo quello, come il più limitato intervento all'Apollo del Belvedere in Vaticano, marcano in Italia il perdurante influsso della scuola tedesca, distintasi per l'intervento sulle raccolte della Glyptothek di Monaco di Baviera (Ohly 1972, 1976) che nel panorama dei riordinamenti postbellici segna il persistere, presso l'archeologia tedesca, delle tendenze proprie della Scuola filologica.
Attualmente sembra avviata un'inversione di tendenza, che si esprime in un crescente rispetto dei r. storici e in una più realistica considerazione della natura, in gran parte irreversibile, degli interventi pregressi. A Monaco la radicale mutilazione inferta al Fauno Barberini è stata mitigata (Walter 1986) da una nuova ricostruzione, purtroppo parziale e non risolutiva. Ma è soprattutto in Francia e in Italia che i de-restauri di reperti o collezioni storiche sembrano consapevolmente abbandonati. Lo segnala il riallestimento al Louvre (Pasquier 1989) della Salle des Cariatides, uno dei nuclei storici delle raccolte, che nel 1962 accoglieva les Antiques du Roi, o il recupero del Seneca morente Borghese secondo il restauro di N. Cordier, o ancora la stessa sistemazione della Salle du Manège chiamata a illustrare, proprio attraverso i r. storici, la recezione dell'antico nei secoli 17° e 18°. A Roma le esposizioni parziali dei r. effettuati nelle raccolte del Museo Nazionale Romano in preparazione degli allestimenti del Museo di Palazzo Massimo (Archeologia a Roma 1989) hanno dato saggi significativi della medesima tendenza, sia nella presentazione della raccolta Ludovisi, sia nelle esposizioni delle Aule e, ultimamente, nel Planetario. Singolare è il fatto che, mentre il purismo tedesco sembra cedere la sua primazia nei criteri d'intervento sulle collezioni storiche, non perde la presa in fatto di sistemazione e r. di edifici e aree archeologiche monumentalizzate, il cui esempio più massiccio si va attuando con il programma di anastilosi dell'Acropoli di Atene (Melucco Vaccaro 1988-89). Un tema emerso di recente, in rapporto a una nuova attenzione portata ai r. storici, è quello del riuso. Saggi autorevoli (Memoria dell'Antico 1984-86) hanno riletto i r. storici come specchio delle idee e delle concezioni dell'Antico vigenti a partire dal Medioevo. Secondo tale approccio, dunque, il r. può dirsi una rilettura e un riuso del manufatto archeologico, una sua nuova funzionalizzazione. All'opposto ciò che, con il trascorrere del tempo e il mutare dei contesti, non ha più significato o tarda ad assumerne uno nuovo, si distrugge o si perde e attende nel terreno che l'archeologia lo riscopra e riapra in tal modo il ciclo del tramando, cioè dei riusi e delle manomissioni. R. e riuso acquistano, in questa prospettiva, un'inquietante contiguità.
Alla luce di quanto sopra considerato, conserva tutta la sua attualità un pensiero-guida della riflessione di Brandi: l'insistente richiamo a considerare il r. non come mera attività tecnica subalterna, ma come momento critico e conoscitivo, interno alla ricerca storica. È di qui che discende la necessità di ammettere il r., non diversamente dallo scavo, tra le materie di rilevanza metodologica e di non considerare più oltre come problema estraneo alla disciplina archeologica la definizione dei principi e dei mezzi che assicurino la conservazione di quei beni che dell'archeologia costituiscono l'oggetto.
Diviene allora rilevante l'acquisizione da parte dell'archeologo di un'adeguata formazione specifica. Questo, a differenza delle tecniche e delle metodologie di scavo, che ormai fanno parte della formazione curriculare, è un traguardo non ancora raggiunto per le materie relative al r., e anche i corsi di laurea in Conservazione dei beni culturali non sembrano, nei fatti, ancora mirati a tal fine.
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Restauro architettonico e urbano
di Paolo Fancelli
La misura e la portata dei nuovi problemi emersi, nei monumenti danneggiati, dal dopoguerra, hanno accelerato una profonda revisione dei fondamenti stessi della disciplina, la quale, da una connotazione ''filologica'', ma priva di valenze estetiche, ne ha gradatamente assunta una ''critica''. Quest'ultima ha postulato la lettura appunto storico-critica dell'opera come spina dorsale dell'intervento integrativo: inserto non anonimo, bensì creativamente riuscito, sebbene dalla lettura stessa come incanalato. Questa affascinante soluzione era in qualche modo la quadratura del cerchio, e presupponeva a sua volta un giudizio di valore storico-figurativo che poteva condurre all'espunzione e al risarcimento di parti del monumento. Su tali ultimi punti si è affermata poi, per contrapposizione, sin dai primi anni Settanta, un'altra visione che, dallo storicismo assoluto, dall'antropologia, dalla cultura materiale, traeva le mosse per postulare una sorta di pura o mera o assoluta conservazione, apparentemente resa possibile dagli sviluppi delle scienze fisico-chimiche, le quali finalmente iniziavano a consentire il mantenimento dell'autenticità architettonica. La ''pura conservazione'', tuttavia, è una posizione agnostica e indifferenziata.
Rispetto a tali atteggiamenti estremi, si sono susseguite, poi, impostazioni diverse, non necessariamente intermedie. Innanzitutto, si è consolidata, nel corso degli anni Ottanta, una tendenza ''conservativa'' che trae motivo di riflessione sia dalle ormai corpose ricerche degli scienziati, sia dall'ineludibile storia della disciplina. La posizione conservativa tout court contempla nel proprio seno pure mirate asportazioni (come la pulitura, o altro) e soprattutto oculati, distinti, seppur limitati, risarcimenti, ma sempre nel supremo interesse della salvaguardia dell'integrità dell'opera, nella sua complessità, nella sua materialità e nella sua diacronica originalità.
Vi è anche qui un sistema di valori di base, a sostegno di una posizione filosofica, e sono quelli di uno storicismo non assoluto, quelli di una reale saldatura tra filoni cosiddetti umanistici e scientifici, quelli di un'estetica della formatività, nell'ambito di una visione etica laica del mondo. In questo senso permane, come nel r. critico, sempre prioritaria la penetrazione storica dell'opera dall'interno, nelle sue riposte pieghe, nel processo che l'ha generata e modificata, nei suoi valori. Con il che, l'indagine precede il r., fornendogli strumenti e dati conoscitivi, ma è poi ulteriormente illuminata dal r. stesso, osservatorio privilegiato per l'esame materiale, corporeo dell'oggetto. Una simile interrogazione del monumento, caldeggiata e posta in essere da vari esponenti della Scuola romana, costituisce, tuttavia, l'unico connettivo tra impostazioni restaurative diverse, quando non opposte. Da quella conservativa tout court, ancora al r. critico, ovvero a una posizione più empirica o, infine, a quella che può essere definita la ''manutenzione a oltranza'', versus restitutionem, vale a dire il rispristino che nega ogni valore all'autenticità. In tale ultimo caso, accanto alla lettura del monumento, è enfatizzata la ricerca d'archivio pure sui capitolati, beninteso utilissima comunque in senso conoscitivo, ma da non tradurre ipso facto in progetto e/o in r. concreto, pena l'eliminazione del tempo intercorso, oltre che la mancata considerazione dell'intorno, urbano o meno, diacronicamente inteso. Proprio in relazione a quest'ultimo aspetto, sarà da rammentare che il r. architettonico e quello urbano vanno tra loro distinti, ma non separati, dopo aver tuttavia precisato la specifica collocazione e del monumento e della città rispetto alle altre tracce figurative e/o storiche da tramandare come depositarie di valori.
Il r., dunque, di necessità comporta un'unità concettuale e di metodo, ove che esso si applichi, ma un'unità articolata che ben si attagli alle peculiari situazioni in cui s'inoltri. In tal senso, in breve, l'architettura comporta: a) una percorribilità e un uso, una vivibilità dell'opera; b) un più o meno rilevante distacco progetto-esecuzione; c) una tendenziale esposizione all'aperto; d) l'adozione di un linguaggio astratto, generalmente non mimetico e di norma soggiacente a intrinseche esigenze anche statiche; e) un indissociabile legame con il sito; f) un ruolo di supporto, inoltre, per ulteriori filoni figurativi; g) una sedimentazione di lunga durata. Tutto ciò connota l'ambito prettamente architettonico, laddove risulta evidente come uno solo di tali requisiti, isolato, possa ben allignare in altro settore. Certo è che se architettura è quanto precede nel suo assieme, intervenire su di essa per tramandarla comporta di necessità la proposizione e la soluzione di problemi dianzi inespressi, ma solo implicati. D'altra parte, il r. urbano potrebbe sbrigativamente costituire la dilatazione e/o la semplificazione di quello architettonico. Ma assumere una simile via sarebbe invero percorrere la più facile delle scorciatoie. Fra i requisiti anzidetti, peraltro, quello della percorribilità e dell'uso è richiesto senza dubbio anche alla città come tale; quello relativo al distacco fra progetto ed esecuzione vive qui a fortiori, ammesso che un progetto sussista; quello concernente l'esposizione all'aperto figura pure in ambito urbano; l'adozione di un linguaggio astratto si propone anche qui; inoltre, il legame con il sito rappresenta un fondamentale e delicatissimo trait d'union fra i due contesti, nel senso che la città, più ancora della singola architettura, mira a identificarsi, sia pure con residui, con il sito stesso. Quanto, poi, al requisito che vede l'opera quale supporto per ulteriori filoni figurativi, si può constatare che la città medesima rappresenta un mondo espressivo − di un'esteticità sui generis - a parte, inglobando l'universo architettonico, ma pure il cosmo ambientale in senso naturalistico: qui, se mai, lo scambio con l'elemento geografico-paesistico risulta generalmente più cogente. Infine, la sedimentazione costituisce la regola e uno dei valori-principe in un impianto urbano, diversamente da quanto non accada in episodi architettonici esemplari, poco manomessi. Come si vede, le affinità e le contiguità sono numerose, ma le città non sono soltanto sommatorie di edifici, e sono a loro volta dotate di impianti e di servizi propri, di percorsi ad hoc, nonché di qualità degli spazi che derivano pure dalle relazioni fra le architetture pertinenti, ma anche da ben altro.
Ecco, dunque, che, in tale ultimo quadro, acquistano maggior senso operazioni restaurative di singole fabbriche, previa una verifica, appunto, storico-urbana sino a oggi o, meglio, procedente a ritroso. Ecco, dunque, che parlare di colore di un edificio storico, consapevoli del tema in tutta la cerchia cittadina, assume una ben differente configurazione. Ecco, dunque, che, d'altra parte, il riferirsi − come comunemente si fa nei centri storici − ai tipi edilizi, ha a sua volta bisogno del confronto diretto con l'opera nella sua tangibile singolarità, ben oltre ogni schematizzazione, utile e comoda, purché assunta come tale. Un pericolo incombente, nei settori in parola, è quello di un benculturalismo retorico. Così, si è parlato di riuso, contrabbandandolo con il ben differente r. che prevede, invero, un'utilizzazione congrua, quale mezzo di conservazione, non come fine. Si sono poi addirittura assunti gli edifici quali meri ''contenitori'' da adoperare purchessia, nell'ambito di una logica che è arrivata al ripristino tipologico delle lacune urbane. In quest'opera collettiva e plurisecolare che è la città storica si sta pure insinuando l'interesse, in funzione antisismica, di rimpiazzare letteralmente le intere strutture interne, cancellando, così, uno dei valori-base dell'architettura in quanto tale. Si è nel frattempo fiutato l'affare, anche tecnologico, del recupero dell'antico. E tutto ciò deturpandone i valori, fingendo o ritenendo di salvarlo, magari perché non si è in grado di realizzare una vera architettura del nostro tempo e, soprattutto, ancor più difficoltoso, un'autentica città contemporanea, in linea con le acquisizioni e le opzioni tecniche dell'oggi che potrebbero intervenire.
L'unica soluzione, al riguardo, consisterebbe nel conferire qualità urbana alle residue parti della città, alle periferie stesse, sgravando i centri storici di problemi che non competono loro e che anzi rendono difficile e inadeguato al mondo odierno il tentare d'insediarvisi e che, nel contempo, complicano, più che agevolare, la sopravvivenza dei centri stessi. Questi vanno letteralmente decongestionati, abitati, certo, ma non sovraccaricati, nel quadro di una generale pianificazione che sappia assumere nel proprio seno parametri rigorosamente restaurativi, facenti capo a una sorta di ''conservazione integrata''. Ciò nel contesto della dimensione, ormai, museale in senso moderno e aperto che i nostri centri storici devono acquisire dotandosi di una precisa funzione: quella dell'educazione estetica e storica.
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