Repubblica
(gr. Πολιτεία; lat. Res publica) Dialogo di Platone. Vi si teorizza lo Stato ottimo, inteso come realizzazione dell’armonica convivenza basata sulla giustizia, la quale è a sua volta analizzata, in relazione sia all’individuo sia allo Stato, in vista dell’assorbimento del singolo nell’organismo statale cui concorre. La giustizia è definita dai sofisti come l’«utile del più forte» e, relativamente alla politica, come l’utile del governo che detiene il potere (338 a-339 b). Socrate, protagonista del dialogo, rimodula il problema in merito al rapporto fra giustizia, sapienza, felicità e virtù (350 c-354 c). Dapprima Glaucone, mediante la favola dell’anello di Gige (che conferisce l’invisibilità e rende possibile perpetrare l’ingiustizia senza timore delle conseguenze; lib. II, 359 b-360 d), poi Adimanto sostengono che l’esser giusto si debba alla «divina natura» o alla «scienza» che solo rarissimi uomini posseggono (366 b-d). Socrate estende allora l’analisi dal singolo individuo all’insieme dello Stato (368 e-369b). Egli delinea un modello di comunità in cui, oltre ai problemi legati alla produzione, alla convivenza sociale e alla difesa, si pone quello, centrale nell’ottica platonica, della formazione di coloro che difendono e governano lo Stato (375 e-378 e). La coesione sociale necessaria al funzionamento dello Stato va ottenuta mediante l’uso politico della menzogna, ossia inducendo strumentalmente credenze false, ma politicamente utili: «se c’è qualcuno che ha diritto di dire il falso, questi sono i governanti, per ingannare nemici o concittadini nell’interesse dello Stato» (389 b). In tale prospettiva Platone teorizza di ricorrere al ‘mito delle stirpi’, secondo il quale gli uomini – tutti fratelli – sono originariamente suddivisi in tre stirpi, aurea, argentea e bronzea (414 b-415 b), cui corrispondono le tre classi dei governanti-filosofi, dei guerrieri e dei produttori (contadini e artigiani), necessarie allo Stato. Guerrieri e governanti devono essere mantenuti dagli altri cittadini e per essi vige comunanza di beni e di donne (proprietà privata e istituzione familiare sono riservate alla terza classe). Tale tripartizione dello Stato trova riscontro nei tre elementi o parti distinte dell’anima, concupiscibile, irascibile, razionale, cui corrispondono tre tipi di virtù, temperanza, coraggio, saggezza (434 c). Platone prospetta un modello ‘invasivo’ di Stato, in cui sono previsti regolamentazioni e controlli della società e della vita civile. Esemplare è la concezione delle unioni sessuali, regolata e ‘pilotata’ dai governanti mediante l’impiego di menzogne (usate come «farmaci» a fini politici; 459 c) affinché «i migliori» si uniscano «alle migliori» e «i più mediocri con le più mediocri» e lo Stato provveda, in seguito, ad «allevare la prole dei primi, non quella dei secondi», affinché sia conservato il numero necessario di governanti e guardiani (459 d-460 a). L’armonico rapporto delle tre anime, nell’individuo, e delle tre classi, nello Stato, si fondano sulla giustizia, la cui corretta applicazione è basata sulla conoscenza. È questo il motivo per cui il governo dello Stato spetta ai filosofi, i quali «conoscono un po’ di quell’essenza che perennemente è e che non subisce le vicissitudini della generazione e della corruzione» (484 a-485 a). Per ovviare sia alla sofistica sia alle forme degeneri di politica è necessario stabilire quale educazione deve essere impartita alle classi che soprassiedono allo Stato. È avviata, a quest’altezza dell’opera, l’analisi del sapere come percorso che culmina nella filosofia, ossia nella conoscenza delle idee e, fra queste, dell’idea suprema, il bene (ἀγαθόν). La conoscenza è descritta come una linea divisa in due segmenti: la conoscenza sensibile o opinione (δóξα) e la conoscenza razionale o scienza (ἐπιστήμη). Esse sono, a loro volta, divise in due segmenti: la prima in congettura circa le immagini sensibili (εἰκασία) e credenza nella realtà sensibile (πίστις); la seconda in ragione scientifica (διάνοια) e intelligenza filosofica (νόησις). La conoscenza razionale comprende la conoscenza matematica e l’intelligenza filosofica, e ha per oggetto, nel primo caso, le idee matematiche, nel secondo, le idee valori somme e l’idea del bene. Aritmetica, geometria, astronomia e musica costituiscono le discipline propedeutiche alla filosofia intesa come compimento del percorso, al tempo stesso spirituale e conoscitivo, che si realizza mediante la dialettica (διαλεκτική; 532 a-534 c).
Per esporre tale concezione Platone ricorre al celebre mito della caverna (514 a-518 b): la situazione iniziale, di ignoranza, degli uomini è come quella di schiavi incatenati che guardano immagini proiettate sul fondo di una caverna. Tali immagini, provenienti dal lato della caverna non visibile agli schiavi, sono proiettate grazie all’illuminazione di un fuoco che arde, ma sono in realtà simulacri di statuette, le quali a loro volta sono mere raffigurazioni e non oggetti reali. Uno schiavo che si liberasse e potesse gradualmente esplorare la caverna e poi uscire da essa e osservare la realtà esterna, se una volta rientrato raccontasse quel che ha conosciuto non verrebbe creduto dagli altri, ma addirittura aggredito e ucciso. Allo stesso modo il filosofo che si eleva dal livello dell’opinione e della credenza, ossia dai simulacri delle cose, a quello della visione della realtà fino al suo livello più elevato e intelligibile (nel mito, il guardare la luce del Sole), se divulgasse il suo sapere non sarebbe creduto dagli uomini, che vivono ancora schiavi delle passioni e delle opinioni, ma sarebbe ritenuto folle e ucciso (come è avvenuto a Socrate). La dialettica e la filosofia rappresentano, secondo Platone, il vertice del sapere, cui sono destinati soltanto i migliori fra i guardiani e soltanto dopo i cinquanta anni di età (539 d-541 b). La realizzazione della felicità attiene allo Stato nel suo complesso, non ai singoli cittadini, e consiste nella giustizia e nell’armonia, ma occorre, ancora, stabilire quale sia la forma di governo più adatta all’ottenimento di tale scopo. La forma che Platone privilegia è quella aristocratica, guidata dai filosofi e fondata sulla saggezza, cui contrappone le forme degeneri della ‘timocrazia’, fondata sull’onore e sull’ambizione, dell’‘oligarchia’, fondata sul censo e sull’avidità, e la democrazia, che comporta un’eccessiva libertà e l’abbandono a desideri smodati, da cui origina la forma degenere della tirannide, in cui l’uomo vive schiavo delle proprie passioni (libb. VIII e IX). Il corretto controllo dello Stato deriva inoltre dalla capacità dei governanti di determinare il «numero nuziale» che soprassiede al ciclo delle nascite: «dall’insieme di questo numero geometrico dipende la questione delle generazioni migliori e peggiori» (546 c). In merito alla formazione dell’uomo e alla virtù, Platone enuncia, nel lib. X, la condanna dell’arte, che, in quanto imitativa, si allontana di tre gradi dalla verità («viene terza a partire dalla verità»; 602 c), ossia è imitazione di una cosa che a sua volta imita l’idea. In tal senso essa corrompe sia a livello della conoscenza, in quanto ne è il grado più basso, sia a livello morale, in quanto rappresenta le passioni inferiori.
La completa realizzazione della virtù è premiata dopo la morte. L’anima, essendo composta perfettamente, è immortale, e riceve premi o castighi, in base al comportamento tenuto durante la vita, sia nel corso dell’esistenza terrena (come spiega il mito di Glauco; 611 a-613 e) sia, e principalmente, dopo la morte, come spiega il mito di Er (613 e-615 d). L’anima è destinata a reincarnarsi in base alla scelta di vita futura compiuta allorché, terminata la propria purificazione, beve nel fiume Lete, in quantità variabile in relazione al grado di conoscenza che ha raggiunto, e torna a trascorrere una vita terrena. Tale prospettiva iscrive la pratica virtuosa entro uno scenario che trascende la realizzazione terrena della felicità, al fine di improntarvi la realizzazione armonica della giustizia nella vita politica dello Stato.