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Repubblica di Corea: i costi della riunificazione

di Antonio Fiori - ATLANTE GEOPOLITICO (2012)
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Antonio Fiori

Nonostante il programma nucleare nordcoreano desti molta preoccupazione nei policy-makers sudcoreani, esso non è l’unica variabile da tenere sotto controllo. Negli ultimi anni, date anche le incerte condizioni fisiche di Kim Jong-Il, il regime nordcoreano ha lasciato intravedere qualche timido segnale di instabilità. In molti si sono allora chiesti cosa succederebbe se il regime collassasse: ciò potrebbe condurre a una riunificazione delle due Coree e alla necessità di procedere alla ricostruzione di un paese significativamente arretrato, dal punto di vista economico, sociale e infrastrutturale come la Corea del Nord. Potrebbero quindi verificarsi almeno tre scenari plausibili: una riunificazione fluida sul modello tedesco; una caratterizzata da estrema violenza; e un misto delle due ipotesi, sul modello della transizione sperimentata da alcuni paesi ex comunisti in Europa. Qualsiasi di queste soluzioni implicherebbe un costo rilevante per i sudcoreani, considerata l’estrema condizione di povertà in cui versa la Corea del Nord. Rimettere in sesto l’economia di quel paese richiederebbe infatti investimenti astronomici da molteplici punti di vista. Il modello tedesco, al quale spesso si fa menzione nella disamina del caso coreano, richiederebbe un impegno proibitivo per i sudcoreani: le condizioni di partenza sono infatti troppo dissimili. Malgrado gli oltre 2 trilioni di dollari che la Germania Federale ha pagato per la riunificazione in due decenni, l’avvio non fu particolarmente traumatico per Bonn. La popolazione della Germania Est era solo un quarto di quella della Germania Ovest e nel 1989 il reddito pro-capite dei cittadini dell’est era equivalente a un terzo di quello dei cittadini dell’ovest. Non bisogna dimenticare, inoltre, che tra le due Germanie esistevano solidi canali commerciali.

La situazione tra le due Coree è estremamente diversa: il reddito pro-capite della Corea del Nord è meno del 5% di quello della Corea del Sud; la popolazione totale nordcoreana è più o meno la metà di quella sudcoreana; e le relazioni commerciali tra i due paesi, nonostante siano migliorate, sono sempre altamente suscettibili ai ribaltamenti politici e diplomatici. A queste condizioni di partenza una riunificazione sarebbe impensabile perché troppo impegnativa dal punto di vista finanziario per i sudcoreani. Numerose e tra loro enormemente diverse sono le stime fiorite in questi anni con riferimento ai costi dell’eventuale riunificazione: per semplicità diciamo che queste stime si muovono all’interno di un ipotetico range che va da 400 miliardi a 3,6 trilioni di dollari americani necessari per una gestione pacifica della riunificazione. Tali stime, però, non tengono nella debita considerazione il fatto che l’unificazione non si limiterebbe a comportare dei costi di investimento, ma chiamerebbe in causa delle voci ulteriori, come il sostegno umanitario, la stabilizzazione economica, la sostituzione del regime, la rieducazione politica dei cittadini, il job training, la ristrutturazione amministrativa e burocratica, l’integrazione sociale, solo per citarne alcune. Questi ultime voci sono molto più indeterminate dei costi di investimento e potrebbero incidere pesantemente se dovessero accumularsi negli anni. Una delle soluzioni più interessanti finora avanzate è quella di porsi come obiettivo il raddoppiamento del pil nordcoreano: ciò potrebbe costituire una soluzione interessante e realmente perseguibile. In questa maniera si farebbe in modo da migliorare le condizioni dei cittadini nordcoreani permettendo loro di contribuire allo sviluppo del loro territorio, mettendo al contempo la Corea del Sud al riparo da un afflusso biblico di fuggiaschi. Ad ogni buon conto, le spese necessarie per favorire la riunificazione non dovrebbero ricadere esclusivamente sulle spalle dei sudcoreani, ma piuttosto essere spalmate su una serie di attori istituzionali internazionali, che trarrebbero giovamento dalla riunificazione della penisola per la sicurezza e la stabilità della regione asiatica, oltre che per nuove opportunità di commercio e investimento.

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