SIMONI, Renato
(Renato Francesco Carlo Coriolano). – Nacque a Verona il 5 settembre 1875, dall’avvocato liberale Augusto e da Livia Capetti.
Rimasto orfano del genitore a soli quattro anni, per aiutare la madre e le due sorelle impartì lezioni private di latino, senza riuscire a terminare gli studi liceali. Ma la passione per la ribalta – lo zio materno, Ugo Capetti, era critico drammatico e musicale – si manifestò sin dai monologhi recitati nel cortile di casa.
Nel 1894 entrò a far parte della redazione del quotidiano veronese L’Adige, dapprima come cronista e poi quale recensore teatrale: attività perseguita per oltre mezzo secolo che ne fece una autorità sovrana, richiesta per prefazioni, consulenze su copioni e interpretazioni, con un gusto moderatamente allergico al radicalismo delle avanguardie. Tutta la carriera di Simoni fu caratterizzata da una frenetica operosità in più campi, tra pagina e palcoscenico. Nel 1897 passò a L’Arena, sempre a Verona, occupandosi di teatro e letteratura. Con lo pseudonimo Turno, collaborò a fogli locali umoristici, e con il medesimo pseudonimo firmò settimanalmente dal 1919 poesie a carattere popolare nella Domenica del Corriere e nel Corriere dei piccoli. Coltivò inoltre anche il vezzo di travestirsi, firmando i contributi a L’Illustrazione italiana come Nobiluomo Vidal, prelevato al prediletto Giacinto Gallina. Nel 1899 passò al Tempo di Milano, diretto da Raffaele Gianderini, lasciandolo nel 1902 per il mutato orizzonte politico del giornale. Il 14 giugno 1902 la compagnia dialettale di Ferruccio Benini portò con esito trionfale al teatro Verdi di Cremona La vedova, commedia scritta da Simoni.
Plot suggestivo, trasposto poi cinematograficamente da Goffredo Alessandrini nel 1939, il testo di Simoni influenzò la pirandelliana Vita che ti diedi del 1923: una madre che non elabora il lutto per il figlio morto accoglie in casa la giovane nuora con gelo, a differenza del marito che se ne invaghisce, salvo poi salutarla con affetto quando la ragazza si allontana per sposarsi una seconda volta, lasciando la vecchia finalmente sola con il fantasma amato.
L’anno dopo entrò al Corriere della sera, pure con corrispondenze dall’estero, tra cui Nordamerica, Cina e Giappone. Il 18 agosto 1903, alla Commenda di Milano, sempre Benini portò al debutto il suo Carlo Gozzi (nella querelle tra costui e Goldoni, Simoni era decisamente schierato verso il secondo), ricostruendone la vita in quattro stazioni tra il 1745 e il 1797, tutta segnata da fallimenti familiari e sentimentali.
Nel 1906, alla morte dell’amico Giuseppe Giacosa, assunse di fatto, sebbene non ufficialmente, la direzione della Lettura, responsabilità che divenne ufficiale nel 1940. Il 9 febbraio 1906 debuttò all’Olimpia di Milano, con Benini, Tramonto, crollo con suicidio finale dell’arrogante protagonista, abituato a dominare gli altri nel suo superomismo dannunziano, una volta scoperta un’infedeltà passata della moglie. Il 21 aprile 1908, la prima della rivista satirica Turlupineide ai Filodrammatici di Milano provocò entusiasmo e committenze in numerosi libretti musicali, leggeri e operistici. Era stata preceduta, il 25 gennaio, dalla prima rappresentazione del Matrimonio di Casanova, in quattro atti, cofirmata assieme a Ugo Ojetti, al Carignano di Torino, compagnia Di Lorenzo-Falconi, unico copione in lingua, centrato su estri e capricci dell’avventuriero. Sempre dal 1908 per trent’anni collaborò al settimanale umoristico Guerin Meschino sfoggiando estrose arguzie in caricature letterarie, tra cui parodie dannunziane e pascoliane.
Il 21 novembre 1910 al Manzoni di Milano, con Congedo (compagnia Benini), andava in scena la storia di una madre che cela il tumore che la sta uccidendo ai parenti scatenati nel proprio egoismo. Con questo testo terminava la produzione drammaturgica di Simoni.
Consonanze oggettive cechoviane, calate in atmosfere tra Antonio Fogazzaro e Giacosa, centrata sui vecchi secondo la consuetudine del palcoscenico veneziano. Un vocabolario più veneto che lagunare, ruvido cicaleccio sospeso tra crepuscolarismo intimista, tensioni protoespressioniste e realismo ambientale di una borghesia acida e sofferta, presaga di una crisi anche economica in atto, con durezze improvvise a rompere il velame del non espresso.
Dall’aprile del 1914, alla morte di Giovanni Pozza, già in precedenza da lui spesso rimpiazzato, gli subentrò nella critica teatrale al Corriere della sera.
E nelle sue infinite cronache serali, scritte al volo dopo lo spettacolo, poi raccolte da Lucio Ridenti in cinque volumi, scioglieva la mole erudita dei riferimenti culturali, senza implicazioni ideologiche di alcun genere: una vena affabulatoria con cui ricostruiva le commedie trasformandole in rapinose Trame d’oro, occupanti buona parte del pezzo, con una colloquialità discreta e affettuosa verso il lettore, nel culto della chiarezza espositiva. E, spesso, i suoi pezzi migliori si occasionavano in risposta a brutti copioni, verso cui si sporgeva con paziente tolleranza, al punto che fu tacciato a volte di eccesso di buonismo.
Il 25 gennaio 1915, al Metropolitan di New York andò in scena Madame Sans Gêne, libretto con musica di Umberto Giordano. Negli ultimi mesi della Grande Guerra fondò e diresse La Tradotta, giornale di trincea per la Terza Armata, in cui pubblicò la celebre Madonnina Blu, preghiera di un anziano prete contro i tedeschi. Dall’aprile del 1917 al marzo del 1919, organizzò Il Teatro del Soldato, su iniziativa di Sabatino Lopez e Marco Praga, direttore e presidente della Società italiana degli autori (SIA, futura SIAE), con letture e messinscene ricreative per il morale dei combattenti. Per meriti di servizio, ricevette il grado di maggiore e fu insignito con la croce di guerra.
Il 26 aprile 1926 alla Scala, diretta da Arturo Toscanini, esordì Turandot di Giacomo Puccini, con libretto firmato assieme a Giuseppe Adami; il 24 marzo 1934, sempre alla Scala, Il Dibuk: leggenda drammatica in un prologo e tre atti, tratto ancora da un suo libretto, con musica di Ludovico Rocca. Poco dopo, dal 1936, iniziò la sua attività di regista, autodidatta a oltre sessant’anni, in particolare en plein air nei campi veneziani per la Biennale teatro, e nel solco delle prime sovvenzioni di Stato alle produzioni private, con il Ventaglio e le Baruffe chiozzotte, Il bugiardo nel 1937, il Campiello nel luglio del 1939, Le donne curiose a Torino nel 1940, i Rusteghi e L’impresario delle Smirne nell’agosto del 1947.
Trascinanti il contrappunto delle voci e la fluidità del ritmo con cui dirigeva grandi interpreti dell’epoca, sia in lingua sia in dialetto, tra cui l’ammirato Cesco Baseggio, mirabile Fortunato nelle Chiozzotte, e da lui adorato in generale per la naturalezza della recitazione.
E ancora, nel marzo del 1937, un Edipo re a Sabratha, nelle Colonie dell’Impero, il battesimo postumo nel giugno dello stesso anno di I giganti della montagna, di Luigi Pirandello, aiutato dal figlio Stefano, nel giardino fiorentino di Boboli per il Maggio musicale (qui anche l’Aminta di Torquato Tasso nel giugno del 1939 e l’Adelchi manzoniano, teatralizzandone i cori, nel giugno del 1940), una Francesca da Rimini dannunziana al romano teatro Argentina nell’ottobre del 1938, una Moscheta ruzantina tradotta in lingua ancora a Roma nel 1942. L’ultima, Romeo e Giulietta, presso il teatro romano della sua Verona, inaugurando il festival shakespeariano.
Sempre fedele al copione, senza stravolgimenti di sorta, fiducioso nel gusto discreto con cui avvicinare storie e battute, valorizzando i gesti del quotidiano, lette da direttore d’orchestra come su un ideale pentagramma, e nel contempo tutto teso a valorizzare i mattatori di cui si serviva, disciplinandone però narcisismi e dismisure.
Il 14 aprile 1939 venne nominato accademico d’Italia, nel posto lasciato vacante da Pirandello, cui tributò il 10 ottobre 1939 un discorso commemorativo al Margherita di Agrigento, esaltandone gli aspetti magico-emozionali rispetto a quelli analitici-intellettuali. Dello scrittore siciliano aveva rifiutato per La Lettura nel 1914 il romanzo Si gira.
Frequenti furono i suoi discorsi pubblici celebrativi, in cui sfoggiava empatia verso il personaggio rievocato, come nei suoi riusciti centoni ed epitaffi su attori nell’ascesa dall’origine cerretana al fulgore da star, ma anche su critici e scrittori, in un efficace equilibrio di nostalgia malinconica e di bonaria ironia.
Il 28 aprile 1945, durante l’epurazione politica che seguì al crollo del fascismo, nonostante l’assenza in Simoni di qualsiasi connivenza (si pensi alla sua frequentazione del dialetto, avversato dallo stesso regime), gli venne tolta la tribuna teatrale, affidata al suo vice trentennale, Eligio Possenti. Nondimeno, sin dal 4 aprile 1946, sul Corriere d’informazione riapparve la sua firma. Girò pure un film nel 1943, Sant’Elena piccola isola, sulla fine dell’imperatore francese. Il 28 gennaio 1951, venne nominato presidente del Circolo della stampa e il 28 aprile dello stesso anno ottenne il premio Ines Fila. Negli ultimi tempi la sua presenza in sala fu limitata ai teatri dotati di ascensore per via dei disturbi cardiopatici. Nei primi anni Cinquanta redasse alcune voci dell’Enciclopedia dello spettacolo, diretta da Silvio D’Amico.
Morì a Milano, nella sua casa a via Tamburini 6, il 5 luglio 1952 per un attacco cardiaco.
Un autentico lutto nazionale nella scena italiana: «L’uomo più grande di tutti nel Teatro», così lo definì Ridenti ne Il Dramma del 15 luglio del 1952. Verona (al cui ospizio lasciò 25 milioni) e Milano istituirono dal 1958 a suo nome il premio annuale per la fedeltà al teatro di prosa. Il 1° ottobre del 1952 fu celebrato al Manzoni di Milano, con il suo Carlo Gozzi, protagonisti interpreti regionali, e Baseggio nei panni dell’eponimo, e i mostri sacri nazionali quali mere comparse: serata destinata a raccogliere fondi (quasi 4,5 milioni) per la casa di riposo degli attori di Bologna, già intestataria di un suo copioso lascito testamentario. Tutti lavorarono a titolo gratuito, dai critici che pagarono la poltrona agli interpreti blasonati di contorno, dai tecnici di scena alla SIAE che rinunciò agli introiti. Questo in memoria di chi faceva le sue regie come un gioco infantile, senza cachet. Tutti, tranne però i commedianti veneti, pagati profumatamente. Ripreso l’anno dopo a Venezia, lo spettacolo, solo con interpreti veneti, segnalò platee semivuote.
Opere. Tutti i libretti musicali e i copioni delle riviste, nonché i discorsi pubblici sono apparsi a stampa. Si vedano: Le commedie, Torino 1949; poi, a cura di L. Ridenti, Tutta l’opera di Renato Simoni: dalle commedie alla critica teatrale, Torino 1951. Le recensioni sono state raccolte in Trent’anni di cronaca drammatica, I-V, a cura di L. Ridenti, Torino 1952-1960; interventi vari in Vicino e lontano, Milano 1920; Gli assenti, Milano 1920; Ritratti, Milano 1923; Cronache della ribalta: 1914-1922, Firenze 1927; Teatro di ieri, Milano 1938; Uomini e cose di ieri: discorsi e celebrazioni, Verona 1948 e 1952; Le fantasie del nobiluomo Vidal, a cura di E. Possenti, Firenze 1953.
Fonti e Bibl.: I 40.000 volumi della sua biblioteca, ricca di edizioni rare, oltre alla preziosa collezione di marionette (danneggiata dai bombardamenti su Milano del 1943), sono stati donati alla Scala, nella sezione dedicata alla madre Livia, inaugurata al pubblico nel 1954. Qui, oltre che a Torino, presso il Centro studi del teatro Stabile, nel fondo Lucio Ridenti, si trova la parte principale dei numerosi carteggi che lo coinvolgono. Nella vasta bibliografia, più giornalistica che saggistica, cfr. il numero monografico, redatto alla sua morte, de Il Dramma, XXVIII (1952), n. 163-164 (1° settembre). Si vedano inoltre: U. Zannoni, R. S., Verona 1952; G. Trevisani, Storia e vita di teatro, Milano 1967, pp. 349-357; R. Rimini, Gozzi secondo S., Firenze 1976; G. Antonucci, Storia della critica teatrale, Roma 1990, pp. 137-150; P. Puppa, Cesco Baseggio. Ritratto dell’attore da vecchio, Verona 2003; Una giornata di studi su R. S. Atti del Convegno..., Verona, a cura di P. Baggio, Venezia 2010; A. Gjata, Il grande eclettico. R. S. nel teatro italiano del primo Novecento, Firenze 2015 (studio più completo in tale ambito).