GIORDANO, Renato
Nacque a Napoli il 3 marzo 1926 da Vincenzo, chirurgo, e Maria Marchitto.
Cominciò a svolgere attività politica e giornalistica nell'ottobre del 1943, dopo la liberazione di Napoli. Membro del Partito d'azione, collaborò con il direttore dell'Azione, organo del partito a Napoli, G. Dorso, che esercitò una grande influenza sul gruppo di giovani azionisti di cui facevano parte anche G. Macera e V. De Caprariis.
Schierato con la destra del partito, ne uscì dopo il congresso del febbraio 1946; partecipò allora alla concentrazione democratica e repubblicana di F. Parri e U. La Malfa con altri ex azionisti napoletani, quali F. Caracciolo e A. Omodeo, ed ex liberali come F. Compagna. Lo scacco politico della concentrazione spinse il G. ad abbandonare momentaneamente la politica e il giornalismo per dedicarsi agli studi.
Si laureò in giurisprudenza nel 1946 con una tesi su "Il governo parlamentare in Italia". L'anno successivo ottenne una borsa di studio all'Istituto italiano di studi storici appena fondato da B. Croce. Ottenuta, nel 1949-50, una delle borse Fulbright, studiò storia costituzionale degli Stati Uniti alla Princeton University. Rientrato in Italia, riprese l'attività giornalistica.
Il gruppo di giovani intellettuali napoletani di cui faceva parte il G. voleva infatti concretare la presenza di una corrente meridionalista della sinistra democratica per arginare l'influenza crescente del partito comunista, in campo politico come in campo culturale. L'influenza e il magistero intellettuale di Croce e di F. Chabod e diversi incontri con A. Spinelli determinarono il suo fervido impegno a favore di un federalismo europeo.
Nel 1950 il G. divenne redattore capo de Il Mattino d'Italia, quotidiano fondato da I.M. Lombardo, dove si occupò soprattutto di politica internazionale come inviato in Gran Bretagna, in Francia e negli Stati Uniti; poté così stabilire una serie di contatti con rappresentanti di rilievo del mondo politico e giornalistico europeo e statunitense. L'esperienza del giornale non durò molto; fu breve anche la permanenza nel partito liberale, dove il G., per volontà di Croce, era rientrato con Compagna e De Caprariis (1951). Il piccolo gruppo dei "radicali napoletani" si avvicinò invece a Il Mondo di M. Pannunzio, cui tutti collaborarono con una certa continuità. Dovendo scegliere tra la carriera universitaria e la partecipazione all'avventura europeista, il G. non esitò a seguire questa seconda strada.
Collaborò alla rivista del Movimento federalista europeo italiano, quindi, nel 1952, Spinelli lo raccomandò a J. Monnet, allora presidente dell'Alta Autorità della Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA) come addetto all'Ufficio stampa e informazioni della nascente comunità: il G. rimase quindi per tre anni nel Lussemburgo. Dopo il fallimento della Comunità europea di difesa, quando Monnet, nel 1955, decise di creare il Comitato d'azione per gli Stati Uniti d'Europa, onde rilanciare le iniziative europeiste, il G. fu mandato a Roma, dove divenne, secondo l'espressione di Spinelli, l'"occhio di Monnet" in Italia. Di fatto il G. informava con regolarità Monnet circa gli sviluppi della politica interna ed estera italiana e, al contempo, chiariva e difendeva su diversi organi di stampa (Il Mondo economico, Il Mulino, La Voce repubblicana, 24 Ore ecc.) l'azione del comitato a favore dell'attuazione di strutture federali sopranazionali che controllassero l'energia, l'economia, la ricerca.
Il G. riteneva che esistesse uno stretto legame tra l'integrazione europea e la questione meridionale in quanto quest'ultima poteva essere realmente risolta soltanto da una struttura economica sopranazionale. Partecipò, quindi, nel 1954, alla creazione di Nord e Sud, rivista meridionalista liberale di ispirazione salveminiana, diretta da Compagna, nella quale apparvero molti suoi articoli sulla costruzione dell'unità europea. Non poté invece realizzare il suo progetto di un istituto postuniversitario per lo studio del rapporto tra integrazione economica e aree depresse.
Il G. morì infatti a Napoli il 4 genn. 1960.
Numerose sono le pubblicazioni del G., riguardanti la politica estera americana e sovietica e la costruzione europea, gli articoli teorici più importanti sono comparsi su Il Mondo economico, Il Mulino, Nord e Sud e La Voce repubblicana. Si vedano anche i suoi volumi: Europa senza dogane. I produttori italiani hanno scelto l'Europa (con G. Bergman, A. De Vita e altri, Bari 1956); Il Mercato comune e i suoi problemi (Roma 1958) e La nuova frontiera. La coalizione occidentale e la politica di potenza (Bologna 1959).
Quest'ultimo, in particolare, raccoglie e sintetizza le sue idee circa l'America, l'Europa e le principali questioni di politica internazionale: per il G. gli Stati Uniti non solo potevano esercitare la spinta necessaria per realizzare l'unità europea, senza la quale avrebbe trionfato la naturale tendenza centrifuga, ma rappresentavano anche un modello costituzionale federalista d'equilibrio tra una imprescindibile politica di potenza e l'affermazione delle libertà democratiche nonché un modello di sviluppo economico. In particolare la politica meridionale italiana doveva, a suo parere, ispirarsi al New Deal di F.D. Roosevelt, "la più profonda rivoluzione economico-sociale della nostra epoca" (La nuova frontiera, p. 49).
Inoltre, secondo il G., l'Alleanza atlantica, comunque necessaria, non doveva tuttavia nascondere che la costruzione di una nuova Europa unificata era destinata a equilibrare il confronto tra i due giganti americano e sovietico e che si dovevano, quindi, potenziare le forze militari europee. Il G. fu di conseguenza un sostenitore accanito della Comunità europea di difesa, che tentò di promuovere, tra il 1952 e il 1954, negli ambienti intellettuali e giornalistici. Riteneva inoltre che la comunità europea dovesse risolvere i problemi della ricostruzione economica e delle rivalità europee nella produzione industriale, problemi cui soltanto la CECA poteva ovviare grazie alla sua autorità sovranazionale.
Nel pensiero del G. l'Europa aveva una triplice funzione politica nei riguardi dell'Italia. In primo luogo, l'unità europea avrebbe offerto nuove prospettive politiche (istituzionali e amministrative) e rappresentato un'occasione storica per rinnovare il ceto politico italiano, immobile o prigioniero di lotte bizantine. In secondo luogo, l'Europa poteva contribuire alla risoluzione della questione sociale favorendo, con l'allargamento dei mercati, l'innalzamento del livello di vita e limitando, di conseguenza, le possibilità d'azione del partito comunista. Infine, l'Europa offriva ai giovani italiani un ideale - quello di realizzare l'unità politica ed economica del continente - in grado di sostituire quelli degli intellettuali terzaforzisti, neutralisti o tentati dal comunismo. L'Europa, quindi, rappresentava l'occasione, per le élites intellettuali liberali, di ritrovare un ruolo e un'importanza da tempo perduti.
Nella prospettiva espressa e caldeggiata dal G., l'Europa avrebbe dovuto provvedere, inoltre, allo sviluppo economico delle aree depresse, fra cui il Mezzogiorno. I bisogni di quest'ultimo, a suo parere, erano infatti poco o male soddisfatti dalla Cassa per il Mezzogiorno, voluta dal governo italiano; al riguardo il G. non nascondeva il timore che la povertà strutturale del Meridione e l'affievolirsi dell'impegno europeista in Italia favorissero il rafforzamento del partito comunista, il decadimento del paese e una sua balcanizzazione, se non la sua "orientalizzazione". E proprio da questa specifica angolazione il G., dopo il 1954, aveva attaccato la nuova politica estera italiana, il neoatlantismo di A. Fanfani e la strategia di E. Mattei, attenta soprattutto al bacino mediterraneo e in particolare alle ex colonie francesi o britanniche (si veda in proposito la corrispondenza scambiata con Monnet). A suo parere perciò il Mercato comune europeo non poteva essere concepito come una mera unione doganale, ma doveva costituire una comunità che disponesse di fondi speciali per le aree depresse (fondo sociale, banca degli investimenti) e pertanto di un'autorità sovranazionale, dotata di un minimo di competenze. Il G. aveva, perciò, aderito alla politica d'integrazione settoriale di Monnet, rifiutando la zona di libero scambio voluta dagli Inglesi, e rimase sempre scettico nei confronti del progetto costituzionalista di Spinelli. Riteneva, infatti, che la politica di integrazione avrebbe permesso al partito socialista di staccarsi dai comunisti e avrebbe favorito, quindi, la formazione di un governo di centrosinistra.
Fonti e Bibl.: Necr. in Comunità europea, VI (1960), 1, p. 2; Nord e Sud, VII (1960), 2, pp. 3-13 (poi in F. Compagna, Il meridionalismo liberale, Napoli 1975, pp. 57-71); a Napoli presso il prof. G.G. Giordano sono conservate carte del G. (lettere e documenti inviati a J. Monnet e collaboratori); Losanna, Fondation J. Monnet pour les études européennes, Archives de la Communauté européenne du charbon et de l'acier; Archives du Comité d'action pour les États-Unis d'Europe, dossier Giordano (lettere a Monnet e ai suoi collaboratori pubblicate in R. Giordano, La formazione dell'Europa comunitaria. Lettere a J. Monnet 1955-1959, a cura di F. Attal, Manduria 1997); Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, fascicolo relativo alla canditatura del G. per una borsa di studio (1947-48); G. Dorso, Carteggio 1908-1947, a cura di B. Ucci, Avellino 1992, ad indicem. Vedi anche Nord e Sud, VII (1960), 12 (numero speciale dedicato al G. con articoli, fra gli altri, di J. Monnet e U. La Malfa); E. Decleva, Un difficile adattamento: la pubblicistica liberal-democratica italiana e la realtà internazionale (1945-1949), e Integrazione europea e "Iniziativa privata". Gli ambienti economici milanesi e la nascita del Mec (1955-1957), in L'Italia e la politica di potenza in Europa (1950-1960), a cura di E. Di Nolfo - R.H. Rainero - B. Vigezzi, Milano 1992, pp. 371-390, 439-480; M.G. Melchionni, Altiero Spinelli et Jean Monnet, Lausanne 1993, passim.