Responsabilità sanitaria e processo
La riforma della responsabilità sanitaria contiene numerose disposizioni processuali, in quella visione pragmatica e rimediale che domina il nostro tempo, malamente espressa attraverso “canovacci” di massima. La confusione dei testi e la vaghezza di molti enunciati lasciano campo aperto al giudice e soprattutto al consulente tecnico d’ufficio, la cui figura si staglia come centrale nella prassi e nelle norme di legge sin dalla consulenza tecnica preventiva (c.t.p.), imposta quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
1.6 La rivalsa della struttura 1.7 Prove documentali extra iudicium 2. La focalizzazione 2.1 Competenza per valore
2.2 Competenza per territorio e foro del consumatore 2.3 La c.t.p. quale condizione di procedibilità 2.4 Deposito del ricorso per c.t.p. 2.5 Nomina del c.t.u. 2.6 Partecipazione obbligatoria e formulazione dell’offerta 2.7 Termine semestrale e costi 2.8 Conciliazione in sede di c.t.p. 2.9 Efficacia probatoria della relazione di c.t.p. 2.10 Scadenza del termine semestrale 2.11 La mediazione obbligatoria 2.12 Consecutio tra c.t.p. e ricorso sommario 2.13 L’azione diretta contro l’assicuratore 2.14 Il Fondo di garanzia 3. I profili problematici 3.1 Processo dinanzi al giudice di pace 3.2 Mancato esperimento dell’ADR 3.3 Errore sulla forma dell’atto di impulso 3.4 Inosservanza del termine per il deposito del ricorso sommario
Notevoli sono le novità processuali in materia di responsabilità sanitaria introdotte dalla l. 8.3.2017, n. 24. Molti sono anche, però, i problemi suscitati da disposizioni di pessima fattura. Per razionalizzare e ricomporre il quadro converrà cercare un senso conforme alla ratio perseguita dal conditor: alleggerire la sovraesposizione dei medici rispetto alle azioni risarcitorie dei pazienti, al fine di contrastare la medicina difensiva e, soprattutto, ripristinare l’alleanza terapeutica.
Dopo l’infelice previsione dettata dal decreto Balduzzi (art. 3, co. 1, d.l. 23.6.2012, n. 138), contestualmente abrogata, la nuova legge configura la responsabilità sanitaria secondo un “doppio binario”:
a) la struttura sanitaria, pubblica o privata, risponde a titolo contrattuale, ex artt. 1218 e 1228 c.c., delle condotte dolose o colpose degli ausiliari, anche se scelti dal paziente e non dipendenti dalla struttura ed anche se svolgano l’attività in regime di libera professione intramuraria ovvero di convenzione con il servizio sanitario nazionale;
b) l’esercente la professione sanitaria (d’ora innanzi anche, e per antonomasia, il medico) risponde per atto illecito, ai sensi dell’art. 2043 c.c., salvo che abbia agito nell’adempimento di un’obbligazione contrattuale assunta direttamente con il paziente, in forza di un contratto di prestazione d’opera intellettuale (da concludere non necessariamente in forma scritta ed anzi, nella prassi, usualmente concluso per facta concludentia).
La diversità dei titoli – che varrà non soltanto per i danni cagionati da malpractice medica, ma anche per mancata acquisizione del consenso informato – dà luogo a un eventuale concorso di azioni che, pur dirette a conseguire la stessa (o quasi la stessa) utilità pratica, il soggetto danneggiato può esercitare in unico processo, domandando la condanna in solido della struttura sanitaria e del medico a risarcire i danni (quest’ultimo, però, con i limiti di cui brevemente diremo). Anche l’azione diretta contro gli assicuratori per la responsabilità civile della struttura e del medico potrà essere cumulata in unico processo, insieme alle suddette azioni verso la struttura sanitaria e verso il medico. Come tipicamente avviene nel concorso di azioni e nelle obbligazioni solidali, il pagamento della somma dovuta dall’uno o dall’altro dei soggetti responsabili, estingue il diritto con pieno effetto liberatorio anche per l’altro condebitore a diverso titolo, fatti salvi i regressi interni e le rivalse.
La qualificazione impressa dal conditor legis determina le consuete e ben note conseguenze sul riparto dell’onere della prova e sui termini di prescrizione:
a) nell’azione contrattuale contro la struttura sanitaria grava su questa la dimostrazione della non imputabilità dell’eziopatogenesi insorta nel paziente, che può limitarsi ad allegare il peggioramento delle condizioni di salute susseguente all’attività sanitaria, secondo i principii generalmente applicati in materia di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c.; la prescrizione sarà quella ordinaria decennale decorrente, per i danni cd. lungolatenti, dal momento in cui possono essere percepiti e conosciuti nella loro eziologia, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche;
b) nell’azione aquiliana contro il medico, spetterà al danneggiato l’allegazione e la prova della condotta colposa o dolosa, valendosi del consueto beneficio della solidarietà ex art. 2055 c.c. quando a cagionare il danno siano state le concorrenti condotte di plurimi soggetti, anche se a diverso titolo e autonome tra loro; la prescrizione dell’azione extracontrattuale contro il medico è quinquennale ex art. 2947 c.c., ma anche qui, per i danni lungolatenti, il dies a quo coincide con quello di effettiva percepibilità e conoscibilità delle cause dell’eventus damni, in base alla diffusione delle conoscenze medico-scientifiche.
La distinzione tra prestazioni di facile esecuzione (o di routine) e prestazioni implicanti la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà rileverà sempre e solo sul piano dell’elemento soggettivo attinente al profilo dell’imperizia, richiedendosi nel secondo caso il dolo o la colpa grave, alla stregua di quanto prevede l’art. 2236 c.c. e con riguardo ad ambedue le azioni configurate dalla nuova legge: peraltro, incomberà sulla struttura sanitaria e sul medico convenuti in giudizio l’onere di provare la speciale difficoltà dell’intervento, fermi restando l’onere, in capo alla struttura sanitaria, di fornire la prova di non imputabilità dell’evento lesivo ex art. 1218 c.c. e l’onere, in capo al soggetto danneggiato, di dimostrare il dolo o la colpa grave del medico ex art. 2043 c.c. Continuerà, invece, a valere solo per l’azione contrattuale contro la struttura sanitaria, non invece per quella extracontrattuale contro il medico, il principio per cui, in caso di prestazione di routine, spetta alla struttura sanitaria superare la presunzione, provando che le complicanze non sono state determinate dall’attività sanitaria, ma sono derivate da un evento imprevedibile e inevitabile attraverso l’impiego della diligenza professionale di cui all’art. 1176, co. 2, c.c., in base alle conoscenze tecnicoscientifiche del momento. Va pur soggiunto che, al di là del riparto degli oneri probatori, nel momento in cui acquistano centralità, prima ancora di proporre la domanda in sede contenziosa, i dati acquisiti e le valutazioni fornite mediante consulenza tecnica medicolegale, con la partecipazione altresì di un esperto nella disciplina clinico-sanitaria specialistica, ogni questione su nesso causale ed elemento soggettivo è destinata a concentrarsi nell’elaborato peritale, in esito a un vero e proprio procedimento di istruzione, cui è demandato il compito di far luce su tutti i profili rilevanti. Il che spiega la scelta di far precedere l’instaurazione della causa da un vaglio tecnico ad opera di esperti terzi e imparziali che, percipienti e deducenti a un tempo (trattandosi di fatti tecnicamente qualificati, percepibili e valutabili solo da chi possieda conoscenze specialistiche), tentino altresì la conciliazione della lite: esaminate e risolte le questioni cliniche e medicolegali, ben poco spazio di autonoma cognizione residua al giudice. Talché ben può parlarsi, quale ulteriore effetto dell’evoluzione specialistica delle scienze, di avvento del peritus iudex in luogo del iudex peritus peritorum, secondo un modus procedendi già da tempo efficacemente sperimentato nella materia previdenziale e assistenziale, con l’accertamento tecnico imposto dall’art. 445 bis c.p.c. ed ivi destinato a divenire finanche irrevocabile, ove non tempestivamente opposto. Di qui l’estrema importanza della figura del consulente dell’ufficio (c.t.u.), che del peritus iudex deve possedere, osservare e custodire tutte le indispensabili qualità.
La legal (dis)suasion a proporre l’azione contro il medico, per dar preferenza alla sola azione contro la struttura sanitaria e contro la compagnia assicuratrice di questa (salva l’ipotesi, pure contemplata dalla nuova legge, di self insurance dell’ospedale), si coglie altresì nella limitazione equitativa del risarcimento a carico del medico, quando abbia osservato le linee guida (purché adeguate alle specificità del caso concreto) ovvero, in mancanza di linee guida, le buone pratiche clinico-assistenziali.
Quella che, in sede penale, è causa esimente dal reato di lesioni od omicidio colposo – quando l’evento sia stato cagionato da imperizia (e non già da negligenza o imprudenza), come risulta dal nuovo art. 590 sexies c.p. – diviene in sede civile strumento discrezionale per mitigare equitativamente, ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c., il risarcimento a carico del medico, che risulta così diverso non solo nel regime probatorio e prescrizionale applicabile all’an debeatur, ma anche nel quantum, mercé pronuncia determinativa affidata al prudente apprezzamento del giudice.
Si hanno, insomma e sulla carta, due azioni concorrenti, verso la struttura e verso il medico, differenziate sia nei presupposti giuridici sia nella quantificazione del risarcimento, peraltro senza che sia dato comprendere esattamente come e in quale misura possa una causa di non punibilità del reato tradursi in sede civile, per metamorfosi, in una riduzione del risarcimento dei danni provocati dall’atto illecito, anziché nel completo esonero da responsabilità aquiliana del medico.
Va da sé che l’onere di provare il contenuto e l’esatta e scrupolosa osservanza di linee guida o best practices non potrà che incombere sul medico convenuto, che intenda ottenere l’esonero da responsabilità aquiliana per mancanza di colpa o, quantomeno, la riduzione equitativa del risarcimento dovuto: questo sia per il principio di vicinanza alle fonti di prova sia per la natura di fatti impeditivi, in tutto o in parte, del diritto al risarcimento dei danni da atto illecito, che si deve ascrivere all’osservanza delle suddette linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali. La relazione di c.t.p. darà al giudice informazioni e valutazioni specialistiche anche a tale riguardo ed è probabilmente necessario che anche i quesiti da sottoporre al c.t.u. prevedano una verifica delle linee guida o delle buone pratiche clinico-assistenziali esistenti e della loro osservanza nel caso concreto.
Oltre a ciò, preoccupato per il bilancio pubblico e per l’entità dei premi assicurativi, il legislatore ha introdotto altresì un calmiere risarcitorio per ambedue le azioni, contro la struttura e contro il medico, rinviando ai criterii applicabili in materia di danni alla persona da circolazione stradale (artt. 138 e 139 c. assicurazioni), già da tempo in vigore per le cd. micropermanenti e che dovrebbero essere a breve adottati anche per lesioni di non lieve entità, come previsto dal nuovo testo dell’art. 138 c. assicurazioni, introdotto con l. 4.8.2017, n. 124.
Per “sigillare” il sistema il legislatore ha inelegantemente sancito che la disciplina sin qui descritta ha carattere imperativo, da cui né le parti né i giudici possono discostarsi. Gli è che definire imperative norme che fanno largo uso di concetti giuridici vaghi e indeterminati è semplicemente inutile, essendoci sempre un ineliminabile margine di ampia discrezionalità dell’interprete.
Vi è appena lo spazio per ricordare che, sempre al fine di circoscrivere la responsabilità personale del medico, l’azione di rivalsa della struttura sanitaria (o dell’assicuratore in surroga) nei suoi confronti – come l’azione di responsabilità erariale esercitabile dal p.m. presso la Corte dei conti a carico del medico strutturato nel SSN o con questo convenzionato – è possibile soltanto in caso di dolo o colpa grave e può essere esercitata soltanto dopo che sia avvenuto il risarcimento o per effetto di sentenza esecutiva o per accordo transattivo o conciliativo, ovviamente inopponibili al medico che non sia stato parte del giudizio o dell’accordo.
La rivalsa della struttura sanitaria:
va esperita entro il termine di decadenza di un anno dall’avvenuto pagamento, presuppone che siano stati comunicati, entro dieci giorni, l’instaurazione del giudizio promosso dal danneggiato o l’avvio di trattative stragiudiziali con lo stesso, invitando il medico a prendervi parte (onere questo irragionevole ed esposto a censure di legittimità costituzionale), non può superare il triplo del maggiore tra i redditi professionali lordi conseguiti nel triennio in cui si colloca la condotta.
Meritano un cenno alcune norme in materia di formazione e acquisizione delle prove, sparse qua e là nella nuova legge.
Anzitutto, la direzione sanitaria della struttura pubblica o privata, entro sette giorni dalla presentazione della richiesta, è tenuta a fornire la documentazione sanitaria relativa al paziente. Identico diritto di accesso alla documentazione della struttura sanitaria è riconosciuto all’impresa di assicurazione e all’esercente la professione sanitaria, «in ogni fase di trattazione del sinistro». Vi è dunque l’onere per le parti di richiedere tale documentazione, prima di richiedere al giudice l’emanazione di un ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c.
In caso di morte del paziente, i familiari o gli altri aventi titolo del deceduto possono concordare con il direttore sanitario l’esecuzione dell’autopsia, con la partecipazione di un medico di loro fiducia. Le prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria e dell’impresa di assicurazione, cui abbia partecipato anche il medico, sono degradate ad argomenti di prova nell’azione di rivalsa contro costui, con previsione incongrua, posto che di quel giudizio il medico era stato parte.
Sciogliere gli intricati nodi procedurali generati dalla nuova legge non pare possibile, se non indicando schematicamente quale debba essere la “fisiologica” via tracciata nell’intentio conditoris e quali possano esserne le “patologiche” deviazioni.
I criterii di competenza vanno osservati non soltanto per l’azione di responsabilità, ma anzitutto per le condizioni di procedibilità della stessa, sia che si opti, come avverrà normalmente, per la c.t.p. ai fini della composizione della lite ex art. 696 bis c.p.c., quanto per la mediazione obbligatoria ex art. 5, co. 1-bis, d.lgs. 4.3.2010, n. 28, che va richiesta a un organismo nel luogo del giudice territorialmente competente. La competenza per valore si determina in base ai criterii di cui all’art. 7, co. 1, c.p.c. sulla competenza del giudice di pace (oggi fino a cinquemila euro; dal 31 ottobre 2021 sino a trentamila euro, stante la modifica introdotta dal d.lgs. 13.7.2017, n. 116): perciò, anche in considerazione delle tabelle calmierate per la liquidazione del danno non patrimoniale, al giudice di pace saranno devolute tutte le controversie in materia di responsabilità sanitaria che abbiano cagionato al paziente lesioni di non grave entità e, comunque, tutte le domande di risarcimento dei danni che l’attore quantifichi in una somma inferiore alla suddetta soglia pecuniaria della competenza per valore del giudice di pace. Quando invece tale soglia sia superata o l’attore, come avverrà nella gran parte dei casi, non quantifichi il credito di valore azionato, chiedendo il risarcimento di tutti i danni patiti, la competenza apparterrà al tribunale.
Per la competenza territoriale occorre distinguere a seconda che il paziente abbia fruito del SSN (indifferentemente presso una struttura pubblica o una struttura privata convenzionata) o abbia chiesto le prestazioni iure privatorum, anche mediante copertura assicurativa privata delle spese di cura e di ricovero, con pagamento diretto delle stesse da parte della compagnia assicuratrice.
Infatti, quando ci si trovi al cospetto di un rapporto libero-professionale, con pagamento delle prestazioni a carico del paziente o della sua assicurazione per spese sanitarie, ed anche quando una porzione di tali spese resti a carico del SSN, si applica il foro del consumatore di cui all’art. 33, lett. u), c. cons., a meno che non sia lo stesso soggetto danneggiato ad adire un diverso ufficio giudiziario tra quelli competenti per territorio ai sensi degli artt. 18, 19 e 20 c.p.c., così rinunciando alla protezione offertagli dal foro del consumatore. Il foro del consumatore non è, invece, applicabile ai rapporti giuridici intercorsi tra pazienti e strutture ospedaliere pubbliche o private operanti in regime di convenzione con il SSN, posto che il soggetto assistito può rivolgersi a qualsiasi azienda sanitaria presente sul territorio nazionale: sicché, se il rapporto si è svolto al di fuori del luogo di domicilio del paziente, ciò è stato frutto di una sua libera scelta, che fa venir meno la ratio di protezione insita nell’art. 33, lett. u), c. cons.
Quando non s’applichi il foro del consumatore, si dovrà far riferimento ai criterii generali sul foro del convenuto (artt. 18 e 19 c.p.c.) ovvero a quelli di cui all’art. 20 sul foro delle obbligazioni, con l’avvertenza che forum contractus (per l’azione contro la struttura ex contractu, recte ex lege quando il regime del sottostante rapporto sia quello del SSN) e forum commissi delicti (per l’azione extracontrattuale contro il medico) finiscono per coincidere con il luogo in cui si è svolta l’attività sanitaria, che usualmente è quello di genesi per facta concludentia del rapporto giuridico sostanziale. Il forum destinatae solutionis di cui alla seconda parte dell’art. 20 c.p.c., trattandosi di obbligazione risarcitoria per sua natura illiquida, coinciderà inevitabilmente con il foro del convenuto di cui agli artt. 18 e 19 c.p.c.
Allorché il danneggiato si avvalga della facoltà di cumulare le azioni contro la struttura sanitaria, il medico e le eventuali compagnie assicuratrici, ove si applichi il foro esclusivo del consumatore, questo attrarrà tutte le domande; quando invece non si applichi il foro di protezione, per la natura “pubblicistica” del rapporto o per scelta del consumatore che non intenda giovarsene, si potrà applicare l’art. 33 c.p.c. sul litisconsorzio passivo, convenendo tutte le parti dinanzi al foro di residenza, domicilio o sede di uno dei convenuti, ivi inclusa la compagnia assicuratrice, in base ai criterii generali di cui agli artt. 18 e 19 c.p.c., con il consueto divieto di proposizione di una domanda che risulti ictu oculi artificiosa e preordinata al fine esclusivo di radicare la competenza dinanzi al foro di un convenuto fittizio, all’esclusivo fine di sottrarre gli altri convenuti al giudice naturale precostituito per legge.
Avendo configurato la consulenza tecnica preventiva (c.t.p.) ex art. 696 bis c.p.c. quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale in materia di responsabilità sanitaria, i passaggi procedurali ‘‘fisiologici’’ dovrebbero essere quelli di seguito descritti.
Il soggetto danneggiato, che intenda agire contro la struttura sanitaria (a titolo contrattuale) e/o contro i medici coinvolti (a titolo extracontrattuale e con i limiti su indicati) e/o contro le eventuali compagnie assicuratrici (con l’azione diretta di cui diremo infra), prima di proporre la domanda in sede contenziosa e quale condizione di procedibilità di questa, ha l’onere di depositare ricorso per c.t.p. ex art. 696 bis c.p.c. dinanzi al giudice competente per valore e per territorio, determinato in base ai criterii di competenza in senso verticale e orizzontale illustrati in precedenza.
Depositato il ricorso, il giudice nominerà c.t.u. normalmente due medici, uno specializzato in medicina legale e uno o più specialisti nella disciplina medico-sanitaria che viene in rilievo nel caso di specie, scelti in modo da evitare conflitti di interesse, muniti di adeguate e comprovate competenze nell’ambito della conciliazione, acquisite mediante specifici percorsi formativi, e iscritti agli albi del tribunale, in cui debbono essere indicate e documentate le specializzazioni e l’esperienza professionale maturata, con particolare riferimento al numero e alla tipologia degli incarichi conferiti e di quelli revocati. Talora ed eccezionalmente, per evitare conflitti di interesse e garantire la terzietà e l’imparzialità del c.t.u., potrà essere necessario attingere agli albi di altri tribunali o nominare esperti anche non iscritti, sentendo il presidente del tribunale o della sezione e indicando nel provvedimento di nomina i motivi della scelta (art. 22, co. 2, disp. att. c.p.c.).
È appena il caso di notare che la formazione del c.t.u. in ambito conciliativo è previsione assai blanda, se paragonata ai corsi di abilitazione e aggiornamento obbligatoriamente imposti al mediatore dal d.lgs. n. 28/2010 e dal relativo regolamento di attuazione. Per altro verso, il mediatore non possiede normalmente le competenze tecniche del c.t.u. e dovrà ex necesse valersi di un esperto o di un comediatore specializzato.
La partecipazione al procedimento di c.t.p. è obbligatoria per tutte le parti, compresi gli assicuratori, sui quali grava altresì l’obbligo di formulare l’offerta di risarcimento del danno ovvero di comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla.Nulla quaestio se l’assicurazione è formalmente parte del procedimento di c.t.p., perché chiamata direttamente dal danneggiato ovvero in garanzia da uno degli assicurati (struttura sanitaria o medico), come pure è sempre possibile, ai sensi della lex generalis di cui all’art. 1917 c.c. Potrebbe tuttavia accadere che l’assicurazione non sia parte processuale o che gestisca la lite con professionisti di sua fiducia che, pur rappresentando formalmente nel procedimento la struttura sanitaria o il medico convenuti, hanno ricevuto l’incarico e sono remunerati dalla compagnia assicuratrice. Anche nelle ipotesi in cui la compagnia non sia formalmente parte del procedimento, considerata la ratio legis intesa a favorire al massimo grado la conciliazione della lite e in analogia con quanto avviene nel campo dei sinistri da circolazione stradale (cfr. l’art. 148 c. assicurazioni), riterremmo comunque obbligatoria la formulazione dell’offerta o la comunicazione delle ragioni di reiezione della pretesa risarcitoria, dandone atto nel procedimento. Alla stessa conclusione si giunge, per eadem ratio, nelle non infrequenti ipotesi di “autoassicurazione” della struttura sanitaria, espressamente contemplate dalla nuova legge: sarà la struttura in tal caso a dover formulare l’offerta o a spiegare le ragioni della mancata formulazione.
La violazione di quest’obbligo da parte della compagnia assicuratrice è sanzionato mediante segnalazione all’IVASS, quale organismo di vigilanza sulle assicurazioni private, perché attivi i poteri ispettivi e sanzionatori di sua competenza. La mancata partecipazione alla c.t.p. è, troppo severamente, sanzionata con le spese di consulenza tecnica e di lite, indipendentemente dalla soccombenza, e con una pena pecuniaria, determinata equitativamente dal giudice, senza neppure un prefissato massimo edittale, in favore della parte comparsa per la conciliazione. Sanzioni queste irragionevoli e palesemente incostituzionali, sia per violazione del fondamentale principio victus victori collegato alla soccombenza in giudizio e parte integrante della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24, co. 1, Cost., sia per disparità di trattamento rispetto alla disciplina sulla mediazione obbligatoria, che può essere esperita in alternativa alla c.t.p. e la cui diserzione è assai più blandamente sanzionata con l’anodino strumento degli argomenti di prova ex art. 116, co. 2, c.p.c. utilizzabili dal giudice e con il pagamento all’erario di un importo pari al contributo unificato.
Vi è spazio semmai per la condanna della parte, che abbia rifiutato senza giustificato motivo la proposta conciliativa formulata dall’assicurazione o dalla struttura o dal c.t.u. (quando una delle parti dichiari di prestarvi adesione), al pagamento delle spese del processo, allorché la domanda sia accolta in misura non superiore all’entità della proposta, secondo quanto prevedono l’art. 91, co. 1, seconda frase, c.p.c. e l’art. 13 d.lgs. n. 28/2010 quando la proposta sia formulata in sede di mediazione.
Il procedimento di c.t.p. – con annesso tentativo di conciliazione e libera produzione dei documenti rilevanti per l’esame del caso clinico senza le preclusioni istruttorie imposte nel processo di cognizione – deve concludersi entro il termine di sei mesi. Termine – doppio rispetto a quello previsto per la mediazione obbligatoria – che, in uno ai costi non certo lievi della c.t.p. (posti usualmente a carico della parte che vi fa ricorso, non potendosi ancora applicare alcun criterio di soccombenza), fa dubitare della conformità alle regole europee di tale forma di ADR (Alternative Dispute Resolution), come interpretate dalla Corte di giustizia, la quale ha ritenuto compatibili con il diritto di accesso alla giustizia le forme obbligatorie di ADR a condizione, inter alia, che non siano eccessivamente costosi e non comportino un ritardo sostanziale per la proposizione della domanda in sede giurisdizionale.
Se il termine di sei mesi – soggetto a sospensione feriale in agosto, in quanto avente di natura processuale, a differenza del termine di durata della mediazione, che processuale non è – non appare al postutto eccessivo in considerazione degli accertamenti peritali da svolgere nel contraddittorio inter partes, preoccupano i costi che la parte ricorrente dovrà necessariamente anticipare (ancorché calmierati per gli incarichi collegiali, che costituiranno la normalità in subiecta materia).
Vi è tuttavia la possibilità di scegliere, in alternativa alla c.t.p. ante causam, lo strumento della mediazione obbligatoria, che si presenta sulla carta più celere, assai meno costoso e che soprattutto consente di ripartire con le altre parti i costi, anche per gli eventuali periti nominati dal mediatore.
Se la conciliazione riesce durante le operazioni peritali di c.t.p. (eventualmente anche dopo l’invio della bozza di relazione ex art. 195 c.p.c. o dopo il deposito della relazione definitiva, che costituisce per solito robusto “forcipe”: pur tuttavia le parti e specialmente le compagnie assicuratrici prediligono transazioni stragiudiziali in luogo di conciliazioni apud iudicem), si redigerà processo verbale che, omologato dal giudice, è titolo esecutivo e per l’iscrizione di ipoteca
giudiziale relativamente al credito pecuniario concordato tra le parti.
Per le trattative non occorre la presenza personale delle parti: nulla è previsto e tutto può informalmente svolgersi tra c.t.u., consulenti di parte, avvocati, muniti o meno di procura a conciliare e transigere autenticata dagli stessi difensori, ai sensi dell’art. 185 c.p.c. Va da sé che il c.t.u. potrà convocare personalmente le parti, quando reputi utile farle intervenire per spingerle a conciliare la lite mediante le tecniche psicologiche e maieutiche che dovrebbe aver appreso seguendo appositi corsi di formazione per mediatori.
Giuridicamente, però, la presenza personale delle parti o di loro mandatari ad negotia è richiesta solo per la sottoscrizione del verbale di conciliazione.
Se la conciliazione non riesce, il c.t.u., previo inviodella bozza di relazione ai difensori o ai consulenti di parte a norma dell’art. 195 c.p.c., deposita la relazione definitiva, tenendo conto delle osservazioni delle parti o dei loro consulenti.
La relazione, unitamente al fascicolo della c.t.p., sarà acquisita nel successivo giudizio di merito e il giudice potrà utilizzarla alla stregua di una consulenza svolta in corso di causa, con tutti gli inerenti poteri di convocazione del c.t.u. a chiarimenti e di integrazione o di rinnovazione previsti dagli artt. 194 ss. c.p.c.
La consulenza è, in ambito medico-sanitario, percipiente e deducente a un tempo, dacché la cognizione stessa degli elementi fattuali sui quali formulare le valutazioni tecniche è possibile soltanto per il tramite di un esperto, munito di quelle conoscenze specialistiche che esulano dalle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza ex art. 115, co. 2, c.p.c.
Trascorsi i sei mesi (oltre all’eventuale sospensione feriale), che pur vengono definiti come perentori e, dunque, non prorogabili (mentre il termine per il deposito della relazione è usualmente considerato ordinatorio), le parti possono agire in sede contenziosa ed anzi il danneggiato ha l’onere di farlo entro novanta giorni dalla scadenza dei sei mesi dal deposito del ricorso per c.t.p., se vuol conservare gli effetti della domanda giudiziale cui il ricorso per c.t.p. è prodromico e strumentale.
Il decorso del termine non impedisce, tuttavia, la prosecuzione delle attività peritali e conciliative, salvo che le parti non se ne dolgano espressamente con il giudice del procedimento di c.t.p., facendo valere l’estinzione dell’incarico per intervenuta e non prorogabile scadenza del termine perentorio. Quando la relazione del c.t.u. venga depositata oltre il termine, non potranno le parti dolersene nel successivo giudizio di merito nel quale essa venga acquisita, in ossequio al consueto principio di non dispersione della prova. La perentorietà del termine va, insomma, riferita unicamente alla condizione di procedibilità della domanda di merito, che si considera comunque avverata, una volta decorsi sei mesi dal deposito del ricorso per c.t.p., quand’anche le operazioni peritali non siano ancora concluse.
Non par d’uopo, in tal caso, discorrere di estinzione per inattività ex art. 307, co. 2, c.p.c.: l’inosservanza del doppio termine, di sei mesi per il deposito della relazione del c.t.u. e di novanta giorni per la successiva proposizione della domanda (in forme sommarie ex art. 702 bis c.p.c. od anche in altre forme), impedisce soltanto la conservazione degli effetti della domanda, a far tempo dal deposito del ricorso per c.t.p. (o dalla notifica, quando si tratti di effetti sostanziali che presuppongono la recettizietà dell’atto giudiziale).
In alternativa alla c.t.p. le parti possono proporre istanza di mediazione, obbligatoria ex art. 5, co. 1-bis, d.lgs. n. 28/2010, a un organismo scelto osservando i criterii di competenza territoriale. Non si produrranno, però, effetti processuali di alcun genere, che la legge collega soltanto al deposito del ricorso per c.t.p., mentre gli effetti interruttivi-sospensivi della prescrizione si avranno soltanto con la comunicazione alle altre parti di avvio della procedura di mediazione.
Affinché la condizione di procedibilità sia soddisfatta, alla mediazione, come alla c.t.p., debbono essere chiamati a partecipare tutti i soggetti del futuro giudizio di merito. Quando non vi sia rispondenza tra parti del procedimento di mediazione e parti del successivo giudizio, il giudice, su eccezione di parte o anche d’ufficio, farà applicazione dell’art. 5, co. 1-bis, d.lgs. n. 28/2010, differendo la causa a un’udienza successiva di oltre tre mesi e assegnando il termine di quindici giorni per esperire la mediazione nei confronti dei soggetti che non vi siano stati anteriormente chiamati, a pena di improcedibilità della domanda nei confronti di questi litisconsorti in cause scindibili: invero, stante la solidarietà passiva tra coobbligati per il medesimo fatto genetico, ancorché per titoli diversi, il litisconsorzio è facoltativo.
Salvo che il mediatore possieda conoscenze specialistiche nel campo medico-legale e in quello del settore sanitario che viene in rilievo per la soluzione del caso, qualora la mediazione abbia corso e superi il primo incontro informativo, sarà necessario nominare uno o due esperti, indicati dalle parti o dal mediatore e chiamati a svolgere effettualmente le funzioni del c.t.u. La perizia redatta in sede di mediazione non dovrebbe, a rigore, poter essere acquisita nel successivo giudizio in caso di mancata conciliazione, stanti i principii di segretezza e di riservatezza che proteggono gli atti compiuti, le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite durante la procedura di mediazione, a mente degli artt. 9 e 10 d.lgs. n. 28/2010. Tuttavia, la giurisprudenza, in ossequio al principio di non dispersione della prova, consente di acquisire al giudizio la perizia redatta in sede di mediazione, utilizzandola quale prova atipica con efficacia indiziaria: indirizzo questo che non pare in alcun modo condivisibile.
Depositata la relazione di c.t.p. entro il termine di sei mesi dal deposito del ricorso, la parte danneggiata ha novanta giorni di tempo (oltre all’eventuale sospensione feriale in agosto) dalla comunicazione dell’avvenuto deposito (o, in mancanza di questa, della liquidazione del compenso del c.t.u., che presuppone il deposito della relazione in cancelleria) per presentare ricorso sommario di cognizione, ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c.
Altrettanto dovrà fare, quando sia spirato il termine di sei mesi senza che la relazione del c.t.u. sia stata depositata, proponendo domanda mediante ricorso sommario di cognizione entro novanta giorni dalla scadenza dei suddetti sei mesi, ove intenda far salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda, retroattivamente a far tempo dal deposito e dalla notifica del ricorso.
Qualora non rispetti il termine dei novanta giorni, il ricorso per c.t.p. non serberà né l’effetto processuale di prevenzione nella pendenza della lite, né gli altri effetti processuali (ivi incluso, ad es., quello di perpetuatio iurisdictionis et competentiae di cui all’art. 5 c.p.c.), né l’effetto sospensivo del corso della prescrizione, ma la notifica del ricorso varrà comunque quale atto di costituzione in mora dei debitori, idoneo così a interrompere la prescrizione ex art. 2943, ult. co., c.c., anche verso gli eventuali corresponsabili, condebitori solidali, a mente dell’art. 1310 c.c.
Nel percorso procedurale ricostruibile, in filigrana, nel dedalico periodare dell’art. 8 l. n. 24/2017, vi è consecutio tra c.t.p. e procedimento sommario di cognizione ex artt. 702 bis ss. c.p.c.: il deposito del ricorso sommario ricongiunge il processo di cognizione alla procedura ante causam di court annexed ADR, imposta quale condizione di procedibilità della domanda in sede contenziosa.
Ciò significa che il giudice adito rimarrà il medesimo della precedente fase, dinanzi al quale si è ormai radicato il processo e, in grazia degli artt. 39, ult. co., e 5 c.p.c., anche la prevenzione e la competenza, quand’anche difforme rispetto ai criterii applicabili.
È pur vero che la preclusione alle eccezioni di incompetenza territoriale derogabile cadono per i convenuti soltanto dieci giorni prima dell’udienza fissata in calce al ricorso sommario, giusta l’avvertimento ivi contenuto e ai sensi dell’art. 38 c.p.c. Ma vero è anche che una fase processuale si è ormai svolta e conchiusa dinanzi al giudice adito mediante ricorso per c.t.p. e sarebbe contraddittorio riaprire il varco a eccezioni pregiudiziali di rito, non rilevabili ex officio e non sollevate dalle parti nella fase di obbligatoria ADR: diversamente opinando, si consentirebbe alle parti convenute di serbare l’eccezione di incompetenza per il seguito della lite, con evidente abuso del diritto di difesa. Talché la consecutio del procedimento sommario alla c.t.p., entro il termine di novanta giorni dalla chiusura di questa o dalla scadenza del semestre di durata massima, avrà anche l’effetto di sgombrare il campo dalle eccezioni pregiudiziali di rito riservate alle parti e non fatte valere nella prima fase, salvo il caso di contumacia involontaria o di rimessione in termini per causa non imputabile.
In coerenza con la consecutio divisata dal conditor, è appena il caso di evidenziare che, fissata l’udienza, ricorso e decreto andranno notificati alle parti costituite presso i procuratori domiciliatari per il procedimento di c.t.p., in applicazione dell’art. 170, co. 1, c.p.c.
Se la relazione medico-legale e medico-sanitaria specialistica contiene una risposta ai quesiti idonea a risolvere quasi tutte le questioni inerenti alla controversia, sull’an come sul quantum debeatur, il giudizio di cognizione non esige lo svolgimento di alcuna particolare né complessa istruttoria. È scelta questa non nuova nel nostro ordinamento e che già da qualche anno è con successo utilizzata nell’ambito delle controversie di invalidità civile ex art. 445 bis c.p.c., dove la soluzione del quesito tecnico sulle condizioni sanitarie legittimanti l’erogazione assistenziale finisce per assorbire tutt’intera la lite, tanto da divenire definitiva attraverso omologa giudiziale, ove la consulenza preventiva non venga opposto entro breve termine.
Il procedimento sommario di cognizione s’applicherà poi nella sua interezza, restando affidata alla discrezionalità giudiziale la decisione sul se proseguire o meno con tale modulo procedurale: la complessità della controversia deve misurarsi con l’attività cognitiva richiesta al giudice, non già con quella demandabile al c.t.u. e peraltro già svolta in sede di c.t.p. Il legislatore intende alleggerire il giudice e l’apparato giurisdizionale, non gli ausiliari privati, il cui costo è posto in outsourcing integralmente a carico delle parti.
Le strutture sanitarie pubbliche e private hanno l’obbligo di assicurarsi o di adottare analoghe misure per la copertura del rischio derivante dalla responsabilità civile verso terzi per danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso le stesse. La copertura deve riguardare anche la responsabilità civile extracontrattuale degli esercenti le professioni, salvo rivalsa (o surroga dell’assicuratore) nei loro confronti.
Analogo obbligo di copertura assicurativa verso terzi vige per il medico che svolga la propria attività in regime libero professionale.
Gli esercenti la professione sanitaria operanti, a qualunque titolo, nelle strutture sanitarie pubbliche o private dovranno, invece, assicurarsi contro i rischi di rivalsa della struttura privata (o della compagnia assicuratrice in surroga alla stessa) o di responsabilità erariale, quando svolgano l’attività in una struttura pubblica o in regime di convenzione: rivalsa, peraltro, circoscritta all’ipotesi di dolo o colpa grave e limitata anche nel quantum nelle ipotesi di colpa grave.
I requisiti minimi di queste garanzie assicurative obbligatorie verranno determinati con decreto ministeriale, fino all’emanazione del quale, quand’anche struttura e medici risultino assicurati, il danneggiato non avrà azione diretta.
Il modello dell’azione diretta è quello dell’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile da circolazione stradale, oggi disciplinata negli artt. 143 ss. c. assicurazioni (d.lgs. 7.9.2005, n. 209), senza però alcuna necessità di preventivo invio all’assicuratore della richiesta di risarcimento né dell’invito alla negoziazione assistita ex art. 3 d.l. 12.9.2014, n. 132, essendo previsto l’obbligo di esperire la c.t.p. o, in alternativa, la mediazione obbligatoria.
L’azione diretta contro l’assicuratore è esercitabile dal danneggiato facoltativamente ed è limitata ai massimali per i quali è stato stipulato il contratto dalla struttura sanitaria, in linea con i requisiti minimi stabiliti dall’emanando decreto ministeriale. Nulla vieta al danneggiato di non valersi dell’azione diretta, agendo soltanto contro la struttura e/o contro il medico: questi potranno poi chiamare in causa l’assicuratore, in applicazione dell’art. 1917 c.c.
Poiché la copertura riguarda anche il medico che abbia operato all’interno della struttura sanitaria, è in facoltà del danneggiato cumulare in unico processo l’azione contrattuale contro la struttura, quella extracontrattuale contro il medico e quella diretta contro la compagnia assicuratrice dell’uno e dell’altro, salvo l’onere di adempiere alla condizione di procedibilità (c.t.p. o mediazione) nei confronti di tutti.
Al di là della ricostruzione giuridica dell’azione diretta, quale forma di obbligazione solidale mediante accollo imposto ex lege, quando il danneggiato si risolva a esercitarla, l’assicurato (struttura sanitaria e/o medico) è litisconsorte necessario, in ragione dell’inscindibile nesso di pregiudizialità-dipendenza che corre tra fondamento della responsabilità verso il paziente e copertura assicurativa. Un litisconsorzio propter opportunitatem e, a dir così, “unidirezionale”, nel senso che opera soltanto quando il danneggiato si valga dell’azione diretta contro l’assicuratore: quando il danneggiato non convenga in giudizio l’assicurazione, ma solo la struttura sanitaria e/o il medico, non vi sarà alcun litisconsorzio necessario, bensì un litisconsorzio facoltativo, secondo le regole generalmente applicabili alle obbligazioni solidali; quando invece il danneggiato si avvalga dell’azione diretta, al giudizio dovranno necessariamente partecipare gli assicurati, cioè la struttura sanitaria e/o il medico, a seconda che siano state esercitate l’azione contrattuale e/o quella extracontrattuale.
La violazione del litisconsorzio necessario, proprio perché stabilito propter opportunitatem, non determinerà tuttavia l’“inesistenza” del provvedimento decisorio, bensì unicamente la sua nullità, con rimessione della causa in primo grado, ai sensi dell’art. 354 c.p.c.: il passaggio in giudicato della sentenza nei confronti dell’assicuratore comporterà, quindi, sanatoria definitiva del vizio, in grazia del principio di conversione dei vizi di nullità in motivi di impugnazione, di cui all’art. 161, co. 1, c.p.c.
Qualora il danneggiato convenga in giudizio soltanto la struttura sanitaria e/o il medico, questi potranno chiamare in causa la compagnia assicuratrice e dovranno farlo sin dal procedimento di c.t.p., affinché la relazione conclusiva di questa sia ad essa opponibile, chiedendo di essere mallevati e tenuti indenni ed anche di provvedere al pagamento diretto del risarcimento eventualmente dovuto al terzo danneggiato, come previsto dall’art. 1917 c.p.c. In ogni caso il danneggiato, essendo legittimato all’azione diretta, in prima udienza potrà estendere la domanda di condanna all’assicuratore, chiamato in causa dalle parti convenute.
Analogamente a quanto previsto dall’art. 144 c. assicurazioni per l’assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli, l’assicuratore non può opporre al terzo danneggiato se non le limitazioni contrattuali risultanti dalle condizioni che saranno dettate dal decreto ministeriale per le polizze-tipo: altre eccezioni, ove mai siano inserite nei testi contrattuali, daranno luogo soltanto a un diritto di rivalsa per l’intero verso l’assicurato (struttura sanitaria e/o medico), nel rispetto però dei requisiti minimi di polizza che verranno dettati dal suddetto decreto. La rivalsa potrà essere esercitata o separatamente in un nuovo processo, dopo aver erogato il risarcimento, ovvero anche nel medesimo processo promosso dal danneggiato, ovviamente in subordine all’accoglimento della domanda principale del danneggiato; non c’è per la rivalsa dell’assicuratore il divieto di proporla prima di aver risarcito il danno, divieto posto invece per la rivalsa della struttura (o dell’assicurazione che a questa si surroghi ex art. 1916 c.c.) verso il medico.
All’azione diretta del danneggiato contro l’assicuratore si applicano gli stessi termini di prescrizione previsti per le azioni contro la struttura sanitaria e/o contro il medico, con identica decorrenza per i danni lungolatenti.
La rivalsa dell’assicurazione verso gli assicurati per inoperatività della garanzia, in ipotesi estranee alle condizioni contrattuali di cui all’emanando decreto ministeriale, andrà invece soggetta al termine biennale ex art. 2952 c.c., decorrente dal giorno di ciascun pagamento dei risarcimenti ai terzi danneggiati.
Naturalmente e al di là delle rivalse contrattuali o della surroga nella rivalsa della struttura verso il medico, l’assicuratore che risarcisca i terzi danneggiati è surrogato nei loro diritti verso eventuali corresponsabili e verso le loro imprese assicuratrici, a norma dell’art. 1916 c.c. Per le azioni dell’assicuratore verso terzi corresponsabili e/o verso le loro imprese assicuratrici varranno i termini di prescrizione applicabili all’azione del danneggiato, che è stato risarcito e al quale l’assicuratore si surroghi: peraltro, essendoci solidarietà tra corresponsabili ex art. 2055 c.c. verso il terzo danneggiato, quale che sia il titolo della loro corresponsabilità, gli atti interruttivi della prescrizione compiuti nei confronti anche di uno solo dei condebitori solidali estenderanno i loro effetti anche agli altri, a norma dell’art. 1310, co. 1, c.c.
La nuova legge istituisce, in base a emanando d.m., un Fondo di garanzia, alimentato da una quota dei premi assicurativi e gestito dalla CONSAP a somiglianza del Fondo di garanzia per le vittime della strada, concorre al risarcimento dei danneggiati, nei limiti delle effettive disponibilità finanziarie, nei seguenti tre casi tassativi:
a) se il danno ecceda l’importo dei massimali previsti nella polizza;
b) se l’impresa assicuratrice si trovi in stato di insolvenza o di liquidazione coatta amministrativa;
c) se la struttura sanitaria o il medico siano sprovvisti di copertura assicurativa per recesso unilaterale della compagnia o per sopravvenuta inesistenza o cancellazione dall’albo dell’impresa assicuratrice.
Vi possono essere alcune deviazioni “patologiche” dal percorso procedurale “fisiologico” sopra ricostruito.
Anzitutto, il legislatore pare essersi dimenticato della possibilità che alcune controversie in materia di responsabilità sanitaria siano devolute alla competenza del giudice di pace.
Il rito sommario di cognizione non è applicabile dinanzi al giudice di pace, che segue già un modulo procedurale semplificato (artt. 316 ss. c.p.c.). Perciò, la consecutio tra c.t.p. e giudizio di cognizione in sede contenziosa e l’osservanza del termine di novanta giorni dalla chiusura del procedimento ADR si avranno dinanzi al giudice di pace con l’avvio della notificazione dell’atto di citazione, redatto alla stregua di quanto prevede l’art. 316 c.p.c.
Quando la domanda giudiziale sia stata proposta senza farla precedere dalla c.t.p. o dalla mediazione obbligatoria, il giudice adito dovrà disporre – su eccezione del convenuto o a seguito di rilievo ex officio non oltre la prima udienza – che si dia corso alla c.t.p. (non già alla mediazione), presentando dinanzi a sé, entro quindici giorni, istanza per lo svolgimento o per il completamento del procedimento che fosse già in corso. Codesta, insolita per non dire atipica, istanza ben può essere presentata a verbale nel corso della stessa prima udienza, nella quale venga rilevato il difetto della condizione di procedibilità.
Manca qui, a differenza della mediazione obbligatoria, la fissazione di un’udienza successiva alla scadenza del termine per l’espletamento o il completamento della consulenza preventiva: la prosecuzione del processo e, dinanzi al tribunale, la eventuale conversione ex lege del rito da ordinario a sommario, quando la causa sia stata intrapresa con il rito ordinario, esige un ulteriore atto di impulso, consistente nel deposito del ricorso sommario ex art. 702 bis c.p.c. entro novanta giorni dalla chiusura del procedimento di c.t.p. (qui in realtà incidentale, e non già ante causam) o dall’intervenuto decorso del termine di sei mesi, in mancanza del quale il processo di cognizione verrà ad estinguersi.
Qualora dinanzi al tribunale, per errore, si adotti la forma dell’atto di citazione notificato alle controparti nel domicilio eletto, sarà il deposito dell’atto a far salvo il termine di novanta giorni e, così, a impedire l’estinzione del processo per inattività: il giudice disporrà poi la conversione del rito in quello sommario, posto che la prosecuzione del processo è qui avvenuta violando la prescrizione sul rito, salvo poi ritornare al rito ordinario, qualora ritenga che la causa necessiti di un’istruzione non sommaria.
In caso di inosservanza del termine di novanta giorni, il processo si estingue e tale va dichiarato, su richiesta della parte interessata (mancando qui la fissazione di un’udienza successiva alla scadenza del termine di sei mesi per l’esperimento dell’ADR pendente iudicio).
Nondimeno, la c.t.p. che fosse stata espletata serberà intatta la propria efficacia nel giudizio riproposto ex novo, anche quando venga instaurato a distanza di anni.