RAVENNA, Renzo
RAVENNA, Renzo. – Nacque a Ferrara il 20 agosto 1893, quinto dei sei figli di Eugenia Pardo e di Tullio, agiato commerciante appartenente a una famiglia dell’ebraismo ferrarese.
Compiuti gli studi classici privatamente, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Ferrara che frequentò sino allo scoppio della prima guerra mondiale. Nei mesi della neutralità italiana fu tra i protagonisti del movimento interventista che caratterizzò, in particolare in seno agli ambienti universitari, anche il clima della città padana; fu infatti uno dei membri fondatori del locale Gruppo di azione rivoluzionaria, insieme a Sergio Panunzio e Italo Balbo, con cui strinse una fraterna amicizia destinata a durare per tutta la vita. Assegnato, con il grado di tenente, a un gruppo di artiglieria da montagna, durante il conflitto Ravenna fu impegnato prevalentemente sul fronte albanese. Ritornato alla vita civile si laureò nel 1919 iniziando l’attività di avvocato. A ciò si affiancò, nel 1920, la nomina a vicepretore per il secondo mandamento di Ferrara e, dal gennaio del 1922, quella di membro della giunta provinciale amministrativa e di sindaco dell’Istituto autonomo delle case popolari; impegni, questi ultimi, che gli consentirono di muovere i primi passi all’interno della gestione dell’amministrazione cittadina. Il ruolo pubblico fu poi ribadito dalla scelta di candidarsi, in occasione delle elezioni amministrative dell’autunno del 1920, con il Blocco nazionale, coagulo di tutte le forze moderate e conservatrici della città e che comprendeva i membri del neonato fascio ferrarese, costituitosi nel settembre di quello stesso anno. Già alla fine del 1920 Ravenna aveva così compiuto politicamente la sua scelta di campo e, in qualità di avvocato, accettò anche di difendere alcuni fascisti durante uno dei primi processi che si svolsero a Ferrara alla fine di quell’anno in seguito agli scontri verificatisi con i dirigenti delle organizzazioni socialiste locali. Avvicinatosi ulteriormente al fascismo dopo il cosiddetto eccidio del castello estense del dicembre del 1920, quando quattro fascisti e due socialisti trovarono la morte negli scontri seguiti a due manifestazioni di segno opposto, non si iscrisse tuttavia al fascio cittadino né fu tra coloro che, guidati da Balbo, si resero protagonisti delle incursioni squadriste nelle campagne ferraresi che toccarono il culmine tra il gennaio e il maggio del 1921.
In quell’anno si sposò con Lucia Modena, proveniente da una nota famiglia dell’ebraismo reggiano, una famiglia colta e aperta a influssi e orizzonti politici in parte differenti da quelli in cui Renzo era cresciuto. Nel 1922 nacque il primo figlio, Tullio, cui seguirono Paolo (1926), Donata (1929) e Romano (1935).
In occasione delle elezioni amministrative del dicembre del 1922, che decretarono il successo della coalizione filofascista tanto a Ferrara quanto nei comuni della provincia, Ravenna si candidò e fu quindi nominato assessore alla Sanità e ai Lavori pubblici nella nuova giunta comunale. Dopo l’assassinio, nell’agosto del 1923, di don Giovanni Minzoni il fascismo ferrarese fu attraversato da forti tensioni, acuite poi dalla crisi legata al delitto Matteotti. Per tenere le redini del partito, evitando sbandamenti e defezioni, Balbo si rivolse a Ravenna, sia in ragione della sua estraneità alla stagione della violenza squadrista, sia apprezzandone il temperamento pragmatico e l’indole di mediatore. Fu nel gennaio del 1924 che si iscrisse ufficialmente al fascio di Ferrara per assumerne quindi la direzione dall’aprile al novembre di quell’anno. Dopo una breve esperienza romana – Balbo, nominato nell’ottobre del 1925 sottosegretario al ministero dell’Economia nazionale lo volle con sé a Roma come segretario –, Ravenna tornò a Ferrara, dove sarebbe divenuto uno dei principali referenti e più fidati collaboratori del ras ferrarese, oramai stabilmente trasferitosi nella capitale. In seguito alla riforma podestarile, che sottraeva all’elettività la scelta del sindaco, nel dicembre del 1926 fu nominato quale primo podestà di Ferrara, per lungo tempo l’unico podestà ebreo d’Italia, carica che avrebbe ricoperto per i successivi dodici anni.
La sua amministrazione podestarile si distinse per efficienza, capacità e onestà, come gli fu riconosciuto anche nel secondo dopoguerra. In particolare, una vasta campagna di lavori pubblici, realizzata anche per arginare la piaga della disoccupazione bracciantile che caratterizzava, specie nei mesi invernali, le campagne ferraresi di quegli anni, trasformarono il volto urbano di Ferrara. Fra le numerose realizzazioni si ricorda il risanamento dell’intero quartiere di San Romano, rione interno alle mura cittadine caratterizzato da abitazioni fatiscenti e malsane. Tuttavia, il quadro di povertà generale in cui versava la maggioranza della popolazione non uscì mutato, come testimoniava il costante aumento dei poveri iscritti nelle liste del comune e la crescita delle spese di assistenza e sanitarie. Il tentativo di risolvere i problemi di disoccupazione e pauperismo promuovendo la trasformazione dell’economia locale in senso industriale, avviata nel 1937 con la creazione della cosiddetta Zona industriale di Ferrara, fu interrotta dallo scoppio della guerra.
Uno dei tratti distintivi dell’amministrazione podestarile negli anni del lungo mandato di Ravenna fu poi il ruolo centrale attribuito alla politica culturale che, concepita come un efficace strumento per l’acquisizione del consenso, ebbe a Ferrara un carattere di eccezionale vivacità tra gli anni Venti e Trenta. Il progetto culturale proposto si fondò su una rivisitazione del cosiddetto mito estense, utilizzato come strumento per suggerire un evidente parallelismo tra i signori di un tempo e i nuovi amministratori fascisti. La valorizzazione della Ferrara rinascimentale ebbe inizio già nel 1923 con i lavori di restauro del castello e del palazzo comunale. Nel 1928, l’avvio delle celebrazioni per il quarto centenario della morte di Ludovico Ariosto offrì ulteriori spunti, attraverso le iniziative della cosiddetta Ottava d’oro, una serie di conferenze e di letture pubbliche ariostesche che si snodarono per quasi cinque anni e che portarono a Ferrara intellettuali e scrittori. Fu tuttavia nel 1933, con l’organizzazione della grande mostra sulla pittura ferrarese del Rinascimento organizzata a palazzo dei Diamanti, che attirò oltre 70.000 visitatori e che ebbe una vasta eco nazionale e internazionale, che la costruzione del mito estense raggiunse il punto più alto. A ciò si unì, sempre nel 1933, la riproposizione dopo secoli di oblio del palio cittadino di San Giorgio e l’inaugurazione, nel 1935, del museo dedicato al pittore ferrarese Giovanni Boldini e del Museo archeologico nazionale di Spina, che raccoglieva migliaia di reperti provenienti dall’omonima necropoli greco-etrusca scoperta agli inizi degli anni Venti nelle valli di Comacchio.
Nei lunghi anni del podestariato l’appartenenza alla comunità ebraica non costituì per Ravenna un elemento di tensione o di ostacolo. Il podestà non ricoprì mai alcuna carica all’interno della locale comunità e manifestò apertamente il rifiuto dell’opzione sionista. Nel complesso egli visse la sua identità religiosa in modo rispettoso delle tradizioni ebraiche, ma sempre fedele al motto «ebrei in casa e cittadini fuori». I precedenti patriottici lo spingevano del resto a sentirsi integrato a pieno titolo e profondamente italiano, consuetudine del resto non sorprendente all’epoca, specie nei ranghi del ceto medio ebraico.
Tuttavia, fu una delle prime vittime del clima di crescente ostilità che a partire dal 1937 travolse la comunità ebraica italiana e che giunse al suo epilogo con l’avvio ufficiale della persecuzione razziale nella tarda estate del 1938. Nel marzo del 1938, prendendo a pretesto presunti atteggiamenti di ostilità antiebraica dell’opinione pubblica ferrarese nei confronti del podestà, al prefetto di Ferrara arrivò dal ministero dell’Interno, retto allora dallo stesso Benito Mussolini, la sollecitazione di allontanare Ravenna dalla sua carica. Di fronte a questo attacco, adducendo a sua volta motivi di salute, egli decise di dimettersi e, di lì a pochi mesi, anche tutta la sua famiglia fu travolta dalle conseguenze della persecuzione: i figli vennero allontanati dalle scuole pubbliche, Renzo tornò all’attività di avvocato destinata, però, come le norme discriminatorie prevedevano, ai soli correligionari. Lo scoppio della guerra, nel giugno del 1940 la morte di Balbo, che aveva assicurato all’amico parziali, ma efficaci tutele nei primi mesi della persecuzione, segnarono le tappe di un progressivo isolamento culminato, nell’ottobre del 1943, con la fuga dalla città e il faticoso e incerto percorso verso la Svizzera, dove giunse fortunosamente e dove restò, insieme alla moglie e ai figli, sino alla fine della guerra. Le deportazioni avrebbero peraltro duramente colpito la sua famiglia: da Auschwitz non avrebbero più fatto ritorno le due sorelle di Renzo, Margherita e Alba, quest’ultima insieme al marito e al figlio adolescente, e il fratello di Renzo, Gino, scomparso con la moglie e due dei tre figli.
Tornato a Ferrara nell’autunno del 1946, Ravenna fu sottoposto a due procedimenti di epurazione in ragione del suo passato fascista; non subì tuttavia alcuna condanna e riprese l’attività di avvocato allontanandosi completamente dalla scena pubblica cittadina. Nel 1956, la sua figura e la sua storia, seppur nascoste dietro il nome di fantasia di Geremia Tabet, furono utilizzate da Giorgio Bassani in Una lapide in via Mazzini, uno dei racconti che compongono le Cinque storie ferraresi. L’opera narra il difficile ritorno nella Ferrara del secondo dopoguerra di un ebreo perseguitato, Geo Josz, nella realtà Eugenio Ravenna, l’unico nipote di Renzo sopravvissuto ad Auschwitz.
Morì a Ferrara nell’ottobre del 1961.
Fonti e Bibl.: Ferrara, Archivio privato Renzo Ravenna.
I. Pavan, Il podestà ebreo. La storia di R. R, tra fascismo e leggi razziali, Roma-Bari 2006.