responsabilita
Dal lat. responsum «risposta». Capacità di rispondere dei propri comportamenti, rendendone ragione e accettandone le conseguenze. Entrato nell’uso politico e giuridico sul finire del Settecento, il concetto di r. è stato usato, in ambito filosofico, soprattutto nelle dispute intorno al problema della libertà. Di particolare importanza, nel Novecento, è la distinzione, introdotta da Weber, tra etica delle intenzioni ed etica della r., nonché la riflessione sul ‘principio r.’ svolta da Jonas.
Uno dei primi testi in cui il termine compare è il Federalist (1788; trad. it. Il federalista), ossia l’opera in cui Hamilton, Jay e Madison raccolsero gli articoli scritti in difesa della costituzione americana, elaborata nel 1787 dalla Convenzione di Filadelfia. Gli autori del Federalist usano le espressioni r. del governo e di governo responsabile per indicare il fatto che il governo americano – a differenza dei sistemi assolutistici europei e della stessa monarchia costituzionale inglese – avrebbe dovuto rispondere del proprio operato al popolo, dal quale derivavano i suoi poteri. Nello stesso periodo, il termine comincia a essere usato anche in ambito giuridico: la r. indica, in questo caso, la situazione per cui un soggetto è chiamato a rispondere della violazione di una determinata norma. L’uso giuridico del termine si diffonde rapidamente e a seconda del tipo di norma violata si vengono definendo, col tempo, i concetti di r. civile (che implica il risarcimento del danno), r. penale (che determina l’applicazione di una pena) e r. amministrativa (che riguarda le lesioni di diritti soggettivi provocate dalla pubblica amministrazione o dai suoi dipendenti). Dal punto di vista filosofico, la nozione di r. è strettamente connessa a quella di libertà. Un uomo può infatti rispondere delle sue azioni soltanto se queste sono il frutto di una libera scelta e non sono determinate da leggi necessarie (siano esse fisiche, psichiche o socio-economiche). Tutte le teorie ispirate al determinismo finiscono inevitabilmente per negare la responsabilità dell’uomo o per depotenziarla (spostandola, per es., dal singolo individuo alla società nel suo complesso).
Riflettendo sui rapporti tra etica e politica, Weber distingue due tipi di etica: l’etica delle intenzioni o dei principi, e l’etica della r. o delle conseguenze. La prima è caratterizzata dal riferimento a un principio ideale, che costituisce l’unico criterio per distinguere il giusto dall’ingiusto. Per intraprendere o giudicare un’azione dobbiamo tenere conto soltanto dell’intenzione che la muove. Se l’intenzione è ‘buona’ – cioè se è ispirata a un principio giusto – l’azione sarà buona: quanto alle sue conseguenze, non dobbiamo preoccuparcene. Secondo l’etica della r., invece, per intraprendere o giudicare un’azione dobbiamo tenere conto delle sue possibili conseguenze. Chi opera in questo modo tiene conto dei difetti presenti nella media degli uomini e delle circostanze nelle quali bisogna agire: egli si sente responsabile delle conseguenze dei suoi atti. L’etica delle intenzioni è tipicamente religiosa e ha trovato la sua formulazione filosofica più rigorosa in Kant; ma essa caratterizza anche i movimenti rivoluzionari, che ispirano la loro azione a ideali ‘assoluti’, senza tenere conto delle conseguenze. Questo atteggiamento è non solo pericoloso – perché può condurre al fanatismo (ogni mezzo diviene infatti lecito, per affermare i propri ideali) – ma spesso anche controproducente: per es., il comportamento violento della sinistra rivoluzionaria del primo Novecento finiva per rafforzare, secondo Weber, i partiti di estrema destra. Decisamente più consona alla vita politica è quindi l’etica della r., che richiede di soppesare con attenzione le conseguenze delle proprie azioni, in un mondo che non è intrinsecamente giusto (nel quale, cioè, dal bene non sempre deriva un bene).
La riflessione di Jonas sulla r. nasce dall’acuta percezione dei nuovi rischi determinati dall’età della tecnica: «la nostra tesi – scrive in Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, 1979 – è che le nuove forme e le nuove dimensioni dell’agire esigono un’etica della previsione e della r. […] altrettanto nuova quanto le eventualità con cui essa ha a che fare». La situazione del mondo odierno è infatti caratterizzata dal massimo di capacità tecnologica e dal minimo di sapere intorno agli scopi: la minaccia non riguarda soltanto il ‘qui e ora’, ma gli effetti a lunga scadenza, non soltanto il prossimo umano, ma l’intera biosfera. È quindi necessario passare da un’etica antropocentrica a un’etica planetaria e da un’etica della prossimità, riguardante i contemporanei o i discendenti immediati, a un’etica dei posteri: di qui la trasformazione dell’imperativo categorico kantiano, che nella formulazione di Jonas diventa «agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra». Ciò implica un ripensamento dei fondamenti metafisici dell’etica, che superi quella «autocastrazione della filosofia» consistente nel limitarsi ad affrontare soltanto i problemi suscettibili di una risposta empiricamente verificabile. L’argomentazione di Jonas si basa sul riconoscimento della struttura teleologica dell’essere e sull’assioma ontologico della superiorità dello scopo sull’assenza di scopo: la manifestazione di questa disponibilità umana a favorire, mediante il proprio agire, il diritto alla vita è il senso di r., che trova il suo archetipo nella r. dei genitori nei confronti di un figlio. Il solo respiro di ogni neonato, scrive Jonas, rivolge inconfutabilmente un ‘devi’ all’ambiente circostante affinché si prenda cura di lui: è questo il paradigma ontico di ogni cura, che trova nella r. dell’uomo di Stato la sua generalizzazione più significativa.