REQUESTA, Giovanni Antonio, detto Corona
REQUESTA, Giovanni Antonio, detto Corona. – Da una procura del 1501, nella quale viene citato come «Iohannes Antonius Flumexello quondam Iacobi pictor», sappiamo che Giovanni Antonio doveva essere nato entro il 1481 (Grazzini Cocco, 1927, p. 92). Il padre Giacomo, citato in altri documenti con il cognome di Rustega, originario di Fiumicello, al tempo podesteria di Camposampiero, era già morto nel 1489, come si evince dalla menzione della madre, Camilla da Cuora, ricordata quell’anno come «relicta q[uondam] Iacobi» abitante in via S. Lucia (pp. 92 s.).
Giovanni Antonio Requesta deve il proprio soprannome, Corona, al nonno materno Giovanni da Cuora, che nel 1460 aveva fondato o preso in gestione un «hospitum ad insignam Coronae» in contrada della Borsa o di S. Andrea a Padova (p. 93). Fino alla pubblicazione del pionieristico studio di Ester Grazzini Cocco nel 1927, l’unica traccia del pittore era affidata a una memoria di Marcantonio Michiel, che descriveva nella chiesa di S. Benedetto a Padova la perduta «paletta in tela a mezzo la chiesa appoggiata all’arco a man destra andando contro el coro, che contiene la Natività fu de mano de […] Corona padoano, ed è tratta da una tela ponentina, ovvero è fatta a imitazione dei ponentini» ([Michiel], 1800, 1884, p. 66).
Il Corona è documentato a Padova nel 1504, e nel 1506 come abitante nella contrada di S. Andrea. La sua prima commissione risale all’8 marzo 1509, allorché Marc’Antonio Corradini, notaio e guardiano, e Antonio Cavallino, gastaldo della confraternita di S. Antonio e confessore presso la basilica del Santo, gli conferirono l’incarico di affrescare entro la fine di aprile «unum quadrum in muro prope palam altaris a latere sinistro scholae et fraternitatis predictae» per la cifra di otto ducati (Grazzini Cocco, 1927, pp. 93, 110 s.). Nel contratto si indicava con grande precisione che il soggetto da dipingere doveva essere S. Antonio porta la pace a Padova, rappresentato dal pittore con la dispersione della tempesta sullo sfondo e con notabili e donne allattanti in primo piano. Portata a termine questa commissione, il 22 marzo 1510 il Corona venne nuovamente incaricato dalla confraternita di dipingere «uno quadro sopra lo banco dei sindici», sempre con l’impegno di terminare il lavoro l’aprile di quello stesso anno (pp. 94, 111 s.). In questo caso non venne specificato il soggetto, ma Grazzini Cocco, su base stilistica, individuò correttamente l’affresco nell’episodio di S. Antonio ammonisce Ezzelino (pp. 93-96, 111 s.). Come ormai consuetudine, il 3 marzo dell’anno seguente il Corona venne ingaggiato per dipingere un terzo ‘quadro’, di cui nel contratto non vennero specificati né soggetto né luogo.
Grazzini Cocco (1927, pp. 96, 112) aveva ipotizzato che questo dipinto – non sappiamo se ad affresco o su altro supporto – non fosse mai stato realizzato per l’esiguità dei pagamenti corrisposti al pittore, a fronte degli 8 ducati pattuiti anche in questa circostanza. Va ricordato però che Pietro Selvatico (1869, p. 32) aveva attirato l’attenzione sull’uniformità stilistica dei due affreschi già citati, al tempo anonimi, con la tela raffigurante S. Antonio resuscita il Bambino morto. Dando credito all’intuizione di Selvatico, Lucio Grossato (1966, p. 55) attribuiva il terzo dipinto al Corona, mentre Charles Hope (1997, pp. 82, 86) lo ha giustamente ritenuto copia da un originale perduto dello stesso Corona.
Qualche tempo dopo, la confraternita di S. Antonio commissionò al pittore un altro lavoro. Il 9 dicembre 1516 il guardiano Zorzi del Moniaso incaricò il Corona, allora residente nella contrada di S. Lucia, di dipingere un gonfalone lungo tre braccia e mezzo e largo due e un terzo «secondo el modelo e desegno àno mostrato a mi Zorzi dito», per la cifra di 20 ducati (Grazzini Cocco, 1927, pp. 98, 114 s.). Con l’occasione si approvò tale disegno, richiedendo però al pittore di modificare il progetto nella parte inferiore come segue: «in mezo una Pietà, da le bande un S. Bernardin, S. Bonaventura, S. Ludovico de Franza, S. Prosdozimo, Santa Iustina e S. Daniel» (pp. 98, 114 s.). Veniva invece approvata la parte superiore, che presentava «la Madonna e gli agnoleti» entro un campo «de bono azuro oltramarin ciaro», e più in generale si elogiava Giovanni Antonio per i «più beli et più sufizienti disegni de ogni altro maestro del depenzer abiamo visto» (Grazzini Cocco, 1927, pp. 114 s.). Nell’agosto di quell’anno il Corona aveva ricevuto dall’arcidiacono della cattedrale di Padova la commissione di «dipingere extram suam capellam» per il compenso di due ducati (pp. 98, 113). E sempre il Capitolo della cattedrale registrava nel 1518 pagamenti in favore del pittore per «expensae pro horologio» (pp. 98, 115).
Una nuova commissione arrivò al Corona ancora una volta dalla confraternita di S. Antonio il 26 aprile 1520 per la dipintura del «quadro de la pala d’altare», sullo sfondo della Madonna col Bambino in terracotta di Andrea Briosco, detto il Riccio (Grazzini Cocco, 1927, pp. 99-101, 115 s.). L’affresco, non più esistente, fu sostituito nel 1533 da Domenico Campagnola, che il 19 aprile di quell’anno ricevette l’incarico di «conzar e rifar quelle depenture ala pala d’altare nel capitolo de sora» (pp. 100 s., 115). Inoltre, quello stesso anno, Corona venne incaricato di nuovi lavori presso la Scuola di S. Antonio.
A fronte delle poche opere d’arte di Requesta conservatesi fino a noi, cospicua è invece la documentazione biografica che lo riguarda. Dal suo testamento del 22 settembre 1515, nel quale egli disponeva di lasciare i suoi beni in eredità alla madre, sappiamo che non si era ancora sposato con Lucia del quondam Giovanni Veronese, vedova di Hieronimo de’ Orazi, con la quale si unì in matrimonio prima del 1525 (pp. 97 s., 102, 112 s.). Da un documento del 1518 si evince che il pittore gestiva ancora «l’hostaria de la Corona» ereditata dai genitori – di cui pagava i livelli al convento di S. Agostino quell’anno e negli anni 1525-27 – e che aveva beni nel paese d’origine del padre, Fiumicello (pp. 98 s., 103, 115). La sua attività artistica venne probabilmente rilevata da un suo cugino o nipote, nominato nei documenti raccolti dalla Grazzini Cocco (1927, pp. 103 s.) come Francesco Corona «depentor».
La data della morte è nota grazie a un atto con cui il convento di S. Agostino saldò «donna Lucia fu del quondam Zuan Antonio Corona depentor» il 27 dicembre 1529, ed è confermata da un atto notarile del 1° dicembre 1529 in cui Lucia, prima di compiere una vendita in qualità di tutrice della figlia Camilla, dichiara che «eius mariti decessit modus est annus vel circa» (pp. 103, 117).
Le origini paterne da Fiumicello hanno portato la critica a ipotizzare che il Corona fosse stato allievo del suo compaesano Angelo Zoppo (Dal Pozzolo, 1996, p. 171). Evidenti sono i suoi debiti nei confronti degli artisti mantegneschi padovani, in particolare di Jacopo da Montagnana (Lucco, 1984, p. 134) e di Bartolomeo Montagna, attivo a Padova dal primo decennio del XVI secolo. Tra le fonti impiegate nelle sue composizioni, oltre alle stampe nordiche di Luca di Leida e Albrecht Dürer citate da Joseph Archer Crowe e Giovanni Battista Cavalcaselle (1871, 1912, p. 427), si aggiungono Andrea Mantegna (la cosiddetta Madonna della Tenerezza e il disegno o l’incisione del Cristo risorto tra s. Andrea e Longino in particolare; Dal Pozzolo, 1996, p. 171) e le novità della cultura protoclassica. Sono stati fatti tentativi per espandere il corpus del pittore, che non hanno però incontrato un consenso unanime (Hope, 1997). Tra questi va ricordata la proposta di assegnare al Corona un ruolo di collaboratore di Giulio Campagnola nella decorazione ad affresco della Scuola del Carmine di Padova (Spiazzi, 1979), precedentemente attribuita al solo Giulio (Fiocco, 1915). A rigore, però, sappiamo solo che Requesta il 24 novembre 1522 venne incaricato dal guardiano, dai gastaldi e dal massaro della Fraglia di S. Maria dei Carmini di fare «una pictura sopra la porta del capitolo de dicta fragia» (Grazzini Cocco, 1927, pp. 102, 116). Dando seguito a questa linea interpretativa, Hope (1997) ha attribuito a Corona e collaboratori sia questo ciclo, sia quello frammentario della Scuola di S. Giuseppe a Padova, ora ricoverato presso la basilica di S. Giustina.
Fonti e Bibl.: [M. Michiel], Notizia d’opere di disegno, a cura di J. Morelli, Bassano 1800 (ed. riveduta e ampliata da G. Frizzoni, Bologna 1884, p. 66); P. Selvatico, Guida di Padova, Padova 1869, p. 32; J.A. Crowe - G.B. Cavalcaselle, A History of painting in North Italy (1871), I, Londra 1912, p. 427; G. Fiocco, La giovinezza di Giulio Campagnola, in L’Arte, XVIII (1915), pp. 138-156; E. Grazzini Cocco, Un campione dell’arte locale. Giovanni Antonio Corona, in Bollettino del Museo civico di Padova, III (1927), 3-4, pp. 91-117; L. Grossato, Affreschi del Cinquecento a Padova, Milano 1966, p. 55; A.M. Spiazzi, Tre tavole del secolo XV e gli affreschi della Scuola di S. Giuseppe a Padova, in Bollettino del Museo civico di Padova, LXVIII (1979), pp. 31-68; M. Lucco, Il Quattrocento, in Le pitture del Santo di Padova, a cura di C. Semenzato, Vicenza 1984, pp. 119-143; E.M. Dal Pozzolo, Padova 1500-1540, in La pittura nel Veneto. Il Cinquecento, a cura di M. Lucco, Milano 1996, pp. 147-224; C. Hope, The attribution of some Paduan paintings of early Sixteenth Century, in Artibus et Historiae, XVIII (1997), 35, pp. 81-99.