Renzo De Felice
Renzo De Felice è stato uno dei protagonisti della storiografia italiana del dopoguerra, il principale storico del fascismo italiano, e di Benito Mussolini in particolare (dei quali ha contribuito in modo decisivo a storicizzare l’immagine), nonché uno degli studiosi italiani più conosciuti all’estero e il primo storico a ottenere, nel nostro Paese, una straordinaria eco a livello di comunicazione di massa. Una figura d’intellettuale discussa e contestata e che, a più di quindici anni dalla morte, non cessa di suscitare aspri dibattiti.
Nato a Rieti l’8 aprile 1929, figlio unico di un funzionario delle dogane, Renzo De Felice vive e studia a Roma. Una difficile situazione familiare rende tutt’altro che brillanti i suoi risultati scolastici: riesce comunque a conseguire la maturità da ‘privatista’, dopo due bocciature, al termine dell’anno scolastico 1948-49. Dopo una breve parentesi a giurisprudenza, dovuta all’insistenza del padre, passa al corso di laurea in filosofia dell’Università di Roma. Militante comunista, partecipa alla vita degli organismi rappresentativi universitari e viene fermato due volte dalla polizia, nel 1950 e nel 1952, nel corso di manifestazioni contro l’atomica e la NATO (North Atlantic Treaty Organization).
Frequenta i corsi di storia moderna tenuti da Federico Chabod e, nell’ambito di uno dei suoi seminari, prepara una ricerca sugli ebrei nella Repubblica romana del 1798-99, della quale il professore sollecita la pubblicazione e che rappresenta il suo primo lavoro scientifico. Si laurea il 16 novembre 1954 con una tesi su Correnti di pensiero politico nella prima repubblica romana seguita da Chabod, ottenendo il massimo dei voti e la lode. Dal novembre 1955 è borsista presso l’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli, fondato da Benedetto Croce e diretto dallo stesso Chabod. De Felice entra in contatto anche con Delio Cantimori con il quale stabilisce un rapporto di amicizia personale e profondo. A Napoli il suo marxismo gramsciano, evidente nelle collaborazioni alle riviste «Movimento operaio» e «Società», comincia a intiepidirsi. Dopo il rapporto Chruščëv e le conseguenti vicende nell’Europa dell’Est, firma il Manifesto dei 101, redatto dagli intellettuali contrari all’appoggio dato dal Partito comunista italiano all’invasione sovietica dell’Ungheria. Assieme a molti dei firmatari, lascia il partito.
Passa a un’area di sinistra democratica e collabora a riviste come «Tempi moderni» e «Il nuovo osservatore». Il 4 aprile 1959 sposa Livia, figlia dello storico della filosofia Guido De Ruggiero. Il matrimonio è celebrato dal sacerdote e studioso Giuseppe De Luca con il quale instaura un altro importante legame intellettuale. La moglie sarà sempre un elemento fondamentale di sostegno sia nell’attività editoriale (anche con un assiduo lavoro di traduzione) sia negli anni delle polemiche.
Nel 1961 gli viene negata la libera docenza in storia moderna (suscitando le pubbliche rimostranze di Cantimori). La conseguirà nel maggio 1964. Su proposta di Rosario Romeo, con il quale si avvia un’amicizia fraterna, è incaricato dell’insegnamento di storia delle dottrine politiche presso la facoltà di Magistero dell’Università di Roma. Presso la cattedra di Romeo nella facoltà di Lettere è anche nominato assistente volontario, tenendo fino al 1968 «corsi liberi» sul fascismo. Su posizioni liberaldemocratiche (ma da intellettuale, mai connotate in senso partitico), collabora dal 1968 al «Corriere della Sera» del quale è direttore Giovanni Spadolini. Nel settembre 1968 vince il concorso di storia contemporanea bandito dall’Università degli studi di Catania e viene chiamato dall’Istituto universitario di Magistero di Salerno. Il rapporto con Romeo e la facoltà di Lettere e filosofia di Roma rimane comunque solido: nell’anno seguente, vi riceve l’incarico di storia dei partiti politici, cattedra che dal 1971 verrà chiamato a ricoprire come professore di ruolo.
Nel 1970 fonda la rivista «Storia contemporanea» che dirigerà sino alla morte. L’anno successivo entra a far parte del comitato internazionale del «Journal of contemporary history». Lasciato nel 1972 il «Corriere» dopo l’allontanamento di Spadolini, dal 1974 collabora a «Il Giornale» di Indro Montanelli. Nel 1979 decide di passare alla facoltà di Scienze politiche, dove insegna storia dei partiti e in seguito, dal 1986, storia contemporanea.
Dal 1992 è presidente della Fondazione Ugo Spirito e dal 1995 della Giunta centrale per gli studi storici. Muore a Roma il 25 maggio 1996.
De Felice si formò in un clima storicista. Suoi maestri furono il principale esponente dello storicismo idealistico, Chabod, e il principale esponente di quello marxista, Cantimori. Sia dallo storicismo «duttile e antidottrinario» del primo (G. Sasso, Il guardiano della storiografia. Profilo di Federico Chabod e altri saggi, 1985, pp. 12-13), sia dagli inviti del secondo a guardarsi, nel lavoro storiografico, dal ricorrente pericolo rappresentato dal «moralismo sublime» e dal «demone dell’ideologia» e a fondarsi su una filologia attenta al concreto, lasciando da parte teorizzazioni e generalizzazioni, De Felice assorbì una forte ostilità verso le categorie astratte. Sin dai primi scritti, egli appare attento al concreto, alla complessità, alle sfumature.
Un altro aspetto dello storicismo di Chabod e, soprattutto, di Cantimori che lo influenzò profondamente è l’attenzione ai sentimenti collettivi, agli «stati d’animo». Ricordò egli stesso «la particolare sensibilità» di Cantimori per le «manifestazioni utopiche religioso-sociali di cui più di ogni altro studioso italiano del suo tempo comprendeva la sempre più decisiva importanza nella società contemporanea» (Gli storici italiani nel periodo fascista, in Federico Chabod e la nuova storiografia italiana dal primo al secondo dopoguerra (1919-1950), a cura di B. Vigezzi, 1984, p. 604). Gli studi sul misticismo rivoluzionario dei giacobini aprirono De Felice alla dimensione della storia della mentalità, e alla storia religiosa (attraverso il rapporto con uno studioso della «pietà» come De Luca). Venne così innestando nel suo storicismo il contributo delle scienze sociali: la psicologia, l’antropologia, la sociologia religiosa, la storia della mistica, la storia delle religioni, la storia del sentimento religioso, gli studi sulle tradizioni e la religiosità popolare.
A questa impostazione giovanile De Felice sarebbe sempre rimasto legato: com’è stato osservato, «non vi è sostanzialmente nulla», da questo punto di vista, nel De Felice storico del fascismo «che non fosse già presente nel modo in cui De Felice aveva precedentemente affrontato e trattato altri problemi storici» (E. Gentile, L’umiltà di uno storico del Novecento. Profilo di Renzo De Felice: il personaggio, il professore, lo storico, in Renzo De Felice. Studi e testimonianze, a cura di L. Goglia, R. Moro, 2002, p. 36). Naturalmente, egli avrebbe considerato con maggiore attenzione i nodi della società di massa e della modernizzazione, che altre profonde amicizie, quella con il sociologo Gino Germani e quella con George L. Mosse, contribuivano a suggerirgli. Tuttavia, una concezione fondamentale del lavoro dello storico che saldava l’opzione antideterminista della tradizione storicista (e l’attenzione di quest’ultima per l’individuo e il mondo delle idee) con la viva consapevolezza della necessità di un allargamento della storiografia alle scienze sociali rimase costante. E così, convinto della funzione civile della storiografia, De Felice avrebbe anche in seguito rifiutato, assieme alla concezione moralistica e militante di una «storia in chiave ideologica e politica, senza problemi e senza dubbi», quella positivista di «una storia solo documentaria, senza un vero sforzo di ripensamento critico» (Hitler come Robespierre, «Il Giornale», 5 aprile 1975). La sua cifra di storico sarebbe sempre stata caratterizzata dal rifiuto di ogni dogmatismo, da un eccezionale scavo documentario, dalla capacità di intrecciare in maniera affascinante uno spettro di fonti diverse particolarmente ampio, da un’abilità peculiare nel ricostruire il quadro di una società complessa, da quella della crisi rivoluzionaria del 18° sec. alla politica di massa del 20°. De Felice fu anche il primo storico italiano a dedicare un’attenzione specifica alle ‘icone moderne’: egli contribuì a portare la storia in televisione (per es., il documentario di Sergio Zavoli Nascita di una dittatura, del 1972), lavorò a due storie fotografiche (del fascismo e del mito di Mussolini) e collaborò a moltissimi documentari.
La prima fase dell’attività di studioso di De Felice fu essenzialmente dedicata al periodo rivoluzionario a cavallo tra 18° e 19° secolo. Le sue ricerche furono diverse (le monografie, rispettivamente, sulla vendita dei beni nazionali della Repubblica romana del 1798, sugli «illuminati», sulla vita economica di Roma e del Lazio tra Sette e Ottocento; i numerosi studi che spaziavano dalle vicende degli ebrei romani all’antisemitismo, dalla religiosità popolare e le sue paure di fronte alla rivoluzione al riformismo illuminato di Pietro Verri), ma al centro dei suoi interessi vi fu il problema del giacobinismo, che rimase il suo tema principale di ricerca fino all’inizio degli anni Sessanta e che egli analizzò attraverso profili biografici (Giuseppe Ceracchi, Pasquale Matera, Claudio Della Valle, Luigi Angeloni), antologie di testi, studi sulla stampa rivoluzionaria, sul teatro e sull’istruzione pubblica.
Già Franco Venturi aveva messo in guardia dall’uso indiscriminato del giacobinismo come «categoria politica». Aveva escluso, però, l’esistenza di un giacobinismo italiano (F. Venturi, La circolazione delle idee, «Rassegna storica del Risorgimento», aprile-settembre 1954, 2-3, p. 212). De Felice concordava con la prima, e non con la seconda asserzione di Venturi. Si servì pertanto di un testo antigiacobino (Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme, 5 voll., 1797-1803) dell’abate Augustin Barruel per individuare alcuni caratteri specifici, e tipici, del giacobinismo come fenomeno storico: sul piano politico, un «democraticismo repubblicano radicale»; sul piano sociale, «un egualitarismo almeno tendenziale»; sul piano religioso, la creazione di «nuove forme», legate alla natura; soprattutto, sul piano psicologico-morale, una nuova «sensibilità» fondata sulla «fede nella rivoluzione». L’obiettivo era quello di smontare il mito di un’«Idra giacobina dalle mille teste e dalle mille forme», evitando improprie dilatazioni della categoria (Giacobini italiani, «Società», ottobre 1956, pp. 883-96, ora in Il triennio giacobino in Italia, 1990, pp. 92-94 e 79). De Felice considerò il concetto di «rivoluzione passiva» storicamente giusto, ma solo in quanto risultato finale di un processo complesso e non scontato (Studi recenti di storia del triennio rivoluzionario in Italia (1796-99), «Società», giugno 1955, pp. 498-513, ora in Il triennio giacobino in Italia, cit., p. 61), e dunque evitando, anche qui, «un’arbitraria dilatazione della teoria […] del Cuoco» (rec. ad Assemblee della Repubblica Romana (1798-99), a cura di V.E. Giuntella, «Movimento operaio», 1954, p. 769). Sottolineò, inoltre, che il movimento rivoluzionario era stato complesso e variegato in una serie di tendenze (dalle moderate alle estremiste); riaffermò la positività del triennio rivoluzionario; insistette sui motivi sociali che avevano mosso i ceti coinvolti; analizzò la strumentalizzazione che i francesi avevano fatto dei moti italiani. Il giovane storico pensava così si potesse superare quell’atteggiamento riduttivo che spingeva spesso a considerare gli avvenimenti del 1796-99 come «un’astratta e frenetica parentesi» (Italia giacobina, 1965, p. 32).
Inseguendo il problema della mentalità rivoluzionaria, De Felice si avviò soprattutto nella direzione dell’approfondimento del rapporto tra religione e rivoluzione. Ancora allievo dell’Istituto di Croce, fu preso, come ha raccontato lui stesso, da una «frenesia di letture» sul «momento mistico-rivoluzionario del ‘giacobinismo’ italiano» e sui «suoi legami e pendants nel mondo rivoluzionario francese e europeo» (cit. in La scuola di Croce. Testimonianze sull’Istituto italiano per gli studi storici, a cura di E. Romeo, 1992, p. 248). Sarebbero scaturite da questa prospettiva le ricerche sull’ondata di miracoli che attraversarono l’Italia prima dell’arrivo dei francesi (e sull’ondata di profezie che invece seguì l’occupazione: Paura e religiosità popolare nello Stato della Chiesa alla fine del XVIII secolo, in Italia giacobina, cit., pp. 289-316), quelle sull’«evangelismo giacobino» (termine coniato dallo stesso De Felice per definire una componente rivoluzionaria proveniente dal cattolicesimo che aveva subito una profonda trasformazione in direzione ereticale) e, infine, quelle sugli «illuminati» (variegata corrente misticheggiante che andava dai massoni ai martinisti, dai pietisti agli swedenborghiani).
In questi ultimi studi, in particolare, De Felice affrontò l’aspetto, allora assai poco noto, di un Settecento mistico che aveva vissuto una grande attesa millenaristica nella quale si era fusi motivi diversi e contrastanti. Dal periodo prerivoluzionario, in cui esso era stato essenzialmente religioso, De Felice seguì il fenomeno fino alla fase postrivoluzionaria, quando esso si era politicizzato. Mentre i philosophes, tuttavia, avevano trasformato i miti mistici in ideologie, e dunque in cultura di massa, gli «illuminati» li avevano trasformati in utopie, e quindi in stati d’animo (Note e ricerche sugli ‘Illuminati’ e il misticismo rivoluzionario, 1960, p. 21).
Gli studi ‘giacobini’ non solo mantengono notevole valore ancora oggi, ma testimoniano molti aspetti della ricerca di De Felice che sarebbero rimasti inalterati: la volontà di restituire alla storia fenomeni considerati arbitrariamente parentetici, l’analisi di un fenomeno complesso attraverso lo studio dei singoli esponenti, lo sforzo di scomporlo e riproporre, su questa rinnovata base, un giudizio complessivo, l’attenzione per l’importanza storica e politica della dimensione irrazionale.
De Felice cominciò a occuparsi di fascismo dal 1959, quando ricevette l’incarico di scrivere una storia degli ebrei italiani durante il ventennio. Mentre egli lavorava, la questione tornò prepotentemente al centro dell’attenzione: gli elementi plebiscitari del gaullismo, il populismo delle dittature latino-americane, il ‘caso Tambroni’ (ossia l’esplodere nell’estate del 1960 di manifestazioni antifasciste contro il governo monocolore democristiano guidato da Fernando Tambroni che aveva ottenuto la fiducia grazie all’appoggio determinante dei voti del Movimento sociale italiano), il processo dell’ufficiale delle SS Karl Adolf Eichmann riproponevano domande irrisolte. Vi era un’urgente necessità di delimitare e precisare il campo, a partire da una ridefinizione storica, proprio mentre lo scorrere degli anni permetteva un lavoro di scavo su documenti, memorie, testimonianze, sino ad allora impensabile.
Gli strumenti con i quali si continuava a guardare al fascismo erano però ancora del tutto tradizionali. Dominavano il campo quelle che lo stesso De Felice avrebbe battezzato come le tre interpretazioni ‘classiche’, nate in funzione della lotta antifascista: il fascismo come «malattia morale» conosciuta dalla società europea della prima metà del Novecento, e in particolare in seguito al trauma della Grande guerra; il fascismo come «rivelazione», quale prodotto dei ritardi nei processi di sviluppo di alcuni Paesi europei, e in particolare di Italia e Germania; il fascismo come fase senescente del capitalismo. Spesso sostenute da intellettuali di grande levatura, queste interpretazioni in realtà non facevano che sancire il dominio esercitato in campo storiografico dalle ideologie politiche: d’ispirazione liberale la prima, d’ispirazione democratico-radicale la seconda, d’ispirazione marxista, e più propriamente comunista, la terza, esse partivano tutte da precise premesse politico-morali e convergevano nel considerare il fascismo sostanzialmente come un regime reazionario di destra, del tutto analogo al nazismo, giunto al potere attraverso la violenza e che tale potere aveva mantenuto con l’oppressione e la coercizione, senza aver mai goduto di alcun appoggio da parte degli italiani, i quali, alla fine, ne avevano provocato la caduta. All’inizio degli anni Sessanta sembrava dunque ovvio che, per giudicare il fascismo (e non sul piano civile o politico, ma su quello propriamente storico), si dovesse partire proprio dal punto di vista della lotta antifascista. E ciò provocava, come notò lo stesso De Felice, una difficoltà diffusa ad affrontare di petto una realtà che sembrava «già sistemata moralmente» (e comunque sostanzialmente ‘repellente’) e la conseguente scelta di studiare, piuttosto, l’antifascismo (Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, 1961, p. XXIII).
De Felice fu uno dei primi storici italiani ad avvertire l’esigenza di un netto superamento di tale situazione e fu certamente il primo a tradurre quest’esigenza in un ampio e programmatico sforzo di ricerca. Gli era chiaro che le tre interpretazioni ‘classiche’ del fascismo erano insufficienti e inadeguate, in quanto unilaterali, per una spiegazione storica del fenomeno; come pure gli era chiaro che la ricerca sul fascismo non poteva fare a meno delle scienze sociali, nella più ampia prospettiva dei problemi della società di massa. Il lavoro di De Felice si sarebbe così caratterizzato: per il rifiuto delle tradizionali interpretazioni-caratterizzazioni generali del fascismo e, viceversa, per la scelta – sono sue parole – di una «tendenza storiografica estremamente aperta a tutte la più varie suggestioni interpretative e pronta a non scartare aprioristicamente nessuna ipotesi e a servirsi di ogni possibilità di approfondimento del problema offerta dalle cosiddette scienze sociali» (Le interpretazioni del fascismo, 1969, p. 20); per lo sforzo di riportare gli studi del fascismo «ad una misura esclusivamente storica, sottraendoli ad ogni preoccupazione di altro genere e ad ogni suggestione di sistematicità e di generalizzazione» (p. 22) e fondandoli sulla concretezza dei documenti e l’indagine archivistica; per la viva consapevolezza della complessità del fenomeno preso in esame, il quale presentava una tale articolazione di componenti e una così viva dialettica tra di esse da escludere che si potesse dare una nozione generalizzante di fascismo «preso in blocco» (mentre anche le differenze nazionali, per es. tra fascismo e nazismo, apparivano tali da rendere altrettanto complessa, e per certi versi addirittura problematica, la categoria di un ‘fenomeno fascista’); per un parallelo sforzo affinché questa relativizzazione e contestualizzazione precisa dell’analisi storica del fascismo non facesse però cadere del tutto un problema complessivo di interpretazione e di significatività dell’esperienza fascista (e, da questo punto di vista, il fascismo sembrava costituire per De Felice una spia emblematica dei problemi e delle caratteristiche della moderna società di massa).
Nell’arco di circa trentacinque anni De Felice produsse un lavoro enorme sul fascismo italiano, quasi incredibile per un uomo solo: oltre una ventina di volumi (tra i quali spiccano quelli della monumentale, incompiuta, biografia di Mussolini), un gran numero di articoli, tutti frutto di originali ricerche di prima mano. I principali punti fermi proposti da De Felice, che hanno dato innegabilmente un nuovo corso agli studi sul fascismo e sono entrati largamente nel patrimonio della storiografia, possono essere così sintetizzati: a) il carattere rivoluzionario del primo fascismo (e quindi la continuità tra il Mussolini socialista e il Mussolini fascista) fino alla svolta squadrista del 1921; b) il fatto che il fascismo non aveva avuto origine nella paura borghese della rivoluzione proletaria, ma era nato come movimento originale di ceti medi; c) la complessità e persino l’eterogeneità di composizione del fascismo; d) il conseguente ruolo centrale del ‘mussolinismo’ per comprendere la dinamica del movimento fascista e poi del regime; e) il fatto che il fascismo, a differenza di quanto a lungo affermato, aveva avuto una sua cultura e una sua ideologia, entrambe meritevoli di studio; f) il fatto che il regime mussoliniano avesse ottenuto un innegabile consenso dagli italiani, specie tra il 1929 e il 1936; g) la distinzione tra il «fascismo movimento» e il «fascismo regime», con la specificazione che il primo era stato un fenomeno rivoluzionario di «ceti medi emergenti» (cui andava attribuita una prospettiva di progresso, collocandolo nella tradizione dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese, e quindi separandolo radicalmente dal nazismo); h) la differenza profonda tra fascismo e nazismo, in quanto realtà caratterizzate da ideologie politiche profondamente differenti, come dimostrato dalla questione razziale; i) l’individuazione di una «svolta totalitaria» nella seconda metà degli anni Trenta che aveva modificato sensibilmente l’equilibrio di «totalitarismo imperfetto» assunto in precedenza dal regime; j) la profondità della crisi morale della borghesia italiana nella fase della guerra perduta del 1942-43, da concepirsi come premessa necessaria per intendere in tutta la sua portata il disastro dell’8 settembre.
De Felice non fu un professore immediatamente brillante, né un ‘comunicatore’ o un oratore affascinante, né concesse mai qualcosa a una facile divulgazione. I suoi primi lavori sul fascismo suscitarono dibattiti vivaci, ma, nel complesso, normali. La Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo provocò un ‘caso’ politico per il fatto che essa conteneva un riferimento al coinvolgimento in alcune manifestazioni nazifasciste del dirigente del Partito radicale Leopoldo Picardi, ma la polemica riguardò essenzialmente quest’ultimo e soltanto in maniera marginale De Felice (Simoncelli 2001, pp. 245-47).
Assai diverso fu quanto avvenne nel 1975, quando l’Intervista sul fascismo, a cura dello storico americano Michael A. Ledeen, suscitò clamorose polemiche che uscirono dall’ambito scientifico per coinvolgere la politica e i mezzi di comunicazione di massa. Le tesi in essa esposte sulle radici rivoluzionarie del fascismo, sulla sua collocazione nel filone aperto dalla Rivoluzione francese, sul consenso di massa ottenuto vennero giudicate scandalose. Ne nacque un vero ‘caso’: storici, giornalisti e politici di sinistra accusarono De Felice di voler riabilitare il fascismo, mentre altri storici, intellettuali e politici (anche di sinistra) accusavano i primi di stare conducendo un’ingiustificata campagna di linciaggio morale.
Un nuovo clamoroso ‘caso De Felice’ esplose tra il dicembre 1987 e il gennaio 1988 dopo due interviste con il giornalista Giuliano Ferrara pubblicate dal «Corriere della Sera», nelle quali De Felice proponeva l’abolizione delle norme transitorie della Costituzione che vietano la ricostituzione del partito fascista. Molti lo accusarono di voler delegittimare la Repubblica antifascista. Nel marzo 1988 i Collettivi politici studenteschi romani, di estrema sinistra, annunciarono la contestazione di massa di una sua prossima lezione, suscitando nuove polemiche.
Un ultimo ‘caso De Felice’ si verificò nel 1995, dopo la pubblicazione del libro-intervista con il giornalista Pasquale Chessa Rosso e nero, nel quale De Felice insisteva, questa volta, sulla natura di minoranza della Resistenza e sottolineava la conseguente debolezza democratica e nazionale dello Stato repubblicano. Nuovamente, detrattori e difensori si contrapposero violentemente, accusandolo i primi di voler denigrare la Resistenza e riabilitare il fascismo, difendendone i secondi le tesi o comunque la libertà nel formularle. Mentre era già gravemente malato, nel febbraio 1996, due bombe molotov furono lanciate contro la sua abitazione.
Anche se buona parte dei risultati della ricerca di De Felice sul fascismo appare oggi acquisita dalla generalità degli studiosi, le sue tesi sono state (e talvolta sono ancora) oggetto di attacchi e critiche vivaci. Gli si rimprovera di aver partorito un lavoro voluminoso quanto mediocre, di essere sostanzialmente un acritico accumulatore di documenti, di non essere stato così imparziale come pretendeva, avendo cercato «attenuanti» al fascismo e «aggravanti» all’antifascismo, di non essere stato imparziale nemmeno nella scelta dei documenti, privilegiando e dando eccessivo credito a quelli di fonte governativa e fascista e non alle analisi compiute dall’antifascismo clandestino o in esilio. Soprattutto, lo si è accusato di svolgere, dietro il paravento della scientificità, un’operazione politico-ideologica, volta a legittimare il fascismo, e quindi la nuova destra postfascista: insomma, di voler, normalizzandolo, ‘riabilitare’ il fascismo.
Alcuni di questi rilievi risultano comprensibili solo alla luce delle passioni che la parola fascismo comporta: non sarebbe assurdo rimproverare a uno storico del Concilio di Trento di costruire il suo racconto sui verbali delle sedute, le testimonianze dei cardinali, gli scritti dei teologi, piuttosto che sui pamphlets dei protestanti? Inoltre, non c’è dubbio che attorno al «revisionismo» defeliciano si sono annodati molti equivoci. De Felice negò che la «nuova storiografia sul fascismo» potesse «portare a una sorta di ‘revisionismo storiografico’» e che qualcuno, «sedotto da tesi paradossali, ingegnose e brillanti», potesse finire «per tentare […] la riabilitazione del fascismo e del suo capo»; affermò che «il giudizio storico complessivo sul fascismo» non poteva «essere certo né mutato né sostanzialmente rivisto»; ribadì che obiettivo della «nuova storiografia» non poteva essere «la ricerca di assurdi revisionismi ma solo la volontà di una approfondita riflessione sul significato più sostanziale di quasi mezzo secolo di storia recente italiana»; spiegò che questa riflessione non poteva non essere legata «ai valori morali e politici che […] hanno la loro radice nell’antifascismo», anche se non doveva perseguire «finalità polemiche e politiche che non competono allo storico» (Le interpretazioni del fascismo, 19724, pp. 245-46 e 248). Non avrebbe mai abbandonato queste posizioni.
Convinto che il giudizio propriamente storico contenuto nei suoi libri sui fallimenti del regime mussoliniano sarebbe risultato, alla fine, altrettanto duro di una professione di fede antifascista, ancora nel 1995 avrebbe esplicitamente rifiutato letture delle sue posizioni che non vedessero in esse «altro che la ‘riabilitazione’ della Rsi», così come ogni ipotesi di «‘giustificazionismo’». Se accettò, pur con qualche riluttanza, il termine di revisionismo, lo fece solo perché questa gli sembrava la definizione fondamentale del mestiere dello storico e non uno strumento per riabilitare il fascismo. Dichiarava, infatti, che
Per sua natura lo storico non può che essere revisionista, dato che il suo lavoro prende le mosse da ciò che è stato acquisito dai suoi predecessori e tende ad approfondire, correggere, chiarire, la loro ricostruzione dei fatti (Rosso e nero, 1995, pp. 16 e 17).
In questo senso il «revisionismo» defeliciano, se di revisionismo si vuole parlare, più che alle posizioni di Ernst Nolte, va ricollegato a quelle di François Furet e al suo rinnovamento profondo dello studio della Rivoluzione francese, con un analogo sforzo di ‘demitizzazione’ dell’oggetto di studio, con il tentativo di mettere fine all’‘eccezionalità’ della Rivoluzione e di dichiarare che essa è «terminata», per poter giungere finalmente a un giudizio sereno e propriamente scientifico perché purgato dalla sua carica emozionale e politica, anche se Furet si è trovato a sottoporre al vaglio dell’analisi storiografica uno dei principali ‘miti positivi’ della storia contemporanea, mentre De Felice si è trovato a concentrare le lenti dell’analisi critica su quello che risulta forse il principale ‘mito negativo’ dei nostri tempi.
De Felice è sempre stato convinto del valore civile del lavoro dello storico. Come pochi altri studiosi, egli ha posto gli italiani di fronte al loro passato, li ha spinti a prenderne coscienza, al di fuori del facile, ma fragile, ponte delle ideologie, ha ricordato loro che la storia è racconto e spiegazione di tutto il passato e che non esiste una cosa come un passato usabile e un passato inusabile. L’immagine che i media (e alcuni dei difensori ideologizzati) hanno dato spesso del De Felice storico del fascismo è stata quella di un grande intellettuale isolato e controcorrente. Si tratta di un’immagine per molti versi sfocata. De Felice fu un grande intellettuale, ma, per quanto osteggiato da una parte dell’establishment politico e culturale del Paese e da una larga fetta della storiografia, il suo lavoro si inscrive, e profondamente, all’interno delle grandi tendenze della storiografia internazionale. De Felice ha contribuito profondamente a modificare il dibattito internazionale sul fascismo e, a sua volta, ne è stato profondamente influenzato. Grandi studiosi del nazionalismo, del nazismo e delle tendenze totalitarie della politica (Jacob Talmon, Karl Dietrich Bracher, George L. Mosse, Eugen Weber) si sono mossi in una direzione per molti versi analoga a quella di De Felice, avviando non per caso con lui un intenso dialogo: obiettivo era infatti quello di recuperare un’immagine storiografica e non ideologica dei fascismi, al fine di inserirli all’interno di un’evoluzione di lungo periodo della storia europea, legandoli alla società di massa e ai suoi problemi.
Dunque, il primo valore dell’opera storiografica di De Felice sta nell’essere stata capace di inserirsi, a livello alto, nel grande dibattito internazionale sulle trasformazioni della politica nel Novecento. Come Mosse, Talmon, Weber e Bracher, De Felice ha visto il fascismo come una delle rivoluzioni di tipo nuovo del 20° secolo. Pur dimostrandone in modo rigoroso la specificità, l’ha legata ai nuovi caratteri della politica nell’età contemporanea in relazione alla modernizzazione, alla società di massa, al prorompente dominio delle ideologie. Per De Felice il fascismo era un fenomeno limitato al periodo delle due guerre mondiali, e dunque finito; ma non era finito il problema della fragilità della democrazia nella società di massa, da cui la stessa esperienza fascista aveva tratto origine. Si spiega così il suo appassionato interesse per le tesi pessimistiche di Germani sulle difficoltà della democrazia di fronte ai processi di secolarizzazione assoluta provocati dalla modernizzazione e il suo ritornare, negli ultimi anni, in modo problematico, attorno al nesso tra democrazia e crisi dello Stato nazionale. Partendo dal problema del fascismo e arrivando al problema della democrazia e della società di massa, De Felice è stato così senza dubbio uno dei pochissimi storici italiani capaci di darci una più profonda, più vera, più ricca, e forse più inquietante, immagine complessiva del Novecento.
La vendita dei beni nazionali nella Repubblica romana del 1798-99, Roma 1960.
Note e ricerche sugli ‘Illuminati’ e il misticismo rivoluzionario (1789-1800), Roma 1960.
Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1961.
I giornali giacobini italiani, a cura di R. De Felice, Milano 1962.
Giacobini italiani, a cura di D. Cantimori, 2° vol., Bocalosi, Galdi, Pagano, Gioannetti, L’Aurora, Martini, Anonima, Piazza, Vivante, Brunetti, Ranza, a cura di R. De Felice, Bari 1964.
Aspetti e momenti della vita economica di Roma e del Lazio nei secoli XVIII e XIX, Roma 1965.
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Mussolini il rivoluzionario, 1883-1920, Torino 1965.
Il fascismo e i partiti politici italiani. Testimonianze del 1921-1923, a cura di R. De Felice, Bologna 1966.
Mussolini il fascista, 1° vol., La conquista del potere, 1921-1925, 2° vol., L’organizzazione dello Stato fascista, 1925-1929, Torino 1966-1968.
Le interpretazioni del fascismo, Bari 1969, Bari 19724.
Il Fascismo. Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Bari 1970.
Il problema dell’Alto Adige nei rapporti italo-tedeschi dall’‘Anschluss’ alla fine della seconda guerra mondiale, Bologna 1973.
Mussolini il duce, 1° vol., Gli anni del consenso, 1929-1936, 2° vol., Lo Stato totalitario, 1936-1940, Torino 1974-1981.
Intervista sul fascismo, a cura di M.A. Ledeen, Roma-Bari 1975.
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D’Annunzio politico, 1918-1938, Roma-Bari 1978.
Ebrei in un paese arabo. Gli ebrei nella Libia contemporanea tra colonialismo, nazionalismo arabo e sionismo (1835-1970), Bologna 1978.
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Intellettuali di fronte al fascismo. Saggi e note documentarie, Roma 1985.
Il fascismo e l’Oriente. Arabi, ebrei e indiani nella politica di Mussolini, Bologna 1988.
Il triennio giacobino in Italia, 1796-1799. Note e ricerche, Roma 1990.
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Mussolini giornalista, a cura di R. De Felice, Milano 1995.
Rosso e nero, a cura di P. Chessa, Milano 1995.
Fascismo, antifascismo, nazione. Note e ricerche, prefazione di F. Perfetti, Roma 1996.
Via Cesari n. 8. Storia, storiografia, fascismo. *Conversazione con Renzo De Felice, a cura di G. Murru, Cagliari 1999.
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Alla ricerca dell’Italia contemporanea: Romeo, De Felice, Spadolini. Atti del convegno di studi svoltosi a Firenze il 21-22 novembre 1997, Firenze 2002.
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