Restauro e conservazione. Il sito archeologico
di Giovanni Carbonara - Donatella Fiorani
Il restauro è una disciplina relativamente giovane, che affonda le sue radici tanto nella moderna ricerca storica quanto nelle tradizionali pratiche di manutenzione tese a preservare un oggetto di riconosciuto valore dal degrado, sì da prolungarne la vita. Tuttavia esso si distingue dalla semplice rimessa in efficienza, per ragioni d'uso o economiche, d'un qualsiasi prodotto dell'attività umana e si rivolge, invece, ai monumenti, intesi nel loro senso etimologico di "documenti" unici e irripetibili, espressioni di gusto, d'arte, di sapiente "cultura materiale", oltre che dello stesso fluire del tempo. È noto che non esiste vero rimedio alle mutilazioni e ai danni subiti da un monumento, per trascuratezza o per attenzioni improprie; si potrà effettuare una riparazione o anche una copia al vero, ma l'originalità di ciò che si è perso rimarrà irrecuperabile. Ciò impone un approccio eminentemente conservativo, informato a criteri di massima cautela e di rispetto. Dopo un'attenta fase analitica e d'indagine, si opererà con tecniche commisurate alle reali necessità dell'antico manufatto e dei suoi materiali. Per questo sarebbe quanto mai opportuno garantire la continuità del gruppo di lavoro dedito allo studio e al rilievo, alla stesura del progetto, alla stessa direzione dei lavori che, con strumenti e opportunità nuove, prolunga in cantiere la medesima fase di ricerca. Senza troppo distinguere il restauro dei monumenti architettonici o archeologici da quello delle cosiddette "opere d'arte mobili", si dovrebbe parlare di unità di metodi e di principi, nella pluralità delle tecniche applicative. Nonostante l'indiscutibile specificità tecnologica dell'intervento edilizio, sul piano teoretico risulta quanto mai opportuno e fruttuoso riferirsi ad una salda ed unitaria elaborazione nel campo delle tradizionali arti del disegno. A differenza di quanto avviene in altri settori artistici (come la poesia o la musica), in quello tradizionalmente figurativo (dalla pittura all'architettura) il restauro lavora sempre e soltanto su originali, con tutti i rischi di errore e di danno, quindi con tutta la prudenza che tale circostanza comporta. Ne conseguono discrepanze, specie riguardo al cosiddetto "problema della rimozione delle aggiunte", oltre che della reintegrazione delle lacune, entrambi momenti ineludibili di una concezione del restauro tesa a facilitare la "lettura" (art. 4 della Carta del restauro italiana del 1972) del manufatto, contribuendo, insieme, alla sua conservazione, dandogli compattezza e continuità fisica e quindi capacità di autodifesa (il "mantenere in efficienza" della medesima Carta, sempre all'art. 4). Ciò ricade nella duplice funzionalità del restauro, riparativa e consolidativa da un lato, denotativa e connotativa, cioè di perpetuazione dell'identità dell'opera, dall'altro; né mai esso risulterà figurativamente neutro, privo d'incidenza sull'immagine, quasi potesse esistere una conservazione distinta dal restauro, la prima naturalmente rispettosa, il secondo mosso da volontà di alterazione e manomissione. Risulta invece chiaro che anche "conservare" e "mantenere" significano trasformare, certamente in maniera controllatissima, ma pur sempre trasformare, e che si tratta di orientare con discernimento l'inevitabile modificazione, sapendone esaltare le valenze conservative, ma senza trascurarne le inevitabili implicazioni estetiche e formali. Da qui la particolare complessità del progetto di restauro. La questione della rimozione delle aggiunte e della reintegrazione delle lacune rimanda alla dialettica, già affrontata in sede teorica, delle due "istanze": quella "della storicità", che vorrebbe la piena conservazione di quanto proviene dal passato e quella "estetica" che, al contrario, postulerebbe maggiore libertà operativa per restituire all'opera la sua bellezza, offuscata dal tempo e dalle vicende subite. Va subito chiarito che non si tratta di operazioni uguali e contrarie, distinte dall'asportazione di materia antica in un caso, dall'aggiunta di nuova nell'altro, ma di due atti radicalmente diversi: la rimozione è perlopiù irreversibile e non testimonia a vista se stessa, la reintegrazione può invece godere di una sua immediata riconoscibilità e della valvola ulteriore della reversibilità, in caso si voglia correggere o perfezionare, anche a distanza di tempo, l'intervento. Di conseguenza la prima è definita da C. Brandi come "eccezionale". Ambedue, comunque, sono attività di natura propriamente filologica, mirate alla restituzione del testo "autentico" dell'opera, da tradurre in una sorta di "edizione critica", condotta sopra un doppio registro (originale/restituzione), idoneo a consentire la fruizione dei frammenti antichi insieme o separatamente dagli emendamenti apportati. Da qui un continuo lavoro d'elaborazione di modalità operative, parallele a quelle proprie della filologia letteraria, per comunicare a vista, specie in riferimento al tema della reintegrazione delle lacune, il "grado di sicurezza" loro attribuito e altre informazioni: contrassegni e targhette indicanti la data e la natura dei lavori; perimetrazione (con frammenti laterizi, lamine metalliche o un semplice solco nell'intonaco) delle riprese murarie; sottosquadri; sfalsamento dei giunti verticali negli apparecchi murari in laterizio; peculiari trattamenti superficiali riservati a mattoni e pietre di restauro, con slabbrature dei bordi o anche rigature parallele, analoghe al tratteggio pittorico; "segnali" di riconoscimento fisico-chimici incorporati nelle malte di restauro (tramite studiate modifiche nel numero, nella qualità e nella granulometria delle sabbie) e via dicendo. In sostanza, una sorta di metalinguaggio critico che definisce una serie di segnalatori e marcatori "diacritici" (vale a dire, atti a distinguere il nuovo dall'antico) da utilizzare nelle tecniche di integrazione. Concludendo, si può affermare che in ambito archeologico mantengono la loro efficacia riferimenti e principi elaborati per il tradizionale restauro artistico e architettonico, criticamente e scientificamente inteso: la distinguibilità, il "minimo intervento" e la sua potenziale reversibilità, il rispetto dell'autenticità e della "materia" antica, la compatibilità fisico-chimica delle aggiunte. Il tutto al fine di conservare il contenuto culturale, la stratificazione storica e la struttura stessa dell'antico monumento, nella serena coscienza di poterne solo rallentare l'inarrestabile degrado, non certo di garantirgli un'impossibile perennità.
Il concetto di monumento archeologico muove dal riconoscimento del valore storico-estetico di un manufatto pervenutoci, spesso dopo un periodo di abbandono (perché interrato, inglobato entro costruzioni successive o semplicemente dimenticato), in condizioni lacunose e privo ormai delle sue funzioni. Il concetto di rudere si avvicina a quello di monumento archeologico, ma rimanda più immediatamente al paesaggio di cui è parte. A questo riguardo le posizioni che, già dall'Ottocento, si delineano sono due. Alla prima appartengono coloro che vedono nella rovina una "nuova opera", singolare intreccio d'arte e natura determinato dal trionfo del tempo sull'attività dell'uomo, sublime per il suo malinconico fascino: così, ad esempio, W. von Humboldt, proprio all'inizio del XIX secolo. L'altra posizione è invece propria di chi ravvisa nella rovina la testimonianza mutila, ancorché riconoscibile, di un'opera o di un evento umano e quindi la considera, soprattutto, come documento materiale di storia. Da qui due atteggiamenti diversi, rispettivamente volti alla rigorosa conservazione dello stato di fatto, da un lato, e all'intervento reintegrativo, per rendere più comprensibile la testimonianza storico-architettonica o archeologica, dall'altro. La moderna disciplina archeologica è stata in principio condizionata, quanto ad obiettivi, metodi d'indagine e criteri di conservazione, dall'antiquaria dei secoli precedenti, orientata verso oggetti di pregio (monete, gemme, vasi, sculture, ecc.) soprattutto di età classica. In tre secoli lo sviluppo delle conoscenze ha portato ad un vistoso allargamento di interessi: l'attenzione conservativa s'è pertanto estesa alle strutture architettoniche, anche se prive di specifici valori figurativi, oltre che ai prodotti di culture diverse e distanti, sia cronologicamente che geograficamente. La nascita dell'archeologia preistorica ha sensibilizzato l'interesse nei confronti dei più minuti segni custoditi dal terreno (buche da palo, tracce di focolari, spianamenti o rialzamenti del suolo a scopo difensivo), mentre l'ampliamento della ricerca ad aree geografiche più giovani, come l'America o l'Australia, ha comportato un uguale sforzo documentario e di tutela nei confronti di strutture relativamente recenti, com'è il caso delle accurate campagne di scavo condotte negli Stati Uniti sul sito di edifici del XIX secolo, sino alle espressioni di archeologia industriale. Problemi specifici sono posti dal rinvenimento di manufatti architettonici di prestigio, impreziositi dalla presenza di affreschi, decorazioni o rivestimenti. Il valore artistico di questi elementi, connesso con l'alto rischio di deperibilità o di furto, suscita questioni di protezione ormai non più risolvibili con i sistemi del distacco o della rimozione di parti dell'opera, a meno di cogenti ragioni conservative. La conservazione in situ rappresenta in questo caso un intervento di particolare impegno architettonico (per la creazione di eventuali barriere protettive, di tettoie e coperture, di un'efficace presentazione, ecc.). Un "restauro preventivo", costituito perlopiù dall'attenta sorveglianza dei percorsi dei visitatori e dal controllo dei parametri ambientali, costituisce la prima forma di tutela del monumento stesso. Necessaria alla conservazione di ogni manufatto storico- artistico, la manutenzione risulta più che mai indispensabile al sito e al monumento archeologico, dati il contesto rurale sul quale i resti archeologici spesso insistono, il forte afflusso di visitatori o, viceversa, l'isolamento e l'abbandono. Una pulizia costante ed il controllo dell'efficienza di tutti i sistemi impiantistici (per l'allontanamento delle acque, la protezione, la sicurezza, l'illuminazione, ecc.) sono gli elementi basilari di una corretta manutenzione del monumento, ai quali si accompagnano piccoli e circostanziati interventi di riparazione. Se l'anastilosi o la semplice ricomposizione di parti smembrate, senza integrazioni o modifiche, rappresentano strumenti utili per giungere al recupero degli antichi valori spaziali e formali dell'architettura, nel rispetto sostanziale della materia originaria, più di recente sono state rimarcate le alterazioni apportate al paesaggio, ormai storicizzato, col rialzamento di pareti in conci lapidei e di rocchi di colonne. Questi mostrano spesso vistosi segni di alterazione e di consunzione, susseguenti al crollo e alla lunga permanenza sul terreno, incongruenti col riassetto in elevato della struttura (basti pensare al tempio di Priene. con gli elementi di pietra un tempo suggestivamente raccolti a terra, e a quelli di Selinunte in Sicilia, dove, al contrario, è stata intrapresa la ricomposizione). In ultimo, l'allargamento improprio del concetto di anastilosi a strutture architettoniche legate con malta e la susseguente introduzione di notevoli margini di integrazione formale e materiale hanno contribuito a far maturare una profonda critica nei confronti dell'impiego generalizzato e disinvolto di questo procedimento. La ricostruzione del monumento archeologico, in sostanza, presenta sempre il rischio di alterare il profilo del sito e il peso relativo di ogni parte costituente il complesso e, in alcuni casi, di sbilanciare eccessivamente il rapporto fra porzioni nuove e antiche. Ancora meno condivisibili sono, in questo senso, i lavori di ripristino operati su singoli monumenti o su intere aree archeologiche, che vanno dall'integrazione spinta di considerevoli tratti murari (mura di Teodosio II a Istanbul) al rifacimento di fabbricati (uno dei più celebri è quello condotto ad opera della Scuola Americana, nel 1953, sulla Stoà di Attalo ad Atene), alla ricostruzione di interi villaggi, secondo una linea didattica propria della cosiddetta "archeologia sperimentale" (villaggi preistorici in Germania, insediamenti vichinghi in Inghilterra e Danimarca, abitati settecenteschi negli Stati Uniti, ecc.).
Fra chi giudica il restauro come un fenomeno moderno (da E. Viollet-le-Duc a R. Bonelli e A. Conti) e chi lo vede, al contrario, come una costante del fare umano (da G. De Angelis d'Ossat ad A. Melucco Vaccaro) il confronto è aperto, anche per la mutevolezza stessa del concetto, cambiando il quale variano i termini della sua delimitazione cronologica. Ricorrenti attenzioni conservative e restaurative (oltre a quella, continua, rappresentata dalla manutenzione e dal riuso) si riscontrano in ogni periodo, motivate soprattutto da istanze religiose, politiche o rappresentative. Tali sono la scrupolosa cura, in età classica, della colonna lignea superstite del santuario arcaico di Era ad Olimpia, secondo la testimonianza di Pausania, o il caso della nave di Teseo, conservata ad Atene e sottoposta a continua manutenzione, tramandatoci da Plutarco, o quello della presunta nave di Enea, vista in Roma da Procopio di Cesarea. Si tratta comunque di eccezioni, mentre in antico l'atto di restauro coincide, generalmente, col rifacimento, la riedificazione, la ricreazione. Il desiderio di realizzare opere giudicate più degne favorisce il succedersi di demolizioni e conseguenti ricostruzioni a fundamentis. È questa una consuetudine che permane a lungo pur se ogni epoca la sostanzia e la interpreta in maniera propria. Essa trova l'esemplificazione più evidente nelle architetture romane, che sono oggetto di molteplici rifacimenti integrali mantenendo sempre il sito e la dedicazione primitiva (Pantheon e tempio di Saturno, in Roma), ma ancora oggi tale pratica vive ritualmente in Giappone (santuario scintoista ad Ise). Vi si legge una volontà "restaurativa" mirante alla conservazione dei significati e dei contenuti simbolici del monumento, indipendentemente dalla sua consistenza materica, che viene sacrificata e rinnovata. Agli inizi del XIX secolo talune anticipazioni conservative emerse alle soglie dell'età neoclassica acquisiscono maggiore rigore e più profonda chiarezza. Si pensi, per un verso, all'importanza della legge di tutela siglata dal cardinale B. Pacca (1820), che consolida gli esiti di un lungo processo di ricerca teorica e applicativa, per l'altro alle riflessioni di A.-Ch. Quatremère de Quincy sul restauro dell'Arco di Tito in Roma, apprezzato per l'impiego di materiali diversi (travertino al posto del marmo) e per la semplificazione delle forme (ottenuta lasciando nella massa i dettagli). Fra Ottocento e Novecento il restauro archeologico si distingue nettamente dagli indirizzi predominanti circa i monumenti architettonici, godendo di una buona stabilità concettuale sensibile, tuttavia, ai progressivi affinamenti tecnici, alle inevitabili variazioni del gusto, ai differenti ambiti geografico-culturali. In generale si può dire che in Gran Bretagna la conservazione dei resti archeologici tenda ad evitare l'inserzione di nuovi materiali e non sono pochi i monumenti assolutamente privi di risarcimenti. A Roma, archeologi e restauratori come G. Boni ("passeggiata archeologica", Foro Romano) o A. Muñoz (tempio di Venere e Roma) sperimentano l'uso di essenze congruenti con le architetture storiche (pino italico, leccio, alloro, ecc.) e integrazioni non murarie, ma effettuate con l'uso del verde. Si tratta di soluzioni sofisticate, tuttora pienamente attuali. L'intervento di conservazione dell'abbazia di Zsámbék, in Ungheria, sul finire del XIX secolo (dell'architetto I. Möller) è giustamente lodato per la modernità del metodo, eminentemente conservativo, e costituisce forse il primo caso di aggiornato restauro a rudere. Effettivamente i più noti esempi analoghi risultano posteriori (abbazia di Notre- Dame a Jumièges in Normandia; rovine dell'abbazia cistercense di Tintern, nel Galles). In Italia la conservazione allo stato di rudere, pur non incontrando un grande favore, può contare su alcuni validi casi, come la chiesa di S. Nicola a Capo di Bove sulla via Appia Antica (intervento di A. Muñoz) e l'abbazia cistercense di S. Galgano presso Siena (intervento dell'architetto G. Chierici, iniziato nel 1923). È significativo rilevare che, proprio negli stessi anni, l'abbazia cistercense di Silvacane, presso Aix-en-Provence, è oggetto di lavori che, lungo alcuni decenni, porteranno al suo integrale ripristino. Pur con notevoli divergenze fra teoria e prassi, gli esempi di restauro, in quegli anni, sono numerosissimi: la sistemazione del tempio di Augusto e Roma a Pola, in seguito pressoché distrutto dalla guerra; la liberazione, a Roma, del tempio della Fortuna Virile, a Nîmes della Maison Carrée, ad Évora, in Portogallo, del cosiddetto Tempio di Diana, unico del genere nella Penisola Iberica. Ad Atene l'ingegnere N. Balanos interviene sul Partenone (1898-1902, 1923-33) e, fra l'altro, reintegra i rocchi del fianco orientale con un conglomerato cementizio, piuttosto che con la stessa pietra usata in origine nel tempio. Inoltre Balanos, che lavora anche all'Eretteo (1902-09), ai Propilei (1910-17) e al tempio di Athena Nike (1935-40), introduce travi di ferro nei blocchi danneggiati, utilizza il cemento armato per le parti non destinate a rimanere in vista, elimina i sostegni ottocenteschi di mattoni e procede nella ricostruzione impiegando, per quanto possibile, il materiale ancora disponibile. La casistica è vasta, nel bene e nel male. In genere le scelte dei restauratori evidenziano due diversi orientamenti: quello d'occultare le opere di adeguamento o consolidamento (colonnato di S. Lorenzo Maggiore, a Milano, restaurato negli anni 1952-55 con lo svuotamento delle colonne per inserirvi pilastri in cemento armato) e quello, opposto, di esibirle come segno palese di novità e filologica distinzione (tempio di Segesta, grappe e fasciature metalliche). Nel secondo dopoguerra gli esiti dei moderni enunciati del "restauro critico" (R. Bonelli, R. Pane) e del pensiero di C. Brandi, in una concezione del restauro basata sulla comprensione profonda dell'opera e sulla necessità, considerata irrinunciabile, di effettuare interventi riconoscibili, distinguibili, reversibili, leggeri e contenuti, ma, al tempo stesso, forniti di qualità estetica, si riconoscono nell'opera di F. Minissi, attivo presso l'Istituto Centrale del Restauro. Egli accoglie e sperimenta felicemente, proprio in campo archeologico, l'invito brandiano ad operazioni, insieme, "integralmente moderne e integralmente modeste". La sistemazione della villa tardoromana di Piazza Armerina, decorata da preziosi mosaici pavimentali, è attuata tramite passerelle gettate sopra le creste murarie e, in specie, attraverso la ricomposizione, con materiali attuali e trasparenti, dei volumi generali degli ambienti, che possono in tal modo essere allo stesso tempo protetti dagli agenti atmosferici e percepiti nelle loro valenze spaziali. I medesimi criteri, che sfruttano il carattere chiaramente moderno di alcuni materiali (vetri speciali, perspex, ecc.), sono adottati anche negli interventi sulle mura greche in terra cruda di Gela e sul teatro di Eraclea Minoa, criticati al manifestarsi dei primi vistosi segni di invecchiamento. Eppure si è trattato di esperienze meritevoli e anticipatrici, che hanno aperto la strada ad alcuni dei più rigorosi sviluppi in materia. Il pensiero sul restauro si è di recente orientato verso una linea "critico-conservativa", attenta agli ampliati doveri della conservazione e alle acquisizioni tecnico-metodologiche derivanti dalla riflessione sugli antichi materiali, ma nel contempo non indifferente alla dialettica delle due istanze, la storica e l'estetica, e agli aspetti rivelativi del restauro. Radicalmente diversa è l'opzione favorevole ad una invasiva "manutenzione", poco sensibile all'autenticità materica dell'opera e, viceversa, attenta a riproporne la presunta "autenticità formale" tramite sostituzioni e rifacimenti considerevoli. Su questo fronte sembra collocarsi l'intensa campagna di restauri in atto sui monumenti dell'Acropoli di Atene, con speciale riferimento al Partenone.
Carattere proprio del restauro è l'intima fusione di competenze storiche e tecnico-scientifiche. Si rivela, quindi, artificiosa la distinzione fra "progetto di consolidamento" e "progetto di restauro" propriamente detto; distinzione fondata sull'assunto, tutto da dimostrare, che in un'antica costruzione i problemi statici e quelli relativi ai materiali possano isolarsi e trattarsi separatamente dalla più generale comprensione dell'organismo architettonico. Il consolidamento, invece, dovrebbe rispondere a quelle stesse regole che guidano il restauro (oltre che alle norme proprie della statica e della scienza delle costruzioni), divenendo un'accezione del restauro stesso. A rigor di termini, dunque, non di "consolidamento" o di "restauro statico" dovrebbe parlarsi, ma di "problemi statici del restauro", così come sarebbe corretto riferirsi ai "problemi d'uso" degli antichi edifici e non al loro "recupero" o "restauro funzionale". Ciò anche per sottolineare il valore in sé della preesistenza storica, alla quale tutte le altre esigenze devono piegarsi, da quelle di riuso, percorribilità e fruibilità a quelle relative al grado di vulnerabilità strutturale, da graduare secondo la natura del monumento archeologico (se lasciato a rudere oppure destinato ad accogliere persone al suo interno). Forse prima in campo archeologico che altrove si è sviluppata una critica, in gran parte giustificata, all'impiego dei materiali moderni nel restauro. Questa ha però finito con l'assumere toni ideologici e preconcetti che l'hanno allontanata dal cuore del problema; non ha infatti senso condannare e proscrivere i materiali in sé, tradizionali o moderni che siano, dipendendo il risultato soprattutto dall'operatore, che si è assunto l'onere di tradurli in un più o meno valido progetto, e dalla verifica scientifica delle applicazioni sperimentali. Ai primi del Novecento risulta ormai evidente il fascino esercitato dalle tecniche moderne, tratte dall'ingegneria edile, giudicate capaci di non offendere i monumenti con aggiunte in vista, di non menomarne l'originalità con rifacimenti, ripristini e "cuci e scuci" murari. La possibilità di sostenere una struttura cadente (dalla Loggia dei Papi a Viterbo, 1899-1902, al muro esterno dell'Arena di Verona, consolidato dall'ingegnere R. Morandi nel 1958 con la tecnica della precompressione), invece che abbatterla e rifarla, com'era alle volte inevitabile, si presentò come un sicuro progresso da perseguire ad ogni costo, anche a quello, scientemente accettato, di alterare lo schema statico originale. Oggi si sono meglio definiti limiti e rischi dell'immissione di elementi disomogenei, nondimeno perdura la ragionevole opinione che, dovendosi pagare un prezzo al consolidamento strutturale, ciò non avvenga a scapito della figuratività dell'opera (come nel restauro dei quadri o degli affreschi è improponibile che si sacrifichi il dipinto per salvare la tavola di legno o il muro retrostanti). Ci s'impegna, dunque, per evitare tanto demolizioni e ricostruzioni, quanto alterazioni e protesi in vista, studiando analitiche, contenute e puntuali soluzioni, caso per caso, avendo coscienza della singolarità ed unicità di ogni monumento. Criteri analoghi guidano il trattamento conservativo dei materiali e delle superfici. Una recente acquisizione, infine, è quella relativa alla necessità di un sistema di codifica dello stato di conservazione del manufatto a chiusura del cantiere di restauro; ciò al fine di poter condurre nel tempo controlli circa la durabilità degli interventi effettuati e di programmare razionalmente cicli e tempi di manutenzione.
Ogni atto di restauro deve fondarsi sulla preventiva, approfondita conoscenza del monumento; è necessario anteporre a qualsiasi proposta di intervento uno studio completo del bene archeologico in questione e tale studio trova nel rilievo diretto e nell'analisi delle strutture e degli apparecchi murari il suo punto di forza. Ciò anche in merito alla valutazione dello stato di degrado, all'analisi del quadro fessurativo, alla risoluzione di alcune ambiguità o incertezze diagnostiche, alla caratterizzazione dei materiali e delle loro lavorazioni. Le ricostruzioni grafiche e le restituzioni di dettaglio delle membrature deteriorate potranno costituire utili esiti del rilievo, ma suo obiettivo primario, in campo conservativo, sarà di proporsi come strumento privilegiato di carattere prediagnostico, mezzo d'analisi e di controllo dell'itinerario operativo. L'identificazione della tipologia del degrado e della sua distribuzione nelle strutture archeologiche è stata oggetto di particolari approfondimenti a partire dagli anni Settanta e ha partecipato indirettamente, con la definizione di un lessico unitario, alla messa a punto degli opportuni interventi di risanamento. L'interdisciplinarità si pone, entro il principio dell'unità di metodo nel restauro, quale strumento principale per coniugare in maniera coerente ed esaustiva le diverse competenze necessarie allo studio e alla conservazione dei beni archeologici monumentali. Si possono così riguardare aspetti diversi del manufatto, dal significato spaziale, tecnico e materiale degli antichi resti alle questioni staticostrutturali, dalle componenti formali e stratigrafiche ai problemi di natura più strettamente chimico-fisica. Vanno ribadite, in ogni modo, la necessità di una puntuale conoscenza materica del monumento e la centralità degli strumenti di indagine storico-critica e filologica. Nel campo del restauro dei monumenti, anche archeologici, si richiede inoltre la peculiare capacità professionale dell'architetto restauratore, preferibilmente formato in una delle scuole di specializzazione postuniversitarie; eppure spesso si lascia intendere che tale attività possa venire surrogata dalla sommatoria di competenze specialistiche, del chimico, del fisico, dell'ingegnere strutturista, dello storico dell'arte, dello stesso archeologo, degli esperti di conservazione dei singoli materiali e via dicendo. Al contrario, si rivela sempre più necessario un progetto unitario che, tuttavia, non sarà costituito da momenti distinti fra loro, ma rappresenterà l'esito di un cammino logico, analitico e ideativo ininterrotto. Quanto alle imprese esecutrici, non dovrebbe mancare l'impegno per affinare le tecniche, ma soprattutto per rieducare le maestranze edili ad una manualità appropriata, di tipo tradizionale, oggi in gran parte compromessa. In tal senso, quanto mai positivo si rivela il contatto e lo scambio, sul cantiere, con qualificati restauratori di opere d'arte (per il trattamento delle superfici lapidee e intonacate, degli affreschi e delle decorazioni, dei materiali come quelli fittili, metallici e via dicendo). Accanto a quello della riconversione di professionisti, maestranze e imprese, andrà posto il problema della riforma delle procedure amministrative (modalità di appalto, selezione delle imprese, ecc.) tuttora farraginose e improprie. È necessario un profondo ripensamento normativo per garantire una progettazione di qualità, anche tramite la stesura di "capitolati speciali tipo", e una costante presenza tecnico-scientifica in cantiere, analogamente allo scavo archeologico. Purtroppo le leggi ora vigenti, tendendo ad assimilare i lavori di restauro alle comuni opere pubbliche, non riflettono la percezione della specificità e dei caratteri propri dei beni culturali; ne derivano gravi rischi per i monumenti, come l'affidamento a professionalità inadeguate, il restringimento dei tempi tecnici, il finanziamento non calibrato. I necessari adeguamenti alla normativa europea, ugualmente insensibile al problema, non contribuiscono, per ora, a migliorare la situazione.
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di Francesco Tomasello
Si tratta di un caso peculiare di restauro, inteso come ricostruzione parziale o, molto più raramente, totale di un edificio tramite la ricomposizione delle sue membrature architettoniche dissestate. Come desumibile dall'etimologia (ἀναστήλωσιϚ: il termine deriva dal verbo ἀνα-στηλόω, impiegato, ad es., da Plutarco nel senso di innalzare, ristabilire un monumento, una colonna, a sua volta da στηλόω, alzare come una stele, e dal sostantivo στήλη, blocco di pietra, lastra, stele, colonna), la ricomposizione interessa strutture in elevato, murarie, a pilastri o, con maggiore evidenza, colonnate di edifici, soprattutto del periodo classico, le cui componenti edilizie, pur disgregate, si siano conservate in larghissima parte e risultino facilmente individuabili per materiale, forma, giacitura. Più precisamente, essa riguarda ogni tipo di struttura, di qualsiasi età o cultura architettonica, innalzata "a secco", con l'ausilio di soli conci o rocchi di pietra, non legati da malta. Un'altra condizione richiesta, perché si possa parlare di effettiva anastilosi e non di generica ricostruzione, è la contiguità (più che la completezza) dei vari elementi da ricomporre, sicché non risulti necessario procedere per via induttiva o analogica o di modularità e proporzioni presunte, ma sulla base dell'evidenza di quanto materialmente sussiste. La legittimazione di questa tecnica di restauro risiede proprio nel fatto che la ricollocazione meccanica dei diversi elementi ha una base oggettiva e scientifica accertabile tramite le vicende della distruzione (dissesto e crollo indotti, generalmente, da cause naturali); il procedimento è inoltre facilitato dal preventivo inquadramento storico-architettonico del monumento in esame e del suo contesto. Una forma di anastilosi è, ancora, la ricomposizione di una struttura dopo lo smontaggio scientificamente documentato delle varie parti per assicurarne la stabilità, altrimenti compromessa, o per altre cogenti ragioni conservative (sezionamento e trasporto dei templi dell'isola di Philae). Le motivazioni di questo tipo di restauro architettonico (concettualmente analogo a modalità di restauro scultoreo o delle ceramiche) si fondano sull'esigenza di una lettura immediata del monumento e delle sue qualità volumetriche e spaziali. Tuttavia, nella riproposizione fisica del monumento si presentano alcune difficoltà di ordine teorico e pratico non facilmente evitabili: in primo luogo l'impatto ambientale e l'alterazione di un sito archeologico ormai storicamente consolidato (si pensi ad Olimpia, nel caso si volesse considerare l'eventuale anastilosi del tempio di Zeus, o alle polemiche relative al progetto di anastilosi di alcuni templi di Selinunte), poi il difficile controllo dell'effetto prodotto dall'accostamento di pezzi che hanno subito processi di degrado diversi, perdendo l'originaria omogeneità di fattura. In certi casi la stessa univocità nella giustapposizione delle varie parti è con difficoltà garantita, in quanto frutto di un'interpretazione della struttura, del dimensionamento, della sequenza dei pezzi o di una non sempre agevole valutazione delle imperfezioni cantieristiche e delle eccezioni edilizie. Dopo una lunga serie di interventi sui monumenti classici, operati già a partire dal XVII secolo, una legittimazione teorica dell'anastilosi è stata sostenuta nella Carta di Atene sul restauro dei monumenti (1931) e nella successiva Carta di Venezia (1964). La prima, nel caso di monumenti archeologici e qualora le condizioni lo permettano, ritiene auspicabile la ricollocazione degli elementi originali ancora conservati (art. 4). La seconda prevede quale unico procedimento di restauro pertinente ai monumenti antichi l'anastilosi, cioè "la ricomposizione di esistenti parti smembrate con l'aggiunta eventuale di quegli elementi neutri che rappresentino il minimo necessario per integrare la linea e assicurare le condizioni di conservazione". La Carta del restauro italiana, a cura del Ministero della Pubblica Istruzione (1972), riconosce, fra le operazioni ammesse, le "anastilosi sicuramente documentate" accanto alla "ricomposizione di opere andate in frammenti" (art. 7, comma 3) e propone, nelle istruzioni allegate, più puntuali suggerimenti sulle procedure da adottare. L'anastilosi va tuttavia inquadrata in una ben più complessa forma di restauro, in quanto è raro che si presenti il caso ottimale della semplice ricomposizione di pezzi perfettamente conservati in sequenze continue e prive di lacune, esenti da manipolazioni o cronologicamente omogenei. L'intervento riguarda gli iniziali effetti meccanici dello smembramento e della caduta (fratture, scheggiature, fessurazioni, slabbrature dei conci, ecc.) e le successive alterazioni dovute allo stato di abbandono e manomissione (degrado dei materiali, logoramento, asportazione, ecc.); inoltre va associato al preliminare risanamento statico, oltre che delle singole componenti edilizie, anche del complesso strutturale, sì da ovviare alle cause del dissesto che hanno originato il crollo. Le operazioni di ripristino, indispensabili al consolidamento della struttura ricomposta, anche se marginali nell'ottica dell'anastilosi, mirano in ogni caso all'effetto di continuità della stesura lapidea. Le carte del restauro suggeriscono che le integrazioni vengano palesemente dichiarate, escludendo però operazioni che comportino un contrasto cromatico o materico con gli elementi originali; inoltre, l'intervento dovrebbe risultare totalmente reversibile nella prospettiva di possibili modifiche dettate da una migliore lettura del monumento e dall'aggiornamento delle tecniche di restauro. Uno degli esempi più noti di anastilosi, ma in effetti di estesa ricostruzione anche con l'ausilio di materiali moderni, è costituito dal Partenone. Parzialmente distrutto dal cannoneggiamento veneziano del 26 settembre 1687, il monumento è stato "liberato" da tutte le testimonianze storiche non pertinenti alla fase classica e sottoposto ad anastilosi nel periodo fra le due guerre mondiali. Gli interventi condotti da N. Balanos furono volti al riassetto statico delle varie membrature, in particolar modo delle colonne della peristasi e delle trabeazioni crollate in seguito alle esplosioni seicentesche. Le integrazioni resesi necessarie per la ricollocazione dei pezzi e per la loro protezione dagli agenti atmosferici (grappe di ferro, malte, cemento) non hanno tuttavia retto all'usura del tempo e delle condizioni ambientali. Gli agenti atmosferici e l'ossidazione dei perni di ferro utilizzati hanno ulteriormente deteriorato la struttura dei marmi, provocando la fessurazione dei blocchi, la caduta di ampi frammenti a diretto contatto con le grappe e la corrosione delle superfici. Da qualche anno il Partenone è sottoposto ad una nuova campagna di restauri condotta con sistemi non moderni, ma tradizionali; nuovamente non si tratta tanto di anastilosi, quanto di un sistematico ripristino che potrebbe generare incertezze d'altra natura. Carattere pressoché pittoresco, certamente non scientifico, deve essere assegnato all'anastilosi di un angolo del cosiddetto Tempio dei Dioscuri ad Agrigento. L'assemblaggio delle membrature è largamente arbitrario, in quanto effettuato anche con blocchi disposti in posizione diversa da quella originaria; una simile operazione di anastilosi è stata portata a termine, nonostante l'oggettiva e palese disomogeneità dei conci utilizzati, anche nella ricomposizione del cosiddetto Ginnasio a Solunto. L'impegnativa ricomposizione, risalente al 1956, dei disiecta membra del Tempio E di Selinunte fu inizialmente dettata dallo stato di corrosione e dissesto dei muri della cella e delle membrature portanti. Il risultato ottenuto permise di valutare più compiutamente l'architettura del tempio e i dettagli costruttivi, ma richiese alcune radicali integrazioni, purtroppo distruttive e non reversibili, che non hanno retto al decadimento fisico-chimico della materia. Uno dei più recenti interventi di anastilosi è la ricostruzione della facciata della Biblioteca di Celso e dell'adiacente porta monumentale di accesso all'agorà di Efeso. L'operazione si è avvalsa di una struttura di presidio statico imponente e tecnicamente sofisticata, mentre le lacune architettoniche sono state colmate con elementi di cemento armato opportunamente intonacati. In ambito medievale, un recente caso notevole di anastilosi è quello che ha consentito, anche con l'ausilio di sistemi di catalogazione e di riconoscimento su base informatica dei conci lapidei, il parziale rialzamento del duomo di Venzone, distrutto dal terremoto del 1976. In senso lato, è ancora concettualmente operazione di anastilosi la ricomposizione di antiche strutture in calcestruzzo, quindi eseguite in origine non a secco ma con materiale fluido, fratturatesi e cadute in solidi blocchi monolitici, come tali ricollocabili in sito con speciali accorgimenti (volte di Villa Adriana). Si definisce, infine, come "anastilosi indiretta" un tipo di intervento relativo ad antichi edifici di cui rimangano pochi ma significativi resti, perlopiù decorativi. Essa serve a ripresentare efficacemente sul sito i frammenti superstiti nella loro presumibile reciproca collocazione d'origine, ricorrendo all'ausilio di un moderno supporto. Si distingue dalla vera e propria anastilosi perché non richiede né una struttura necessariamente eseguita a secco, né la garantita continuità e contiguità dei pezzi. È in sostanza una modalità di parziale ricostruzione, più di carattere museale all'aperto che restaurativo: dal caso esemplare del tempio di Iside nell'antica Savaria, ora Szombathely (Ungheria), del 1961, si risale ad alcune possibili anticipazioni italiane, degli anni Venti e Trenta, di valore didascalico ed esemplificativo, realizzate con un esteso apporto di nuovo materiale, laterizio o lapideo, come nel caso del tempio di Venere Genitrice o del tempio di Apollo Sosiano in Roma.
G. Giovannoni, s.v. Restauro, in EI, XXIX, 1936, pp. 127-30; L. Crema, Monumenti e restauro, Milano 1959; R. Bonelli, s.v. Restauro, in EUA, 1963, coll. 344-51; J. Bovio Marconi, Problemi di restauro e difficoltà dell'anastilosi del tempio E di Selinunte, in Palladio, 16 (1967), pp. 85-96; B.M. Feilden, Conservation of Historic Buildings, London 1982; R. Luciani, Il restauro, Roma 1988; A. Melucco Vaccaro, Restauro e anastilosi: il caso dell'Acropoli di Atene, in Prospettiva, 53-56 (1988-89), pp. 49-54; Ead., Archeologia e restauro, Milano 1989; F. Hueber, Die Anastylose-Forschungsaufgabe, Restaurierungs- und Baumaßnahme, in ÖstZKunstDenkmal, 43 (1989), pp. 111-43.
di Nicholas Stanley-Price
L'idea di gestire in maniera efficiente siti archeologici e monumenti non è nuova: si tratta di una delle funzioni statutarie previste dalla maggior parte degli enti statali per le antichità, sin dalla loro istituzione. Tale idea trae origine dal fatto che siti archeologici e monumenti occupano determinati terreni; si tratta dunque di un uso specializzato di un appezzamento di terreno che, come in tutti i casi analoghi, richiede un'amministrazione appropriata. Soprattutto nel mondo anglofono, siti e monumenti sono stati spesso considerati "patrimonio culturale", espressione che costituisce un evidente parallelo con "patrimonio naturale". Ma gli elementi costituenti il patrimonio culturale di un popolo sono assai più numerosi dei suoi monumenti; di conseguenza l'espressione "gestione del patrimonio culturale" può indurre in errore i non specialisti. In sua vece oggi viene usata sempre più spesso l'espressione cultural heritage, con riferimento ai siti, ai musei e ad altri luoghi che hanno una particolare importanza culturale. È possibile che lo stato in cui si trovano siti archeologici e monumenti sia stato determinato da molti anni di abbandono (va detto, però, che l'isolamento e lo stato di abbandono possono paradossalmente concorrere alla salvezza dei siti). Oppure può darsi che determinati siti e monumenti siano stati oggetto di opere di conservazione e di restauro per riparare eventuali danni. Questo costituisce un tipo di gestione. Ma normalmente l'idea di gestione implica una efficace politica ed una consapevole pianificazione, piuttosto che la ricerca di soluzioni di problemi ovvi. Possiamo quindi considerare la gestione come un "potere decisionale pianificato".
Nella maggior parte dei Paesi in cui il sottosuolo archeologico appartiene per legge allo Stato, la responsabilità della gestione dei siti e dei monumenti viene assunta dagli enti governativi nazionali o locali, i quali provvedono ad organizzare attività di fondamentale importanza, quali l'inventario, le ispezioni, gli scavi, la conservazione e la manutenzione, che vengono finanziate con fondi pubblici. Altre istituzioni ‒ università, musei, società archeologiche locali e persino singoli individui ‒ collaborano alle operazioni di studio e di scavo. Ma la responsabilità della gestione e della manutenzione dei siti e dei monumenti tende a rimanere sempre prerogativa degli enti governativi ufficiali, anche se oggi si notano indizi di una maggiore flessibilità. Ad esempio, se un importante sito archeologico protetto dalla legislazione dello Stato è ubicato su un terreno privato, lo Stato può stipulare un "contratto di gestione" col proprietario del terreno. Il contratto indicherà esattamente quali sono gli usi del sito consentiti al proprietario, il quale riceverà un indennizzo e si impegnerà de facto a garantire la conservazione e la protezione del sito. Nelle attività di conservazione e di manutenzione di un monumento è innegabile che le operazioni di scavo tendono a rendere indispensabili ulteriori attività di conservazione e manutenzione di un sito; ma il più delle volte i finanziamenti a disposizione degli enti governativi sono insufficienti per garantire la conservazione dei siti dopo che sono stati scavati. Per questo ora in numerosi Paesi viene talvolta richiesto a chi esegue gli scavi di collaborare alla conservazione e al restauro dei siti.
Secondo un malinteso piuttosto diffuso, la gestione dei siti si occupa soltanto della presenza di visitatori nei siti stessi. Ciò costituisce indubbiamente un punto cruciale di ogni pianificazione manageriale; ma gestire bene un sito archeologico implica anche altre attività: inventario, scavi, conservazione, restauro, diffusione delle informazioni, immagazzinamento, esposizione dei reperti nei musei, ecc. Naturalmente è fondamentale che anche il personale e i finanziamenti siano ben gestiti. È dunque necessario pianificare la gestione dei siti nella maniera più completa, se si vogliono evitare le numerose difficoltà che emergono quando la responsabilità di gestire un sito o un monumento ricade su diversi enti, quando vengono a mancare informazioni concernenti obiettivi comuni, quando non si è in grado di trovare soluzioni appropriate a condizioni nuove e quando tutte le parti che in un modo o nell'altro hanno a che fare col sito non si consultano. Se non si riesce a pianificare una gestione esauriente in grado di soddisfare tutte le parti interessate del sito, si creeranno contrasti che potrebbero arrivare a causare seri danni. Ad esempio, le autorità potrebbero essere del parere di far consolidare tutti i muri rinvenuti durante le operazioni di scavo, mentre per gli archeologi potrebbe essere opportuno eliminare i muri per esaminare i livelli più antichi. Oppure il locale ente per il turismo potrebbe voler apportare migliorie alla strada di accesso ad un sito ancor prima che esistano le attrezzature per accogliere un maggior numero di visitatori. Per prevedere e prevenire il sorgere di tali conflitti occorre quindi una pianificazione complessiva. I fattori che determinano il deterioramento delle condizioni di un sito possono renderne meno piacevole la visita ai turisti. Com'è noto, il comportamento dei visitatori è migliore se vedono un sito ben curato e se hanno a disposizione informazioni adeguate. Perciò la politica di accoglienza dei visitatori deve essere perfettamente coordinata con le altre attività di gestione, come gli scavi e la conservazione.
Per evitare simili contrasti, spesso si è cercato di rispondere promulgando leggi severe che indicano chiaramente le persone responsabili di siti e monumenti e conferiscono loro poteri legalmente riconosciuti per amministrarli. Tuttavia, se le leggi costituiscono la base su cui poggia l'amministrazione dei siti d'importanza storica, esse sono raramente sufficienti a garantirne una buona gestione. Sono infatti molte e diverse le parti interessate ad un sito o ad un monumento: autorità istituzionali, studiosi, proprietari dei terreni, ma anche soprintendenti, ambientalisti, imprenditori, operatori turistici e residenti del luogo. Poiché il piano di gestione di un sito archeologico renderà corresponsabili tutte queste parti in maniera positiva o negativa, sorgerà la necessità di una pianificazione manageriale che riscuota il più ampio consenso. Se ognuna delle parti interessate fornirà le proprie considerazioni e le troverà poi inserite nella pianificazione, comprenderà che essa le "appartiene". Per rendere espliciti gli elementi che le diverse parti in causa hanno in comune, un provvedimento fondamentale consiste nel definire il significato culturale del sito o del monumento. Nella Fig. 534 è rappresentato uno schema attinto dalla Australia ICOMOS Charter for the Conservation of Places of Cultural Significance (1981, nota come Burra Charter). Più tardi J.S. Kerr ha incluso i principi di tale modello in The Conservation Plan: a Guide to the Preparation of Conservation Plans for Places of European Cultural Significance. I principi della Burra Charter sono ampiamente usati in Australia nella compilazione della pianificazione manageriale dei siti d'importanza storica e la loro efficacia ha fatto sì che venissero adottati per la gestione dei siti storici anche in altre parti del mondo.
Gli elementi che determinano l'importanza di un sito appaiono spesso così ovvi, a chi è responsabile della gestione del sito stesso, che la loro rilevanza è data per scontata. Ma i contributi offerti da altre parti in causa (ad es., i residenti del luogo, gli ambientalisti e i proprietari dei terreni) possono mettere in luce determinati elementi, diversi da quelli storici, che contribuiscono all'importanza di un determinato sito. In genere, i valori attribuiti ai siti possono essere classificati nel modo seguente: 1) valori storici, determinati dall'importanza di un sito o di un monumento quale testimonianza di realtà culturali del passato; 2) valori estetici, determinati dalla bellezza naturale del sito o dalla sistemazione dei suoi elementi decorativi; 3) valori scientifici, determinati dall'importanza del sito per la ricerca, specialmente dalle sue potenzialità per studi futuri; 4) valori d'identità, determinati dall'importanza del sito quale simbolo nazionale, o dalla sua associazione con una determinata persona, con un avvenimento, con una ricorrenza di particolare interesse. Naturalmente i valori di un sito possono essere anche di natura educativa ed economica, ma questi possono essere considerati secondari, dato che sono determinati dal riconoscimento di alcuni dei valori primari sopraelencati. La coesistenza in alcuni siti di valori culturali e di valori naturalistici è stata riconosciuta dalla World Heritage List dell'UNESCO, con l'istituzione della categoria dei "siti misti". Inoltre, la difficoltà incontrata nell'identificare i siti "naturalistici" ha determinato un cambiamento di giudizio da parte della WCN (World Conservation Union), l'ente preposto alla valutazione degli inserimenti nella World Heritage List. L'UNESCO ha fornito una nuova definizione per stabilire le caratteristiche di un "sito naturalistico": è stato infatti riconosciuto che "nessuna area è completamente vergine e che tutte le aree naturalistiche si trovano in uno stato di continua trasformazione. Spesso nelle aree naturalistiche vengono svolte attività umane che, quando siano compatibili, si accompagnano bene ai valori naturalistici dell'area". Identificare l'importanza culturale (ivi inclusi i valori naturalistici) di un sito è necessario per stabilire un parametro di riferimento allo scopo di valutare ogni intervento proposto. È inoltre essenziale individuare l'importanza culturale di un sito indipendentemente da ogni considerazione sulla gestione (ad es., l'accessibilità, i fondi disponibili, ecc.); infatti, a causa di un'erronea gestione si potrebbe correre il rischio di non riconoscere alcuni importanti valori del sito.
Le condizioni in cui si trova un sito influiscono certamente sulla politica di gestione: ad esempio, il modo in cui sono gestite le pitture paleolitiche di Lascaux e di Altamira è condizionato dai danni che il turismo di massa potrebbe causare. Anche il sistema amministrativo (preparazione e qualità del personale, fondi, legislazione e politica di pianificazione urbana e regionale) potrebbe rendere impossibile una completa valorizzazione: se il sito non è protetto da norme idonee, ad esempio, o se il bilancio non consente di assumere un numero sufficiente di sorveglianti, risulterà inadeguata anche la politica di accoglienza dei visitatori. È quindi assai importante saper riconoscere vantaggi e vincoli che la situazione di ogni sito presenta e redigere il piano di gestione in modo che sia possibile sfruttarne i vantaggi e superarne gli svantaggi.
La gestione nel suo complesso dovrà conservare e valorizzare nel miglior modo possibile gli elementi che determinano l'importanza culturale di un sito, tenendo conto delle condizioni in cui il sito si trova e del suo sistema amministrativo. Stabilita la politica generale, si definiranno le strategie specifiche per la sua attuazione. Si avranno pertanto diverse strategie per la ricerca scientifica, incluse le attività di scavo, per la conservazione, per gestire la presenza dei visitatori, per lo sviluppo dei servizi e delle infrastrutture, per la formazione professionale del personale, per l'esposizione dei reperti nei musei, ecc., tutte reciprocamente compatibili e non in contrasto con i valori fondamentali del sito. Occorre a questo punto sottolineare quanto appaia diverso il ruolo della ricerca archeologica quando la si osservi tenendo in considerazione la politica di gestione di un sito. La maggior parte dei modelli tradizionali considera la ricerca archeologica e le attività di scavo come il primo passo verso la riscoperta di un sito. Terminate le operazioni di scavo, si svilupperà un piano di intervento per la conservazione dei reperti portati alla luce e forse anche per aprire il sito al pubblico. In altre parole, la conservazione e la presentazione del sito al pubblico dovranno tenere conto delle nuove condizioni determinate dagli scavi. Così, quando si metterà a punto l'impostazione della gestione di un sito, si dovranno considerare le attività di scavo come una delle strategie costituenti il contesto generale: talvolta sarà opportuno interrompere periodicamente gli scavi, talaltra sarà invece meglio ricoprirli.
Durante l'attuazione delle varie strategie si dovrebbero tenere sopralluoghi con la partecipazione di tutte le parti in causa, ad esempio all'inizio del processo di pianificazione. È necessario prevedere, d'accordo con i soggetti interessati, meccanismi per l'adattamento o, se necessario, la revisione del piano. Poiché gli stessi valori del sito sono soggetti a cambiamento, è opportuno che la pianificazione sia flessibile e modificabile facilmente: è improbabile che, nel caso di siti importanti, essa rimanga pienamente valida per più di cinque anni. Il modello dello schema precedente è dunque ciclico, o reiterabile, piuttosto che unilineare, e deve essere applicato continuamente per accertarsi che si stia procedendo in modo da assicurare la salvaguardia dei valori del sito. Inoltre, rilievi effettuati quotidianamente costituiranno un valido strumento di controllo delle condizioni del sito stesso, se i dati verranno raccolti in modo sistematico. Le osservazioni sui cambiamenti delle condizioni di un sito o sul comportamento dei visitatori costituiranno uno strumento inestimabile per la conservazione. La questione del controllo ha suscitato un interesse sempre maggiore negli ultimi anni, dando luogo a numerosi dibattiti sull'efficacia delle misure adottate nei siti registrati nella World Heritage List. Si concorda però sull'opportunità che il controllo sia regolare anziché suggerito da singole situazioni di emergenza.
I principi fondamentali di un'efficace politica amministrativa sono stati riassunti da M. Pearson e S. Sullivan (1995). Tale politica deve: 1) soddisfare le esigenze volte a sottolineare l'importanza culturale del sito; 2) risultare accettabile alle autorità che si sono assunte la responsabilità del sito; 3) tutelare gli interessi della comunità locale e dei soggetti particolari; 4) essere finanziariamente realizzabile ed economicamente attuabile; 5) essere tecnicamente fattibile e adeguata; 6) fornire una struttura amministrativa a lunga scadenza; 7) essere sufficientemente flessibile da permettere eventuali revisioni e migliorie.
Il modo in cui un sito viene aperto al pubblico rientra nell'ambito delle strategie riguardanti la presenza di visitatori e la divulgazione di informazioni. Le metodologie per comunicare l'importanza culturale di un sito ai visitatori hanno avuto una rapida evoluzione negli ultimi anni. Molte di esse derivano da soluzioni adottate nei musei innovativi, che a loro volta hanno fatto ricorso a tecniche proprie della teoria delle comunicazioni e dei media. Se il pubblico viene incoraggiato a visitare un sito archeologico, ai visitatori deve essere data la possibilità di fare una visita gradevole, istruttiva e priva di pericoli. Ciò può avvenire attraverso una combinazione di guide ben preparate che accompagnano i visitatori e di sorveglianti ben addestrati che fanno rispettare i regolamenti. Questa, però, è una soluzione costosa in termini di personale e di addestramento e talvolta può non essere attuabile. Le soluzioni più economiche si servono dell'efficace ausilio dell'informazione scritta e grafica: i modi in cui vengono diffuse le informazioni possono essere concepiti in maniera tale che il comportamento dei visitatori venga influenzato in maniera positiva nel rispetto del sito e che essi trovino la visita istruttiva, senza riportare impressioni negative. Studi come quelli eseguiti da J.M. Jacobs e F. Gale (1995) su turisti in visita ad alcuni siti di arte rupestre dell'Australia confermano la validità di tali ricerche.
G. Binks - J. Dyke - P. Dagnall, Visitors Welcome. A Manual on the Presentation and Interpretation of Archaeological Excavation, London 1988; B. Amendola (ed.), I siti archeologici: un problema di musealizzazione all'aperto, Roma 1995; A.Q. Berry - I.W. Brown (edd.), Managing Ancient Monuments: an Integrated Approach, Mold 1995; J.M. Jacobs - F. Gale, Tourism and the Protection of Aboriginal Cultural Sites, Canberra 1995; M. Pearson - S. Sullivan, Looking after Heritage Places. The Basics of Heritage Planning for Managers, Landowners and Administrators, Melbourne 1995; J. Kerr, The Conservation Plan: a Guide to the Preparation of Conservation Plans for Places of European Cultural Significance, Canberra 1996⁴; M. de la Torre (ed.), The Conservation of Archaeological Sites in the Mediterranean Region, Los Angeles 1997; J.H. Jameson (ed.), Presenting Archaeology to the Public. Digging for Truths, London 1997.