SERRA, Renato (Renato Luigi Giuseppe Giulio). – Nacque a Cesena (Forlì) il 5 dicembre 1884, nella casa di famiglia in Borgo Cavour circonvallazione al n. 14, attuale viale Carducci (sede della Fondazione Serra, inaugurata nel 2005)
Il padre Pio (nato a Cesena il 25 aprile 1849) era medico delle Ferrovie, ma con un cursus studiorum di prestigio presso Jean-Martin Charcot a Parigi; la madre, Rachele Favini (nata a Portacomaro, in Piemonte, il 16 aprile 1856), era di famiglia lombarda di tradizioni risorgimentali. Una vena di idealismo risorgimentale permase nel Serra maturo, dopo gli esordi socialisti, e lo guidò nell’ultimo tratto delle grandi scelte d’azione (il patriottismo mazziniano e la guerra). Il nonno materno Giuseppe (nato a Milano il 19 marzo 1823) era stato a capo dell’ufficio di Stato civile a Cesena, dove era morto il 19 giugno 1886.
Da notizie sulla genealogia, raccolte da Alfredo Grilli (Genealogia e romagnolità di Serra, in Grilli, 1961, pp. 31-39), risulta che un bisnonno paterno (Domenico Kaissler) era nato a Praga e aveva sposato Teresa Balbi, maltese, di sangue inglese, donde, come da testimonianza familiare, «la nonna inglese». Pertanto una romagnolità non pura, non etnica, mista, contraddittoria e vitale, significativa in quella mescolanza di tradizioni e di sangue, anche per Serra, nel configurare la sua psicologia, i suoi gusti e disgusti, e non solo in letteratura. Una geografia spirituale complessa, di cui tracciava le coordinate, con un ragionamento sul regionalismo, e la psicologia regionale, e sul suo modo opposto di riviverli come uno straniero, nella lettera a Carlo Linati del 15 ottobre 1914 (Epistolario..., a cura di L. Ambrosini - G. De Robertis - A. Grilli, 1934, 1953, p. 528).
Dopo i lutti e la precoce tragica morte del padre, travolto da un treno merci su cui viaggiava alla stazione di Cesena (29 gennaio 1911), Rachele divenne la vestale della memoria di casa Serra, fino poi alla morte, avvenuta a Bologna il 12 dicembre 1944.
Serra studiò al liceo classico Vincenzo Monti di Cesena, diplomandosi nel 1900. Emilio Lovarini (1866-1955) fu il suo maestro e mentore in quel primo segmento di istruzione classica, con innesti di scientismo filosofico, in un ambito di studi permeato dal positivismo nella ricerca documentale ed erudita. Iscritto alla facoltà di lettere dell’Università di Bologna, allievo delle ultime lezioni di Giosue Carducci, pure non riuscì a coronare gli studi con quel maestro ormai mitico, laureandosi il 28 novembre 1904 con Umberto Albini, discutendo una tesi (Dei «Trionfi» di Francesco Petrarca) solo più tardi pubblicata da Grilli, con biografia di Serra, presso Zanichelli (Bologna 1929). Fra i maestri bolognesi, fu fondamentale, e crebbe nel tempo, l’apporto stilistico-teoretico di Francesco Acri, storico della filosofia e traduttore dei Dialoghi di Platone. Più incidente sullo stile e la visione di Serra di quanto non lo sia stata la più massiccia e stentorea prosa carducciana. Altri maestri, tutt’altro che empatici, furono Vittorio Puntoni (letteratura greca), Edoardo Brizio (archeologia), Giovanni Battista Gandino (letteratura latina).
Il saggio più celebre, in cui sono ravvisabili elementi di metodo, e pertanto replicabili, tecniche peculiari del lettore, fu Pascoli, apparso in due parti in La Romagna (s. 3, VI (1909), febbraio e marzo, pp. 65-79 e 121-142). Un’eccellenza di Serra fu la ritrattistica dei maestri, da Acri (La Voce, III (1911), 10, pp. 522 s.) a Severino Ferrari (La Romagna, VIII (1911), 2, pp. 77-98). Ferrari – l’urna nell’ombra – gli rappresentò, più che un maestro, il simbolo vivente di quella scuola, nella figura umanissima di un servaggio generoso, di un’adorazione pressoché acritica, e religiosa, dei valori dell’umanesimo.
La fattura. Episodio di uno studio intorno a G. D’Annunzio (La Voce, III (1911), 14, in Scritti..., a cura di G. De Robertis - A. Grilli, 1938, 1958, I, pp. 179-201), depone di una tecnica scaltra di letterato. Della «religione delle lettere», Serra si fece erede e testimone sulle soglie di un Novecento, non amato, screditato nei suoi valori espressivi e artistici, eppure intensamente, febbrilmente vissuto. Sdoppiato fra una vita novecentesca e una memoria letteraria classica. Nella breve esistenza, alcune date essenziali cavalcano i due secoli, 1899 e 1900, date registrate in uno studio occasionale Per un catalogo (1909), allorché elaborò la sua cultura politica, fondata inizialmente sulla lettura di testi socialisti, nella sfera concettuale e ideologica della Seconda Internazionale, con autori di riferimento quali Karl Marx, Friedrich Engels, Charles Darwin, Roberto Ardigò, Antonio Labriola, Karl Kautsky, Eduard Bernstein, Aleksandr Herzen, i quali rivelavano un radicamento nella cultura positiva, allora egemone ma già al trapasso, in fase di sradicamento, a opera della riforma idealistica crociana.
Benedetto Croce fu il più autorevole, costante, e di fatto avverso, interlocutore filosofico. Una relazione umana e intellettuale che si svolse, dall’estate del 1908, tra lettere e cartoline dell’Epistolario, e altri documenti inediti, fino alla rottura finale, al tempo della guerra (maggio 1915). I documenti del carteggio sono in numero di 80 pezzi (41 di Croce, 39 di Serra), distribuiti gli originali e le copie tra la Fondazione Croce di Napoli, la famiglia Serra (Bologna) e la Biblioteca Malatestiana (Cesena).
Il primo contributo a stampa dello studioso giovanissimo, ancora scolaro felsineo, fu l’articolo Su la pena dei dissipatori (Inferno XIII, vv. 109-129), accolto, con la mediazione di Lovarini presso Rodolfo Renier, dal Giornale storico della letteratura italiana nel 1904 (vol. 43, pp. 278-298).
Dagli studi preliminari, centrati sui classici della storia letteraria, Dante e Petrarca, autori letti e commentati assai più che sottoposti a critica – la critica, intesa come manifestazione di dissenso e cortese presa di distanza, si svolse, date le premesse psico-metodologiche, sui moderni, quasi esclusivamente sugli epigoni, e ‘minori’, non sui padri fondatori – e pertanto non più fatti oggetto di indagini e analisi critica, con un’attenzione mirata anche all’originale e incompreso (e in parte incomprensibile) dantismo pascoliano (un incontro bolognese con Giovanni Pascoli, su quel tema, è registrato nel giorno stesso dei funerali di Carducci, in una Bologna innevata del 9 febbraio 1907), il passaggio al moderno e al contemporaneo poté sembrare brusco e inatteso, con lo studio ampio, argomentato, appassionato ma inconcluso, mimeticamente caotico, dedicato a Rudyard Kipling, autore letto parzialmente nella lingua originale e prevalentemente in versione francese (nelle sale del fiorentino Vieusseux, e nel Circolo filologico, frequentato nell’anno del perfezionamento presso l’Istituto di studi superiori), studio confluito nel racconto critico, rimasto inedito, Rudyard Kipling (1907). Le numerose cartelle del Kipling restarono, come altre sue, chiuse in un cassetto, ma agirono nondimeno come indimenticato modello di lettura e realizzazione critica (il realize), un’idea della critica come lettura e narrazione degli effetti di quella, dei sensi turbati dall’esercizio non solo intellettuale del leggere, con assai parco impiego del giudizio.
Una modalità di critica (giudicare no, ma sentire e far sentire), per la quale Serra dettò se non una scuola almeno una linea, una prospettiva, alla cultura novecentesca, con un metodo in cui erano elementi oggettivi (la lettura tecnica nel Pascoli) e una cospicua dose di soggettività, che si estraniava dai canoni del mestiere, in ispecie distante dall’accademia universitaria, nella quale pure si era severamente formato.
Serra fece parte di una generazione di letterati e intellettuali la cui biografia fu fortemente condizionata da una militarizzazione in atto e crescente, che si avvertì anche quando la guerra, le guerre (dalla Libia alla guerra mondiale) erano ancora cronologicamente lontane. Un’intellettualità militarizzata. Dal febbraio del 1905 fu a Roma per il servizio militare, espletato nel 47° reggimento fanteria ai Prati di Castello come allievo ufficiale. La lettera alla madre sulle Grandi manovre, da Vinchiaturo (7 settembre 1905, in Scritti letterari..., a cura di M. Isnenghi, 1974, pp. 9-14), è un reperto forte, nonché utile a comprendere la formazione di quella generazione e la sua progressiva assuefazione al linguaggio delle armi.
La vita di Serra si svolse quasi interamente a Cesena, con interruzioni brevi, stimolate talora dall’amico più intimo Luigi Ambrosini (1883-1929), e suggerite dalla ricerca di un impiego, mai portata a termine in modo soddisfacente. Nel febbraio del 1907 ebbe, per pochi giorni, un incarico di insegnamento presso il collegio femminile Ungarelli di Bologna. Nel marzo del 1907 si trasferì a Torino per una collaborazione editoriale, ma, spiacendogli la città, per solo un mese. Giunse a Firenze l’11 novembre 1907 e la lasciò il 21 giugno 1908. La città, e la sua codificata bellezza, non lo attirarono, e il soggiorno, fra studi di perfezionamento e il lavoro di schedatura per un Dizionario biobibliografico italiano, ideato e finanziato dal duca Leone Caetani di Sermoneta, vi durò dieci mesi, per scoprirsi dentro «una gran nostalgia del suo paese, una gran voglia di buttare all’aria tutte le cartacce fiorentine e di tornare alla sua casa, alle sue dilettazioni fantastiche e serene, alla sua Romagna» (lettera a Grilli, 29 agosto 1908, in Epistolario..., cit., p. 210). Invincibile il richiamo esercitato dalla città natale (dalla famiglia, composta dalla sorella Maria Pia, coniugata Valducci, madre di due figli, morta di febbre puerperale il 7 dicembre 1908, e dal fratello Africo, detto Nino, nato il 20 novembre 1887, morto a Bologna il 16 novembre 1960, pioniere della neurochirurgia), nonché dalle abitudini (alcune rovinose, come il gioco d’azzardo), dalle pigrizie ambientali, da un carattere complesso e altero, che respingeva istintivamente ogni sforzo di competizione in carriera. Velleitario, una momentanea protesta, il suo desiderio di andarsene all’estero, esilio o fuga, quando la vita gli si stringeva intorno al collo come un cappio: «Ah se non fosse così fresca la disgrazia di casa mia, con che cuore pianterei tutta questa baracca e con un poco d’inglese che ho imparato proverei d’andare a New York a fare almeno il facchino! Per ora, non c’è altro che sopportare» (lettera ad Ambrosini, gennaio 1909, ibid., p. 239). La lettera che l’amico gli indirizzò il 16 marzo 1909 è un documento importante per il quadro che, senza eufemismi, si dava della provincia, amaro e degradante crepuscolo, nella quale Serra, secondo Ambrosini, perdeva i suoi giorni e si perdeva (nelle sue notti, al tavolo verde): «È necessario che tu strappi ogni legame che ti unisce a Cesena; e a una compagnia malvagia e scempia di idioti che t’attorniano, opponga non la tua volontà, ma la tua lontananza. Non c’è altra via. E poi tu devi lavorare. Quando farai il tuo dovere di uomo di ingegno, ti potrà anche essere perdonata l’abitudine del giuoco; ma ora no, perché in fondo non fai nulla che sia degno di te, del meglio che è in te» (Renato Serra. Mio carissimo..., 2009, p. 133).
Ma Serra fu Serra, un mito, anche per questi vizi e servitù, e una contrastata vocazione letteraria, senza che il consueto ordine accademico di tanti suoi colleghi la formalizzasse – forte in lui il rigetto di un’idea di ricerca e docenza come professione –, in balia della vita e del temperamento. Nel lungo inverno del suo scontento, fra il 1914 e il 1915, Serra ripudiò ogni esercizio letterario («Non posso scrivere; e quello che scrivo mi fa schifo»; lettera a De Robertis, Cesena, 18 dicembre 1914, in Epistolario..., cit., p. 538). Poi fu l’idea di una confessione finale (l’Esame) a rianimarlo nell’ultimo tratto della vita. Nella tradizione novecentesca Serra fu originale e autentica personalità, anche per l’infrazione del ruolo, e il legame, più che fedele, addirittura coatto con le mura di una piccola città del silenzio, intimamente, pericolosamente vissuta (due revolverate, e un colpo di sbarra di ferro, da un marito che si credeva tradito, tal Luigi Tondi, lo raggiunsero, miracolosamente risparmiandolo, il 4 dicembre 1911, e lo trascinarono, oltre che nel fango del pettegolezzo locale, fino a un processo in corte d’assise). Il 24 settembre 1909 Serra fu nominato direttore della Biblioteca Malatestiana e Piana di Cesena, che fu l’altro luogo della vita, della mente, bibliotecario riluttante, nondimeno custode consapevole dei tesori dell’umanesimo.
L’esperienza bibliotecaria, la vita spesa nella quattrocentesca Libraria Domini, fu un correlato oggettivo del suo pensiero sulla letteratura. Il servizio bibliotecario (più che bibliotecnico), durato fino alla partenza per la guerra (lasciò la direzione nel maggio del 1915 a Dino Bazzocchi, e si portò al fronte, in prestito bibliotecario, il Fedone o dell’anima di Platone), fu più di tutela dei beni affidatigli dalla comunità che di offerta pubblica, più di contemplazione che di azione (come si intenderebbe oggi la professione dirigenziale di una pubblica biblioteca).
Anche questa fu una tipica modalità serriana di vivere il lavoro come una condizione dello spirito, profondamente sentito ma sempre fuori dal tempo della cronaca, e dalle nuove concrete mansioni che l’impiego intellettuale ormai richiedeva. Un testo fra i suoi più celebrati è ispirato dalla Biblioteca e dal pathos del tempo che essa trasmetteva: «Le lotte antiche tacevano da secoli. Le definizioni della povertà e della regola, che avevano avuto già potere di dividere il mondo, non avevano più significato per nessuno; le ribellioni e i dissidi e le minacce degli ordini mendicanti, composte nella grande ricostruzione della Chiesa dopo il concilio di Trento, restavano solo oggetto della storia e dell’apologetica [...]. Invece son passati gli anni e l’ombra di Michelino ha dovuto essere svegliata da un irrequieto professore di filosofia» (Fra’ Michelino, 1911, in Scritti..., cit., II, pp. 454-456).
L’anacronia fu un’altra sua peculiarità. Una cifra della critica, e della mente. Guardare il presente da lontano, senza aderirvi. Con qualche rara tentazione di attualità militante, come il progetto, con Ambrosini, della rivista Neoteroi, nel 1910, forse destinato al torinese Bocca, subito rientrato per indisponibilità dell’editore. E tuttavia gran lettore di stampa periodica e giornaliera, interessato al legame fra giornalismo, nuova critica e letteratura (Di D’Annunzio e di due giornalisti, 1910, giornalisti-critici, Giuseppe Antonio Borgese e Rastignac, in Scritti..., cit., II, pp. 373-401), abituale commentatore di Il Cittadino, diretto da Nazzareno Trovanelli, come se al cuore della biblioteca senza tempo si aprisse un’oasi del presente, l’edicola-emeroteca, per i discorsi e le polemiche dell’oggi.
Numerosi furono inoltre gli inviti a collaborare ad alcune testate nazionali (Mario Missiroli per Il Resto del Carlino, Mario Borsa per Il Secolo di Milano), lasciati cadere, senza che mai venisse meno un genuino interesse critico per la stampa, la sua storia e la sua evoluzione (Contorbia, in Tra provincia ed Europa..., 1984). Interesse e competenza trasmessi ad Ambrosini, a sua volta giornalista autorevole (La Stampa di Torino) e storico del giornalismo italiano.
La biblioteca gli diede con la serenità stanziale, un albero che metteva radici, sicuramente l’agio indispensabile per leggere i suoi autori antichi (liberamente per otia, senza praticità di scopi, in agello cum libello), per accostarsi ad alcune voci della modernità.
Dapprima pubblicò sulla già ricordata rivista La Romagna, diretta da Gaetano Gasperoni (una «sepoltura», ebbe a giudicarla in una lettera del 10 giugno 1911 a Giuseppe De Robertis, per la nessuna visibilità che accordava ai collaboratori, ma la madre era contenta, e tanto gli bastava); poi approdò nel 1910, con l’articolo Carducci e Croce (tratto dal già citato Per un catalogo), alla Voce, ammiraglia della giovane intellettualità italiana (1908-14), diretta da Giuseppe Prezzolini, ma fu una collaborazione che sembrò quasi estorta, un prestarsi episodicamente, lateralmente o antagonisticamente, poiché non condivise, nonostante alcune interpretazioni correnti lo diano vociano (o al vocianesimo afferente), non sposò la poetica e la politica del vocianesimo, pur con qualche raro momento di affinità elettiva (nei mesi prossimi alla guerra, influenzati anche dal ‘vociano’ Romain Rolland e dal romanzo autobiografico Jean-Christophe).
Serra, pur con qualche tratto di inquieta amicizia con Prezzolini, Giovanni Papini, Emilio Cecchi, Ardengo Soffici, un dichiarato fastidio per il moralismo di Gaetano Salvemini e Piero Jahier, e quasi inimicizia, ma dalla sola parte di Giovanni Boine, fu ostile all’avanguardia storica, né poteva essere altrimenti per un bibliotecario classicista, persuaso che nell’arte letteraria ormai tutto era accaduto, che la grandezza si sarebbe declinata per i moderni solo come rimembranza e assenza di un dio fuggitivo.
Il suo legame con la seconda Voce (1914-16) fu l’amicizia con De Robertis, la corrispondenza con il quale ebbe inizio nel 1911 (Biondi, 1995). I suoi autori furono, se si guarda agli Scritti critici, stampati il 30 dicembre 1910, alcune voci del tempo, fra poesia, cultura critico-storica e narrativa locale: Giovanni Pascoli, Antonio Beltramelli, Carducci e Croce. In occasione dell’uscita del libro, Serra incontrò Prezzolini a Firenze fra il 23 e il 27 aprile 1914, con la promessa di pubblicare una seconda raccolta di scritti letterari presso la Libreria della Voce, che si sarebbe intitolata Carducciana, libro ancora ipotetico annunciato nella Voce del 13 ottobre 1914, sottotitolo Scritti su Carducci, Severino Ferrari, Alfredo Panzini, ribadendosi così la struttura ternaria, a tre sezioni, dei primi (e unici) Scritti.
Carducciana fu tra le incompiute serriane, ma intenzionalmente avrebbe sistemato saggi già composti: il già ricordato Severino Ferrari e Alfredo Panzini (La Romagna, VII (1910), maggio-giugno, pp. 177-212). Con l’aggiunta, nella sezione propriamente carducciana, dell’orazione nota come Commemorazione di Giosuè Carducci, letta nel teatro comunale di Cesena la sera di sabato 21 marzo 1914, seguita dalla lettura delle poesie Cipressi (Davanti San Guido), Canto di marzo, la Chiesa di Polenta, La canzone di Legnano, e forse il Jaufré Rudel. Una Commemorazione di Giovanni Pascoli salutò e pianse la dipartita del poeta sammaurese nello stesso teatro il 20 aprile 1912.
Serra dei discorsi, pubbliche orazioni e manifesti ufficiali per varie ricorrenze (per Giuseppe Verdi e Richard Wagner, accomunati nel 1913) volle essere il critico prestatosi all’eloquenza civica, al servizio di intellettuale del Comune, come deontologia politica e sociale. Un numero abbondante di pagine, prove e riprove di assaggi testuali e interpretazioni, toccò ad Alfredo Oriani, in coppia con Ambrosini (Abbozzo di un saggio su Alfredo Oriani, 1910, mai portato a termine e inedito, in Scritti..., cit., II, pp. 289-372; Romanzi di Oriani. Iuvenilia, 1913, ibid., pp. 273-288). Il 1913 vide la celere stesura di un saggio-sintesi di storia letteraria sul presente: Le lettere, un volumetto di 185 pagine, che si tende oggi a valutare come il suo capolavoro critico (Uno sguardo d’insieme, D’Annunzio, Versi, Prosa, Benedetto Croce, Critica letteraria), edito da C.A. Bontempelli (Roma 1914). Periodo di un fervore quasi presago, se ancora nel 1914 scrisse un saggio, lettura di un testo poetico e frammento di autobiografia sentimentale, agli antipodi formali dell’ironico e distante referto delle Lettere: il Ringraziamento a una ballata di Paul Fort (in La Voce, VI (1914), 12, in Scritti..., cit., I, pp. 203-236), pura scheggia di amoroso tormento, trasposta in scrittura critica sul poeta francese.
Fra gli eventi che segnarono a fondo la sua vita, fu la tragica fine del padre, che gli dettò un primo esame di coscienza sulla morte. La vita sentimentale, mossa e vieppiù delusa negli ultimi anni, sempre inesaudita, fu carica di turbamenti per l’arduo e osteggiato legame con Fides Galbucci (nata a Macerata il 7 luglio 1890): «Mi frugavi e m’incendiavi tutto con quel lampo, e già eri scorsa lontana come una saetta che ferisce e vola» (Serra a Fides, 11-12 agosto 1913, in Lettere a Fides..., a cura di R. Turci, 2001, p. 113). Oggi qualche dubbio permane sull’identità di questa figura, nell’ipotesi che le lettere siano indirizzate a un’altra donna.
La guerra fu la grande passione epocale, e l’occasione storica battezzata nell’Esame di coscienza come destino, di un’esistenza e, in quella, dello stesso esercizio di scrittura critica, dalla letteratura deversata in storia. La guerra di Libia dettò Partenza di un gruppo di soldati per la Libia (1912), un inedito passato tra le mani di Croce e Ambrosini, sulla cui integrità, in assenza di un autografo e senza verifiche di sorta, qualche perplessità resta oggi agli interpreti.
Testo trascinante, scritto di getto, fondante anche con una matrice tolstojana, un agnosticismo storiografico mai dismesso: «ci alziamo sulle punte dei piedi e allunghiamo il collo per osservare il caricamento. Ancora una colonna di soldati che parte per la Libia. [...] e tutto quello che c’è da fare si farà; e le grandi forze degli uomini, l’ira e il dolore e la morte, arriveranno come un turbine non avvertito e se ne andranno senza esser conosciute. E così sarà fatta la guerra. E la gloria. E la storia» (Scritti filosofici, a cura di J. Sisco, 2011, p. 311).
In una lettera a De Robertis, datata 14 giugno 1914, trovava eco quella che Serra chiamò «rivoluzione senza saperlo» (Epistolario..., cit., p. 502), la «Settimana rossa», a qualche propaggine della quale assisté in una Cesena descritta come un alveare impazzito. Mentre la guerra mondiale, scrutata dapprima sul fronte francese – l’ultimo Serra fu pregno di cultura francese che segnò un ritorno alla poesia, ad Arthur Rimbaud e a Paul Fort –, fu anticipata sul fronte nazionale da quello che può essere descritto analogicamente come un vasto editoriale, che raccolse le polemiche e le discussioni di nove mesi di battaglie verbali, fra interventisti e neutralisti. Il compendio di un anno fu l’Esame di coscienza di un letterato, una delle scritture capitali di quella generazione, apparsa nella Voce il 30 aprile 1915. Altro documento di interventismo militante fu la partecipazione come presentatore, in qualità di vicepresidente della sezione cesenate della Dante, alla Conferenza Battisti, oratore Cesare Battisti, fra incidenti e interruzioni di socialisti e anarchici (Cesena, teatro comunale, 14 gennaio 1915; a stampa su Il Cittadino, 17 gennaio 1915).
Pur potendolo, per cause di forza maggiore, evitare – licenza di convalescenza ottenuta il 4 giugno per 30 giorni dopo l’incidente automobilistico di Latisana del 16 maggio 1915, 4 luglio visita di controllo presso la Commissione medica di Ravenna – Serra nulla fece per evitare il fronte, sebbene, date le sue condizioni fisiche, ne avesse la possibilità: posizione raggiunta il 6 luglio, appena in tempo per rendersi conto della gran macchina militare che arrancava nel fango dei camminamenti.
Morì sul Podgora (Monte Calvario, località Vallone dell’Acqua), tenente di complemento nel 9° reggimento fanteria, brigata Casale, 4ª compagnia, nella seconda battaglia dell’Isonzo, il 20 luglio 1915.
«Serra farà una fine anonima. Asserragliato con i suoi uomini e con altre compagnie in un camminamento fra la prima e la seconda linea austriaca cadrà fulminato dalla fucilata di un cecchino e cadrà senza un gemito» (Pedrelli, 2006, p. 159). Ad annunciarne la morte alla madre, il 26 luglio, fu il dottor Ettore Venturoli, medico dell’ospedale militare di Cesena. Il suo corpo, riesumato dalla fossa provvisoria da Aldo Spallicci, ufficiale medico, fu sepolto nel cimitero militare di Mossa e trasferito nella tomba di famiglia, presso il cimitero urbano di Cesena, il 24 luglio 1921, orazioni funebri di Innocenzo Cappa e Ubaldo Comandini.
Il Diario di trincea, inedito e parzialmente pubblicato da Ambrosini fra tagli e censure solo nel 1917, per critiche mosse ai comandi, impreparati e confusi in quei primi giorni di trincea, e lezione integralmente restaurata da Cino Pedrelli nel 2004, è l’ultimo alto profilo testamentario di uno degli intellettuali che più a fondo rappresentò, e individualmente scontò, il dramma della generazione del Quindici. Nel Diario sentimentale della guerra, alla data del 20 luglio, coeva alla morte, Alfredo Panzini scrisse: «Renato Serra dove sarà? Sarà? È? Molti i nostri morti.» Da Panzini venne il compianto più struggente di quella morte, simbolica della giovane ecatombe che fu la Grande Guerra, un immenso sacrificio di Abramo: «All’annunzio della sua morte, io sono fuggito lungo la riva del mare [...]. Ora le onde del mare buttano davanti a me, su la spiaggia, il tuo corpo bianco, naufrago di un immenso naufragio» (Diario sentimentale della guerra dal maggio 1915 al novembre 1918, Milano-Roma 1924, pp. 61 s.).
Opere. Le principali edizioni serriane e raccolte di scritti: Epistolario di Renato Serra, a cura di L. Ambrosini - G. De Robertis - A. Grilli, Firenze 1934 (2ª ed. 1953); Scritti di Renato Serra, a cura di G. De Robertis - A. Grilli, I-II (Scritti I e Scritti II), Firenze 1938 (2ª ed. 1958); Lettere a Fides. “Saetta che ferisce e vola”, a cura di R. Turci, Firenze 2001. Fra le scelte antologiche, Scritti letterari morali e politici. Saggi e articoli dal 1900 al 1915, a cura di M. Isnenghi, Torino 1974; Le lettere la storia. Antologia degli scritti, a cura di M. Biondi, Cesena 2005.
Vi sono, poi, le tre edizioni critiche uscite nella Edizione nazionale degli scritti: Scritti critici, a cura di I. Ciani, Roma 1990; Carducciana, a cura di I. Ciani, Bologna 1997; Scritti filosofici, a cura di J. Sisco, VII, Bologna 2011. Si veda inoltre l’edizione critica dell’Esame di coscienza, Carte Rolland, Diario di trincea, a cura di M. Biondi - R. Greggi, Roma 2015 (il manoscritto dell’Esame di coscienza, formato da 49 carte numerate da Serra, pp. 13-123, riprodotto integralmente in questa edizione, è conservato presso la Biblioteca Malatestiana: Nota al testo, pp. 3-12).
Fonti e Bibl.: Le Carte Serra sono conservate a Cesena, Biblioteca comunale Malatestiana, Archivio Serra: v. Il Fondo «Renato Serra» della Biblioteca Malatestiana di Cesena, a cura di M. Ricci, premessa di R. Cremante, Roma 2005. La bibliografia della critica è registrata in Bibliografia su R. S. (1909-2005), a cura di D. Pieri, saggio introduttivo di M. Biondi, Roma 2005. Si vedano inoltre: Scritti in onore di R. S., Milano 1948; A. Grilli, Tempo di S., Firenze 1961; E. Raimondi, Il lettore di provincia, Firenze 1964 (nuova ed. Bologna 1993); Scritti in onore di R. S. per il cinquantenario della morte, Firenze 1974; Tra provincia ed Europa. R. S. e il problema dell’intellettuale moderno, a cura di F. Curi, Bologna 1984 (in partic. F. Contorbia, S. e «Il Cittadino»); M. Biondi, R. S. Biografia dell’ultimo anno nel carteggio con Giuseppe De Robertis, Santarcangelo di Romagna 1995; V. Talentoni, Vita di R. S., introd. di M. Biondi, Ravenna 1996; M. Biondi, La cultura cesenate dal Settecento al Novecento. Il tempo di R. S., in Storia di Cesena, La cultura, II, a cura di B. Dradi Maraldi, Rimini 2005; C. Pedrelli, Pagine sparse per R. S. 1970-2004, a cura di R. Greggi, con un saggio introduttivo di M. Biondi, Roma 2006; M. Biondi, R. S. Storia e storiografia della critica, Roma 2008; R. S. Mio carissimo. Carteggio con Luigi Ambrosini, a cura e con uno scritto di A. Menetti, Parma 2009; M. Biondi, R. S. La critica, la vita, Roma 2012; Studi cesenati per R. S., a cura di M. Biondi et al., saggio introduttivo di M. Biondi, Cesena 2017.