Sudan, Repubblica del
Stato dell’Africa nordorientale. Regione di espansione degli antichi faraoni (➔ Nubia; Kush), il cristianesimo vi si radicò profondamente nel sec. 6° grazie alla predicazione di monaci siriani, in particolare nei regni di Nobazia, Makuria o Makurra (➔ Dongola) e Alodia. Dal sec. 14° si fece preponderante il dominio arabo e l’islam, già presente da prima del crollo dei regni cristiani, dilagò. Dall’alleanza fra una tribù araba e un popolo nero islamizzato nacque, all’inizio del sec. 16°, il regno di Funj, importante nodo commerciale, che si conservò sino alla conquista di Muhammad ‘Ali nel 1820-23, quando la sovranità egiziana fu estesa su Darfur, Sennar e Kordofan. L’Egitto nominò un viceré, assistito da governatori per le varie province, lasciando al loro posto i capi delle tribù, e nel 1830 fu costruita Khartum, alla confluenza tra Nilo Bianco e Nilo Azzurro. Dopo l’apertura del canale di Suez (1869), l’interesse del Vecchio Continente per la regione si fece più marcato; la penetrazione europea, iniziata già da qualche anno con viaggi ed esplorazioni di singoli o di spedizioni geografiche, assunse col tempo scopi prettamente politici, e più volte le autorità egiziane ricorsero a personale europeo per l’amministrazione della regione sudanese. Contro l’occupazione egiziana e la penetrazione europea, nel 1881 Muhammad Ahmad ibn ‛Abdallah, detto al Mahdi, scatenò la guerra santa; parte di un più vasto movimento di rinascita islamica in tutta la regione immediatamente a S del Sahara, il madismo si scontrò con l’espansionismo della Gran Bretagna, le cui truppe furono sconfitte dai dervisci, seguaci e propagandisti della fede del Mahdi, nel Kordofan (nov. 1883) e nel Bahr al-Ghazal (apr. 1884). Conquistata Khartum, invano difesa da C.G. Gordon (genn. 1885), il Mahdi instaurò nei territori conquistati uno Stato teocratico, con capitale Omdurman, sul quale, dopo la sua morte, esercitò il potere Abdallahi ibn Muhammad. Quest’ultimo potenziò l’amministrazione dello Stato e creò un esercito regolare, col quale sconfisse due volte le truppe del negus d’Etiopia (1886 e 1889). Nel 1896 forze congiunte anglo-egiziane, guidate da H.H. Kitchener, intrapresero la riconquista del territorio; presa Omdurman (sett. 1898), Kitchener proseguì verso sud per bloccare a Fashoda l’avanzata da ovest delle truppe guidate da J.-B. Marchand, frustrando definitivamente il progetto della Francia di stabilire una continuità territoriale fra il suo impero in Africa Occidentale e la costa orientale del continente. Nel 1899 il S. divenne un condominio anglo-egiziano, nel quale, di fatto, i pieni poteri erano in mano al residente britannico; la partecipazione egiziana, già limitata ad alcune cariche militari e burocratiche, fu ulteriormente ridotta nel 1924, dopo l’uccisione al Cairo, in un attentato, del governatore generale del Sudan. La Gran Bretagna si servì del Paese per presidiare la regione che comanda il flusso del Nilo e per mantenere il controllo sull’Egitto, Suez e la via delle Indie; applicando l’amministrazione indiretta, Londra lasciò che le due parti del Paese si sviluppassero in maniera diversa: il Nord, saldamente in mano a un’oligarchia arabo-islamica e orientato verso l’Egitto, progredì maggiormente sul piano economico, mentre il Sud, ove operavano le missioni cristiane, restò più legato alle proprie tradizioni. Scopo non dichiarato dell’amministrazione britannica era quello di unire, almeno in parte, il S. all’Uganda, mantenendolo fuori dall’influenza araba; ciò nonostante, l’«unionismo» con l’Egitto costituì un tema fondamentale nella lotta politica sudanese sin dagli anni Venti, quando si formarono i primi partiti politici, alcuni dei quali propugnavano la totale indipendenza del Paese. I militari saliti al potere in Egitto col colpo di Stato del luglio 1952 preferirono non contrastare il nazionalismo sudanese, e nel febbr. 1953 si accordarono con le autorità britanniche per avviare il S., attraverso un periodo triennale di autogoverno, all’autodeterminazione circa il proprio avvenire: unione con l’Egitto o indipendenza; la prima opzione era sostenuta soprattutto dal Partito nazionalista unionista (PNU), espressione degli elementi filo-occidentali e urbanizzati, oltre che degli ambienti islamici ortodossi, mentre della seconda si fece portavoce il partito Umma («nazione»), diretto dai discendenti della famiglia del Mahdi, forte tra gli strati sociali più modesti e le popolazioni nomadi. Nelle elezioni per il primo Parlamento sudanese, svoltesi nel nov. 1953, si impose il PNU, che nel gennaio seguente diede vita a un esecutivo, competente per le sole questioni interne, guidato da Isma’il al-Azhari. La neonata Repubblica preferì non aderire al Commonwealth ed entrò a far parte della Lega araba, accentuando con ciò la frattura tra la regione sett. araba e islamizzata e quella merid. nera, cristiana o animista, desiderosa di maggiore autonomia dal governo centrale. L’avvio di un movimento di guerriglia nel Sud rese subito evidente il malcontento delle regioni meridionali. Il sistema parlamentare istituito dalla Costituzione dell’indipendenza durò appena due anni: nel nov. 1958 il gen. Ibrahim ’Abbud con un colpo di Stato s’impadronì del potere, mantenuto col sostegno delle forze armate sino al 1964. Da allora la vita politica sudanese fu contrassegnata da un’alternanza di regimi militari e tentativi di democratizzazione; nei brevi periodi in cui, nel rispetto delle libertà fondamentali, si svolsero elezioni democratiche, il S. conobbe momenti di autentico pluralismo e cercò di risolvere positivamente la sua questione meridionale. Una nuova stagione civile, iniziata nel nov. 1964, fu bruscamente chiusa nel maggio 1969 dal colpo di Stato del generale G.M. an-Numairi. Il tentativo di quest’ultimo di instaurare un regime monopartitico ispirato al socialismo si scontrò con la resistenza del locale partito comunista, che rifiutò di sciogliersi e cercò di prendere il potere con la forza (luglio 1971). Soffocata con una spietata repressione l’insurrezione comunista, an-Numairi sciolse tutti i partiti, a eccezione dell’Unione socialista sudanese, e diede al Paese una nuova Costituzione (apr. 1973). Nel frattempo il regime aveva raggiunto, grazie alla mediazione di Haile Selassie I, un accordo globale con i guerriglieri, che prevedeva la concessione di un’ampia autonomia per le province meridionali del Paese. Sul piano internazionale, il presunto coinvolgimento della Libia in un fallito colpo di Stato (luglio 1976) comportò la rottura delle relazioni con Tripoli sino al 1985. Evolutosi in senso sempre più personalistico e autoritario, il regime di an-Numairi si allontanò progressivamente dall’URSS, avvicinandosi agli USA, all’Arabia Saudita e, soprattutto, all’Egitto: il S. fu infatti tra i pochissimi Stati arabi rimasti accanto al Cairo dopo la firma degli Accordi di Camp David con Israele (1978) e nel 1982 avviò con l’Egitto un processo di integrazione, che fu però congelato tre anni dopo. Il continuo peggioramento delle condizioni economiche del Paese e la ripresa della guerriglia nelle province meridionali (in risposta al tentativo governativo di limitare l’autonomia precedentemente concessa) indebolirono il regime, che offrì un nuovo motivo di malcontento alle popolazioni meridionali, prevalentemente non musulmane, riformando il codice penale sulla base della legge coranica e con l’adozione della in tutto il Paese (sett. 1983). Ciò riaccese nel S. meridionale la rivolta guidata da John Garang e dal Sudan people’s liberation army (SPLA), ala militare del Sudan people’s liberation movement (SPLM), che rivendicava una diversa distribuzione delle risorse del Paese, petrolio in particolare. Nell’apr. 1985 an-Numairi fu spodestato da un gruppo di militari che, abolita la Costituzione del 1973, promosse un rapido ritorno alla democrazia: le elezioni per l’Assemblea costituente dell’apr. 1986 furono vinte dall’Umma, il cui leader, Sadik al-Mahdi (già primo ministro nel 1966-67), costituì un governo di coalizione con il moderato Partito democratico unionista (PDU) e alcune formazioni minori, rappresentanti delle province meridionali. Ciò non evitò la prosecuzione nel Sud della lotta armata, condotta soprattutto dall’Esercito di liberazione del popolo del Sudan (ELPS) di J. Garang, che pose l’abolizione della legge islamica quale condizione per avviare trattative col governo, del quale nell’apr. 1988 entrarono però a far parte alcuni esponenti del fondamentalista Fronte islamico nazionale (FIN). Il ritorno alla pratica elettorale nel 1986 fu nuovamente abbandonato nel 1989 con il colpo di Stato militare del generale Umar Hasan Ahmad al Bashir. Pur avendo sciolto tutti i partiti politici, quest’ultimo dimostrò di subire l’influenza dei fondamentalisti del FIN, e in particolare del leader di tale partito, Hasan al-Turabi. Adottata una linea economica di stampo neoliberista, la giunta militare guidata da al-Bashir cercò inutilmente di porre fine alla guerra civile. Fallirono infatti sia le iniziative politiche (riforma federale del S., diviso in nove Stati nel 1991, portati a 26 nel 1994) sia le offensive militari, nonostante l’ELPS perdesse un importante sostegno in seguito al rovesciamento di H.M. Menghistu in Etiopia e venisse indebolito da una serie di scissioni interne, provocate dall’emergere di divisioni politiche (fra quanti mirano alla secessione delle regioni merid. e quanti vogliono piuttosto un’integrazione col Nord senza discriminazioni) ed etniche (in particolare fra dinca e nuer). Nel corso degli anni Ottanta e Novanta la guerra civile causò una tragedia di dimensioni immani: oltre un milione e mezzo di morti, quattro milioni di abitanti fuggiti dalle loro terre, più di mezzo milione di rifugiati in altri Paesi e una popolazione sull’orlo della fame per la siccità e le carestie. Nominato (1993) presidente della Repubblica dalla giunta militare, scioltasi per far posto a un governo parzialmente composto da civili, al-Bashir fu confermato alla presidenza nelle elezioni generali del marzo 1996, svoltesi su basi non partitiche perdurando il bando contro i partiti politici, con il 75,7% dei voti e il successo del Fronte islamico nazionale (FIN), il cui leader Hasan al-Turabi fu eletto presidente del Parlamento. Al Sud i combattimenti impedirono il naturale svolgimento del turno elettorale. Nel corso del 1997 l’alleanza tra l’Esercito di liberazione del popolo del Sudan (ELPS) e l’Alleanza democratica nazionale, l’organizzazione che raccoglieva numerose forze di opposizione al regime, attiva nel Nord-Est del Paese e con base ad Asmara (Eritrea), determinò un’avanzata strategica dei ribelli nel Sud e l’intensificarsi della guerriglia. Nel maggio 1998, dopo i ripetuti tentativi di accordo falliti negli anni precedenti, i colloqui di pace di Nairobi tra le forze di governo e i rappresentanti dei ribelli registrarono un primo significativo successo. Nell’intesa siglata dalle parti il 6 maggio si riconosceva la necessità di indire un referendum per l’autodeterminazione del Sud: non veniva indicata, però, alcuna data. Sempre nel mese di maggio, con il 96,7% dei consensi, registrati anche nelle regioni meridionali, veniva approvata per referendum una nuova Costituzione in cui erano riconosciute, almeno in forma teorica, libertà di espressione, di culto e di associazione politica. Ma l’attività politica fu in parte ripristinata solo nel gennaio 1999 con l’approvazione di una legge considerata troppo restrittiva dalle forze politiche meno vicine al regime. Sul finire degli anni Novanta l’intensificarsi della guerra civile e il peggioramento delle condizioni economiche minarono fortemente le capacità di resistenza della popolazione, in particolare di quella residente al Sud, vessata dalle sistematiche violazioni dei diritti umani da parte del regime militare e dalle continue sottrazioni di risorse alimentari compiute dalle forze ribelli. La guerra tra il Sud e il Nord minacciava anche la sopravvivenza dei dinka, il gruppo etnico dominante nell’ELPS, e dei nuba, il popolo di fede musulmana asserragliato sui monti a sud di Khartum, ignorato dalla macchina internazionale degli aiuti umanitari e aggredito dalle forze governative, perché insediato in zone particolarmente fertili e strategicamente importanti. In politica estera l’orientamento integralista del regime di al-Bashir caratterizzò la politica delle alleanze del S. nella regione e nei rapporti internazionali. Bashir fece del S. un punto di aggregazione per l’islamismo in Africa e Asia. Allontanatosi dall’Egitto, tradizionale alleato, Bashir appoggiò l’Iraq nella prima guerra del Golfo, legandosi poi a Iran e Libia. Il sostegno fornito dal governo sudanese ai movimenti di guerriglia antigovernativa in Uganda, Etiopia ed Eritrea, e le accuse mosse dall’Egitto di un coinvolgimento sudanese nel tentato assassinio del presidente egiziano M.H. Mubarak ad Addis Abeba (giugno 1995) portarono il S., penalizzato a partire dall’aprile 1996 dalle sanzioni dell’ONU, alla condanna da parte della comunità internazionale e al suo crescente isolamento sul piano regionale. In particolare, il presidente ugandese Y. Museveni si schierava contro il regime sudanese per preservare l’identità culturale dell’Africa nera, non lesinando la sua solidarietà e il suo appoggio ai ribelli dell’ELPS. Il 20 agosto 1998, a conferma della convinzione degli USA che il S. rappresentasse una delle centrali mondiali del terrorismo islamico insieme all’Iran e all’Afghanistan, il presidente B. Clinton, in risposta agli attentati alle ambasciate statunitensi di Nairobi e Dar es-Salam del 7 agosto, ordinò il bombardamento degli stabilimenti di un’industria farmaceutica di Khartum, la Shifa, dove si riteneva venissero fabbricate armi chimiche. In realtà, sotto il peso delle sanzioni internazionali, una parziale inversione di rotta era iniziata proprio nel febbraio di quell’anno con un netto miglioramento nei rapporti tra il S. e l’Egitto, che, dopo oltre quattro anni di interruzione, ripristinarono reciproci scambi commerciali lungo il Nilo. A sorpresa, nel febbraio 1999, il presidente al-Bashir dichiarava che il governo era pronto a trattare con i ribelli la questione dell’autonomia del Sud pur di porre fine alla guerra che da oltre quindici anni lacerava il Paese. Nel mese di luglio si aprivano a Nairobi (Kenya) i colloqui di pace con i ribelli dell’ELPS, che si chiusero però ben presto con un nulla di fatto. Sul finire del 1999 si scatenò nel Paese uno scontro ai vertici dello Stato tra il presidente al-Bashir e il potente ideologo del regime fondamentalista, il presidente del Parlamento al-Turabi, che era stato il principale sostenitore di al-Bashir in occasione del colpo di Stato del 1989. Nel mese di dicembre il presidente sciolse il Parlamento e dichiarò lo stato di emergenza nel Paese, procedendo alla formazione di un nuovo governo di suoi fedelissimi. Negli stessi giorni al-Bashir e il presidente ugandese Museveni firmavano uno storico accordo di amicizia tra i due Paesi, che chiudeva una lunga stagione di tensioni e conflitti latenti. Nel corso del 2000 si aggravò lo scontro tra il presidente al-Bashir e l’ex presidente del Parlamento al-Turabi, che nel mese di settembre diede vita a un nuovo partito, il Congresso nazionale popolare, dichiarando di voler lottare contro le pratiche autoritarie del regime. Nonostante le proteste delle opposizioni per il permanere dello stato d’emergenza nel Paese, che non garantiva un libero e corretto svolgimento delle consultazioni elettorali, le elezioni legislative e presidenziali si svolsero comunque nel mese di dicembre e fecero registrare il nuovo successo di al-Bashir con l’86,5% dei voti. Nel febbraio 2001 al-Turabi fu arrestato dopo aver dato vita a un’alleanza con l’ELPS nella quale venivano tracciate le linee di una resistenza popolare e pacifica al regime. Il S. riallacciò allora i rapporti con l’Egitto e si schierò con gli USA nella lotta al terrorismo (2001). Riaperte le trattative con il SPLA (2002); l’accordo del 2005 (CPA) riconobbe l’autonomia del Sudan meridionale per 6 anni, in previsione di un referendum per l’autodeterminazione nel 2011. Contestualmente il regime reintrodusse il multipartitismo, associando il SPLA al governo di unità nazionale, ma la morte di Garang nel luglio 2005 evidenziò subito l’esistenza di pericolose contrapposizioni nell’esecutivo. Peraltro, sin dal 2003 si era aperta una nuova crisi nel Darfur che aveva portato a ripetuti scontri tra milizie filogovernative arabe e popolazione musulmana non arabizzata. La conflittualità etnica era esplosa in un contesto politico ed economico già ampiamente deteriorato dalle guerre nei Paesi confinanti (Ciad e Libia) e dagli effetti del conflitto nel S. meridionale. Il governo aveva escluso il Sudan liberation movement (SLM) del Darfur dai negoziati di pace con il SPLM, trascurando volutamente l’emergenza umanitaria in corso. Dal 2007 opera in Darfur una missione di pace UN-UA. Nel 2008 la corte penale internazionale ha condannato al-Bashir per crimini di guerra e contro l’umanità. Nell’aprile 2010, con dieci mesi di ritardo rispetto al previsto, si sono tenute le elezioni parlamentari e presidenziali. Sono stati eletti i deputati del Parlamento nazionale e quelli del Parlamento del S. meridionale. Omar Hasan El Bashir è stato riconfermato presidente con il 68% dei suffragi. Nel S. meridionale è stato rieletto presidente Salva Kiir Mayardit, leader degli ex ribelli dell’Esercito di Liberazione Popolare del Sudan (SPLA). Nel genn. 2011 si è svolto il referendum sull’indipendenza del S. meridionale, le cui conseguenze sono ancora incerte.