CAROSONE, Renato
Nacque a Napoli il 3 gennaio 1920, primogenito di Antonio Carusone (il cognome della famiglia variava per errori anagrafici) e Carolina Daino. Il padre, impiegato al botteghino del teatro Mercadante, e la madre, casalinga, dopo il matrimonio (3 aprile 1919) si erano stabiliti in vico dei Tornieri, tra le popolari via Marina e piazza Mercato e di qui in Vico Santa Maria Apparente, dove vennero alla luce, oltre a Renato, gli altri tre figli della coppia: Olga nel 1921, Ottavio nel 1922, Maria nel 1924, morta di morbillo a quindici mesi.
Il padre, appassionato di musica, possedeva un mandolino Vinaccia che suonava nel tempo libero. In casa c’era anche un pianoforte verticale (uno strumento di fabbricazione francese, nei ricordi di Renato dono di nozze della famiglia materna), col quale Antonio accompagnava la moglie al canto. Le canzoni napoletane costituivano il repertorio preferito, spesso eseguite con la partecipazione dei figli.
Nel 1927 Carolina, trentatreenne, morì di tubercolosi. Fu allora che Renato, per volontà del padre, cominciò lo studio del pianoforte. Suo primo maestro fu Orfeo Albanese (fratello del soprano Lucia), conosciuto da Antonio al Mercadante. Dopo qualche anno, prima di emigrare per l’Argentina, Albanese affidò il bimbo all’anziano Vincenzo Romaniello, tra i maggiori didatti della città. Morto questi nel 1932, la formazione proseguì infine con una delle sue migliori allieve, Celeste Capuana (sorella di Franco, direttore d’orchestra).
Intorno al 1933 Antonio perse la sua occupazione in seguito alla chiusura del Mercadante per restauro. Senza più moglie né reddito, stentava a garantire finanche pasti regolari ai tre figli. Per sostenere l’economia famigliare, Renato decise di mettere a frutto le doti di giovane pianista (apparve da subito portato per lo strumento e aveva già composto un primo pezzo, Tricche tracche). Lasciò al secondo anno l’istituto tecnico commerciale e cominciò a frequentare la galleria Umberto I, storico ritrovo di artisti e impresari cittadini. Nel 1934, dopo una deludente esperienza in un’improvvisata compagnia d’avanspettacolo di tal Gegè Maggio, il giovane Carosone ottenne il primo lavoro. Fu assunto al teatrino di marionette di Ciro Perna, detto ’o scudiero, per accompagnare al pianoforte le avventure dei vari Carlo Magno, Orlando e Rinaldo. La paga era dignitosa (quattro lire a sera, cinque dopo un anno) per un compito poco stimolante (la costante ripetizione di brani tratti da Guglielmo Tell, Aida e Carmen), tuttavia utile alla scoperta del valore degli effetti sonori poi così spesso impiegati nella maturità. All’‘opera dei pupi’ fu soprannominato ’o maestrino, per la consuetudine d’intrattenere il pubblico durante gli intervalli rileggendo alla tastiera le canzoni più in voga del momento.
A inizio 1937 fu scritturato come ripassatore dalla casa editrice di E.A. Mario (già celebre per La leggenda del Piave e Santa Lucia luntana). Per cinque lire al giorno, in uno studietto ai Quartieri spagnoli ‘ripassava’ al pianoforte le nuove canzoni dell’editore, cioè le faceva ascoltare ai cantanti che le dovevano lanciare. Apprese in questo modo peculiarità e tratti idiomatici della canzone napoletana, acquisendo anche in tale circostanza fruttuose conoscenze.
Sempre nel 1937 conseguì da privatista il diploma di pianoforte al conservatorio S. Pietro a Majella: a motivare lo studio formale dello strumento, prima ancora dell’ambizione di diventare un artista riconosciuto, la volontà di distinguersi dai tanti mestieranti e musicisti improvvisati che affollavano l’ambiente partenopeo della canzone.
Col nuovo lavoro ai Quartieri spagnoli ripresero le frequentazioni della vicina galleria Umberto I, dove un capocomico, Aldo Russo, cercava da qualche tempo un pianista e direttore d’orchestra per una serie di spettacoli della sua compagnia a Massaua, in Eritrea (la posizione era ancora scoperta per il timore delle malattie tropicali). Dopo un buon provino Carosone ottenne la scrittura, ma dovette prima superare le resistenze del padre, spaventato tanto dai contagi quanto dall’eccessiva lontananza (decisiva a tal fine l’ottima retribuzione: centoventi lire a spettacolo, oltre a vitto e alloggio). Stipulato il contratto presso la Federazione fascista, a fine luglio 1937 Carosone s’imbarcò al molo Beverello sul piroscafo Tevere.
Giunse in Africa il 7 agosto, entusiasta per l’avvio di una nuova fase della propria vita e preoccupato solo dell’inedito ruolo di pianista-arrangiatore. Dopo qualche giorno di prove con cinque orchestrali reclutati tra lavoratori della colonia italiana, iniziarono gli spettacoli nel locale procurato da Russo, nient’altro che un ristorante-teatro frequentato da trasportatori del nord Italia (Da Mario, dal nome del proprietario Mario Auritano). Il basso gradimento della compagnia, che cantava e recitava solo in napoletano, portò al suo rapido scioglimento; ma Carosone, per nulla intenzionato a interrompere la nuova avventura, si trasferì ad Asmara, dove un’orchestra necessitava di un pianista. Fu ingaggiato alle medesime condizioni del precedente contratto, il che gli permise di farsi raggiungere dalla famiglia. La tranquillità economica, del resto, sembrava garantita dalle tante possibilità professionali di un territorio ricco di sale da ballo. Ne colse egli stesso una vantaggiosa nel 1939, quando un noto locale di Addis Abeba (Aquila bianca) lo chiamò a dirigere la sua orchestrina. Ma il conflitto mondiale era sul punto di sconvolgere il destino degli italiani d’Africa.
A seguito della dichiarazione di guerra a Francia e Inghilterra del 10 giugno 1940, Carosone dovette arruolarsi nel terzo battaglione granatieri di stanza nella capitale etiopica. Grazie a un conoscente capo furiere ottenne la mansione di dattilografo, posizione che sfruttò per disertare subito dopo la caduta di Addis Abeba per mano inglese il 5 maggio 1941 (si allontanò dalla caserma utilizzando la carta intestata della propria compagnia per auto-spedirsi in missione). Per sopravvivere, riprese la sua attività di pianista; e con gli Alleati in cerca di strumentisti da impiegare nei locali frequentati dalle truppe, imparò a eseguire musica da ballo americana: il fatto fu decisivo ai fini della futura carriera.
Quando si fecero frequenti le rappresaglie contro gli ex coloni, Carosone fece ritorno ad Asmara, dove un cugino era diventato direttore del teatro Odeon. Il viaggio, affrontato con documenti falsi a bordo di un camion di un connazionale, durò dieci giorni, rivelandosi un percorso a ostacoli tra posti di blocco e bande di guerriglieri in conflitto (rischiò l’arresto nei pressi di Dessiè). Frattanto il padre e la sorella erano stati rimpatriati dalla Croce rossa, mentre il fratello, catturato dagli inglesi, rimase prigioniero per sette anni.
Per qualche anno Carosone suonò stabilmente nel night-club annesso all’Odeon, specializzandosi in personali arrangiamenti di brani quali Tea for two, Stardust, Night and day, Begin the beguine, Blue moon, Chicago, il genere di musica richiesto dai clienti del locale, soprattutto militari delle forze alleate. Incontrò lì la donna che divenne sua moglie, la veneziana Italia Levidi, di due anni più grande. Lita (questo il nomignolo) era prima ballerina all’Odeon e madre dell’unico figlio del musicista, Giuseppe (Pino, nato nel 1938).
Con la nuova famiglia Carosone lasciò l’Africa il 28 luglio 1946 a bordo del piroscafo Dorothea Paxos. Tornò a Napoli per il desiderio di costruire, in patria, una carriera conciliabile con la sua nuova condizione di marito e genitore. Ormai esperto di ritmi americani, non faticò a reinserirsi nel circuito musicale di una città invasa da soldati statunitensi. Suonò a cottimo in vari gruppi di musica da ballo, prima di dar vita a una propria band, il Trio Renato Carosone (esordì il 28 ottobre 1949 per l’inaugurazione di un locale nei pressi del lungomare, lo Shaker). Con lui alla tastiera c’erano la chitarra e la voce poliglotta di un olandese, Peter Van Wood (poi astrologo e personaggio televisivo), e la batteria dello stravagante Gegè Di Giacomo, nipote del poeta Salvatore. In repertorio ballabili d’oltreoceano (rumba, mambo, samba e tanto jazz), canzoni italiane e napoletane pure trasformate in ballabili da riletture swing (Papaveri e papere, Scalinatella, Anema e core, Luna rossa), prime composizioni originali (Ho giocato tre numeri al lotto, Samba del pensamiento, Cocoricò; quest’ultima già interpretata con buona riuscita da Nilla Pizzi nel 1948). La gran parte di questa musica fu incisa, dopo il no della Fonit Cetra, dall’etichetta discografica Pathé, con cui Carosone collaborò dal 1950 grazie all’interessamento di Sergio Bruni (il rapporto durò un decennio, con oltre cento dischi tra 78, 45 e 33 giri; per la cospicua discografia carosoniana cfr. Vacalebre, 2011, pp. 223-248).
La partecipazione al concorso radiofonico RAI La bacchetta d’oro Pezziol (1950, l’anno in cui morì il padre cinquantottenne) fece conoscere il Trio al di fuori di Napoli. Gli ingaggi, anche di locali prestigiosi, fioccarono: l’Open Gate di Roma, inaugurato nel 1951 alla presenza di Elisabetta d’Inghilterra e Filippo d’Edimburgo; il caprese La canzone del mare, della cantante inglese Gracie Fields; il Caprice di Milano, il cui gestore richiese però una formazione più ampia. Da allora il Trio divenne Quartetto (1953), poi Sestetto (1956): dopo l’abbandono di Van Wood (che proseguì da solista) e alcuni avvicendamenti, intorno a Carosone e Di Giacomo si stabilizzò il gruppo con Piero Giorgetti (voce), Raf Montrasio (chitarra), Gianni Tozzi e Toni Grottola (fiati).
Le lunghe serate ai night-club erano riempite con una gran varietà di pezzi: napoletani (classici come ’E spingole frangese o successi coevi come Scapricciatiello, già interpretata da Aurelio Fierro, Io, mammeta e tu e Lazzarella di Domenico Modugno; e ancora Malafemmena, Chella llà, T’è piaciuta), italiani (Vola colomba, Il piccolo montanaro, Il pericolo n. 1), internazionali (Johnny guitar, Rock around the clock, Music, music, music!, These foolish things, Mister Sandman, Ciel de Paris, C’est magnifique, Que sera, sera). Il pubblico era colpito soprattutto dall’estrosità delle interpretazioni, dalla capacità di riproporre brani noti in vesti sonore diverse grazie ad arrangiamenti à la page. Pezzi forti divennero le parodie di canzoni (la loro versione di E la barca tornò sola fu più nota dell’originale), rese irresistibili dai travestimenti e dalle bizzarre improvvisazioni di Di Giacomo, degno erede della tradizione macchiettistica (suo il motto Cantanapoli che dava avvio alle esecuzioni). Il carisma delle prestazioni dal vivo, che il disco non poteva filtrare del tutto, valse l’invito della RAI all’Orchestra delle quindici, primo programma di musica leggera della neonata TV trasmesso il pomeriggio del 3 gennaio 1954.
Tra i brani composti da Carosone in questa fase, Pianofortissimo (virtuosistico pezzo strumentale del 1955, suo cavallo di battaglia), ’O russo e ’a rossa (1956) e il primo successo, Maruzzella (su testo dialettale di Enzo Bonagura, la canzone fu incisa a fine 1954 nel primo dei sette fortunati 33 giri Carosello Carosone; del 1956 l’omonimo musicarello di Luigi Capuano, con Carosone e Di Giacomo nei panni di sé stessi). Il titolo, nome del personaggio femminile di questa appassionata canzone d’amore, non alludeva a lumache di mare o riccioli (come li si chiamava in napoletano), bensì era un vezzeggiativo usato da Carosone per la moglie.
Se Maruzzella rientrava nel solco della canzone napoletana classica, in particolare per lo stile melodico, più innovative furono le canzoni scritte di lì a poco sui testi del concittadino Nisa, nome d’arte di Nicola Salerno. Questi, già caricaturista di riviste umoristiche, si era affermato come paroliere di brani resi popolari da Alberto Rabagliati, Natalino Otto, Nilla Pizzi, Gina Lollobrigida. La loro collaborazione cominciò nel 1956 per il tramite del responsabile del settore musica leggera della Ricordi, Mariano Rapetti (padre di Giulio, in arte Mogol), che commissionò tre canzoni da inviare a un concorso radiofonico della stessa Ricordi. Uno dei testi di Nisa s’intitolava Tu vuo’ fa’ l’americano (’O suspiro e Buonanotte gli altri due), irridente ritratto del sogno americano di tanti giovani dell’Italia del ‘boom’ (Alberto Sordi aveva impersonato Un americano a Roma nel 1954). La traboccante ironia dei versi ispirò Carosone a tal punto che la musica fu composta in pochi minuti al pianoforte. Inciso a fine 1956, il brano si diffuse presto a livello internazionale (già tradotto nel 1957 da Boris Vian in Tout fonctionne à l’italiano), e ancor oggi è tra quelli più famosi all’estero di autori italiani.
In tempi stretti furono firmati con Nisa altri quattro titoli, insieme a Tu vuo’ fa’ l’americano e Maruzzella la produzione più nota di Carosone: Torero (1957, tradotta in diverse lingue, entrò nella hit parade statunitense), presa in giro a ritmo di cha cha cha di un’altra infatuazione esterofila, alimentata dal matrimonio da rotocalco tra Lucia Bosè e Luis Miguel Dominguín; Pigliate ’na pastiglia (1957, incisa con Torero in Carosello Carosone 6 e nel disco EP Cantanapoli 3) mirava invece alla nascente mania del consumo farmaceutico, col pretesto dell’innamorato affetto da insonnia; Caravan petrol (1958, cominciò probabilmente con l’esecuzione dal vivo di questo brano l’utilizzo di ornamenti in tema, come turbante e binocolo), racconto del surrealistico desiderio di un napoletano che, in piena epoca Mattei, cerca l’oro nero a via Toledo; ’O sarracino (1958, lato B di Caravan petrol in Carosello Carosone 7), ritratto caricaturale del latin lover nostrano sempre abbronzato, la sigaretta pendula tra le labbra. Bonariamente satiriche, queste canzoni appaiono sul piano letterario, col rifarsi al genere della macchietta, più attuali che nuove. L’innovazione fu musicale, effetto della contaminazione tra melodia napoletana e ritmi americani sempre perseguita da Carosone: e in questo si ravvisa una sua primaria eredità d’autore.
L’onda del successo fu cavalcata con due film (Totò, Peppino e le fanatiche, 1958, diretto da Mario Mattoli; Caravan petrol, 1960, al fianco di Nino Taranto, diretto da Mario Amendola) e lunghe tournées che portarono il Sestetto in giro per il mondo. Tra fine 1957 e inizio 1958, dopo aver suonato in alcune capitali europee, la band approdò in America: L’Avana, Caracas e Rio de Janeiro le principali tappe di un tour culminato il 4 e 5 gennaio alla Carnegie Hall di New York. A marzo 1959 concerti in Italia, e in estate tour internazionale in Nord Africa (Marocco, Tunisia, Egitto), Medio Oriente (Libano, Giordania), Sudamerica (Argentina, Cile, Uruguay, Perù e Brasile, dove a San Paolo Carosone si esibì con Marlene Dietrich). Tra aprile e maggio 1960 di nuovo gli Stati Uniti, per esibizioni ancora alla Carnegie Hall e ai popolari Ed Sullivan show e Dinah Shore show (mister simpatia, come lo soprannominarono, fu il terzo italiano ospite della TV statunitense dopo Nilla Pizzi e Domenico Modugno).
Frattanto, il 7 settembre 1959, in una trasmissione televisiva RAI (Serata di gala, condotta da Emma Danieli) Carosone aveva preannunciato il ritiro dall’attività dopo gli ultimi impegni internazionali. Una decisione inattesa, meditata a lungo, presa per ragioni artistiche e personali: «Proprio in America maturai la decisione di ritirarmi. Tra un concerto e l’altro avevo capito che nell’aria c’era una rivoluzione musicale: mi sembrava di sentirla nelle voci dei Platters, ma dietro l’angolo c’era molto di più. Bill Haley aveva già inciso Rock around the clock e il mondo stava per essere sconvolto dal bacino roteante di Elvis Presley, “la creatura più sexy che si sia mai avvicinata a un microfono”. L’Italietta canora era ancora il regno del terzinato, l’ultima moda erano gli urlatori che volevano fare gli americani solo nella scelta del nome d’arte: Tony Dallara, Joe Sentieri, Betty Curtis. Ma anche qui era successo qualcosa che anticipava i nuovi suoni prossimi venturi: nel ’58 Domenico Modugno aveva travolto il festival di Sanremo con Nel blu dipinto di blu. In questo panorama musicale temevo di ritrovarmi superato da un momento all’altro, di essere costretto a inseguire le tendenze, proprio io che avevo anticipato e lanciato tante mode. Ero anche stanco di una vita ingabbiata dalla routine» (Carosone - Vacalebre, 2000, p. 83).
La reazione del pubblico fu di sconcerto; la stampa avanzò ipotesi fantasiose (storie di donne, voti alla Madonna) che indussero Carosone a spiegare le sue motivazioni in un articolo sul settimanale Oggi (24 settembre 1959): «È proprio così, mi sono ‘ritirato’ per questa unica ragione: per scendere dalla ribalta mentre sono ancora vivo, finché la mia faccia non ha ancora incominciato, o m’illudo, ad annoiare. Non si può, credetemi, cantare davanti alle telecamere sapendo che in quel momento qualcuno (un amico, forse) sta spegnendo stizzito il televisore. Non volevo che questo mi accadesse mai […]. Chi si abbarbica al guadagno è finito, non pensa più alla vita né alla famiglia né ad altro che al denaro. È triste. Io voglio essere triste a settant’anni, ma allegro adesso, ecco tutto. Mi riempie di gioia pensare che potrò fare Natale e Pasqua a casa come mi è sempre stato impossibile fino ad oggi […]. Non è stata una decisione improvvisa. Ci pensavo fin da ragazzo. Cominciavo appena a cantare e a suonare in Africa Orientale e già mi dicevo: “Un giorno, potendo, mi ritirerò a vita privata”». (Mollica, 1981, pp. 42 s.).
Dai tempi del Caprice, Carosone si era stabilito a Milano, dove aveva intrapreso l’attività di discografico, sua nuova aspirazione. Fondò un’etichetta con studio di registrazione in via Saffi, la Stereo, che però non ebbe vita lunga: dopo il primo 33 giri del 20 novembre 1958 (Carovana Carosone lettera A) e una decina di 45 giri incisi col Sestetto in poco più di un anno, la produzione andò scemando dal 1960.
Aprì in società un night-club, il Gatto verde, e per qualche tempo investì nel settore edilizio con la costruzione e vendita di appartamenti in via Stromboli.
Nel 1958 l’esigenza di una vita lontana dai riflettori portò la famiglia Carosone a Rota d’Imagna, un paesino di montagna nel bergamasco. Renato cominciò in quel periodo a dipingere, frequentando un corso all’Accademia di Brera. Vi si era iscritto dapprima il figlio, talché per essergli più vicino il musicista scoprì per caso una passione che lo accompagnò per il resto della vita (nel 1993 allestì una mostra di quaranta quadri suoi presso la Casina pompeiana della villa comunale di Napoli).
Ma il pianoforte non fu abbandonato; anzi, in questo periodo Carosone sentì il bisogno di riprendere lo studio dello strumento, per recuperare la tecnica esecutiva dei tempi del diploma. Sul nuovo Steinway si esercitò con Pozzoli, Czerny, Hanon, e riprese Bach, Beethoven, Chopin, Liszt.
Il ritiro tenne lontano dai palcoscenici il musicista senza interromperne l’impegno come autore. Scrisse con Nisa la barcarola Gondolì gondolà, interpretata da Sergio Bruni ed Ernesto Bonino al festival di Sanremo del 1962 (si classificò terza con un buon riscontro discografico). L’anno seguente furono invece deludenti le vendite di due 45 giri con quattro inediti della collaudata coppia: Nera nera, Vita mia, Camping love, Caino e Abele (benché lanciati dalla Ri-Fi Record come «ritorno alla ribalta del popolarissimo cantante musicista dopo quattro anni di inattività»).
Divenne nonno nel 1969 con la nascita di Babline. Pino, ingegnere elettronico che si era formato a Londra, gli diede un secondo nipote nel 1971, Renato. Nel 1973 si trasferì con Lita a Roma, anche per riavvicinarsi a Napoli. Dopo una breve permanenza a Settebagni, la coppia acquistò una villa sul lago di Bracciano, dove rimase fino al 1985.
Il nome di Carosone tornò all’attenzione di pubblico e critica nel 1973, quando Martin Scorsese, per la colonna sonora di Mean streets, scelse Maruzzella e Scapricciatiello (quest’ultima nella versione da night del 1955). Intanto aumentavano le pressioni degli agenti dello spettacolo per un ritorno alla musica dal vivo.
L’impresa di riportare Carosone su un palco, sabato 9 agosto 1975, riuscì a un vecchio amico, Sergio Bernardini, proprietario della Bussola di Marina di Pietrasanta (inaugurata dallo stesso musicista vent’anni prima). L’esitazione iniziale fu vinta tanto dal desiderio di un nuovo incontro col pubblico quanto dall’allettante progetto dell’impresario toscano: una big band di diciannove elementi (con arrangiamenti di Danilo Vaona), telecamere RAI (il concerto fu trasmesso sulla rete nazionale il 30 agosto, col programma Bentornato Carosone presentato dal giovane Claudio Lippi), microfoni dell’emittente radiofonica CBS per la registrazione dal vivo di un 33 giri (Carosone ’75, con le cover e i brani originali più conosciuti dell’artista).
La risposta positiva di pubblico e stampa fu da stimolo a rimanere sulla scena (con un trio completato da Gigi Caglio al basso e Fedele Falconi alla batteria). Il rientro comportò la novità del repertorio ampliato ai pezzi di musica d’arte ripresi durante il ritiro, con cui Carosone tentò di esorcizzare quel fantasma dell’artista ‘superato’ che di tanto in tanto si materializzava nella sua carriera. Ne fu testimonianza il 33 giri Pianofortissimamente (Dischi Ricordi, 1976), che fa ascoltare, in personali elaborazioni non sempre da tutti apprezzate, studi (op. 10 nn. 3 e 12), valzer (op. 42 e 64 n. 1) e la Fantaisie-Impromptu op. 66 di Chopin, uno studio di Liszt (La campanella), pezzi di Rossini (Una voce poco fa dal Barbiere di Siviglia), Clementi (Sonatina op. 36 n. 1) e Richard Addinsell (Concerto di Varsavia). Nello stesso periodo (febbraio 1976) un decreto di Giovanni Leone lo nominò commendatore della Repubblica.
La nuova maniera durò fino ai primi anni Ottanta, quando avvenne l’incontro con l’etichetta discografica Lettera A di Sandrino Aquilani, un industriale del legno del viterbese con la passione per la musica (Carosone vi acquistava il materiale per le sue cornici). Le moderne tecniche d’incisione invogliarono l’artista a rivedere in sala di registrazione i vecchi successi. Al Pomodoro studio nacquero così diversi dischi, tra cui i suoi primi CD, che rappresentarono un’altra forma di rinnovamento.
Il primo della serie, Renato Carosone ’82, conteneva alcuni titoli originali. Le ultime prospettive aperte dall’evoluzione tecnologica stimolarono la composizione di nuove canzoni, che tuttavia rimasero ben distanti dalla popolarità delle prime: Io tengo n’appartamento, C’aimma fa’?, Penelope e Ulisse, Improvvisamente, I magnifici due (omaggio pianistico a Totò e Charlie Chaplin), ’Nu sassofono americano (del 1980 era invece Giochiamo al variété, sigla finale del programma televisivo condotto da Enzo Tortora, L’altra campana, di cui Carosone fu anche responsabile musicale).
La rinascita discografica diede impulso all’attività concertistica, favorita inoltre dall’incontro con Adriano Aragozzini, patron del festival di Sanremo e manager di affermati cantanti. A fine 1982 Carosone attraversò ancora l’oceano: suonò negli Stati Uniti (Madison Square Garden), in Canada (accompagnato dall’Orchestra filarmonica di Toronto) e in diverse città sudamericane. Per alcuni anni si esibì con intensità e costante favore del pubblico, sebbene l’età cominciasse a farsi sentire (scrisse qualche ultima canzone, come Fortuna che se qui, 1987, su testo di Aquilani).
I lunghi tours furono uno dei motivi per cui Carosone rifiutò la proposta RAI di condurre, al fianco di Marisa Laurito, Domenica in del 1988 (l’anno della scomparsa del fratello Ottavio, cui Renato dedicò una sua canzone, Napoli). Gianni Boncompagni lo voleva come intrattenitore musicale che, sulla moda del karaoke, avrebbe dovuto eseguire canzoni a richiesta dell’audience (una sorta di «juke-box umano», come lo stesso artista si era prefigurato; Carosone - Vacalebre, 2000, p. 109). Non ne guadagnò in visibilità, ma a quel punto della carriera Carosone non ritenne di dover recitare un simile ruolo: forse, nella rinunzia, questa ragione pesò più delle tournées.
Sul piccolo schermo comparve l’anno successivo, quando partecipò alla trentanovesima edizione del festival di Sanremo con ’Na canzuncella doce doce (parole e musica di Claudio Mattone). Il brano, molto diverso dai suoi classici per carattere tenero e assenza di umorismo, non piacque, classificandosi solo quattordicesimo (non buono anche l’esito dell’omonimo 33 giri prodotto dalla Easy records italiana, contenente un altro inedito scritto da Mattone, Speranzella).
Carosone ci riprovò con Sanremo nel 1993, ma andò peggio: Io da Rimini, tu da Napoli, che avrebbe dovuto eseguire in coppia con Raoul Casadei, non fu ammessa alla gara. Non si trattò di un periodo felice: a inizio marzo l’artista fu colpito da aneurisma, in casa a Roma, dove da Bracciano si era trasferito con Lita in vista della vecchiaia. Dopo un primo ricovero in una clinica privata, il 21 marzo fu sottoposto a intervento chirurgico all’ospedale S. Camillo. Il male non ebbe gravi conseguenze, e nel giro di qualche mese fu in grado di tornare al pianoforte.
Il compleanno 1995 fu celebrato con lo show Tu vuo’ fa’ l’americano, trasmesso da Raiuno in prima serata il 12 gennaio dal Mercadante di Napoli (il teatro del papà Antonio). Resero omaggio al maestro settantacinquenne, tra gli altri, Renzo Arbore, Gianni Morandi e il vibrafonista jazz statunitense Lionel Hampton (conduttrice Alba Parietti).
A inizio autunno 1996 Carosone tornò negli Stati Uniti per una tournée subito interrotta a causa della cattiva organizzazione. Rientrato, il 26 ottobre ricevette all’Ariston di Sanremo un importante riconoscimento alla carriera, il Premio Tenco per la categoria dei cantautori.
Nel 1998 fu tra gli ospiti di punta nel concerto di Capodanno a Napoli in una piazza del Plebiscito ricolma di concittadini. E nel 1999 Tu vuo’ fa’ l’americano, oramai un evergreen, fu cantata da Matt Damon, Jude Law e Fiorello in una scena del film Il talento di Mr. Ripley.
Il 24 dicembre 1999 dovette ricoverarsi per l’acuirsi di una fastidiosa asma che già da tempo l’aveva costretto ad abbandonare l’amata sigaretta. Appresa la notizia, molti artisti e amici (Arbore, Roberto Murolo, Edoardo Bennato e Antonio Bassolino, allora sindaco di Napoli) gli furono vicini con lettere e articoli sui giornali. Nei mesi seguenti, ai problemi respiratori si aggiunsero quelli circolatori.
Morì la mattina di domenica 20 maggio 2001, mentre riposava nel suo appartamento di via Flaminia. I funerali furono celebrati il 22 in S. Maria in Montesanto, la chiesa degli Artisti in piazza del Popolo. Per sua volontà fu cremato; le ceneri sono nel cimitero di Bracciano.
Poco dopo, il 6 luglio, lo stadio S. Paolo di Napoli ospitò il primo di una serie di concerti alla memoria, dal 2002 divenuti Premio Carosone.
E. De Mura, Enciclopedia della canzone napoletana, I, Napoli 1969, pp. 215 s.; V. Mollica, R. C., Roma 1981; G. Borgna, Storia della canzone italiana, Roma-Bari 1985, pp. 137-139; Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, II, Le biografie, Torino 1988, p. 120; G. Baldazzi, La canzone italiana del Novecento, Roma 1989, pp. 90-94; R. Carosone - F. Vacalebre, Un americano a Napoli, Piacenza 2000; Corriere della sera, 21 maggio 2001; ibid., 23 maggio 2001; Il Mattino, 21 maggio 2001; ibid., 23 maggio 2001; Il Messaggero, 21 maggio 2001; S. Aquilani, R. C. Un maestro da antologia, Vetralla 2002; G. Monti - V. Di Pietro, Dizionario dei cantautori, Milano 2003, pp. 112 s.; S. Bollani, L’America di R. C., Roma 2004; P. Gargano, Nuova enciclopedia illustrata della canzone napoletana, I, Napoli 2006, pp. 404-411; Il grande dizionario della canzone italiana, a cura di D. Salvatori, Milano 2006, ad ind.; M. Bovi, Da C. a Cosa Nostra, Roma 2007, p. 20; R. C. Oltre la musica, la pittura, a cura di A. Mercadante, Roma 2007; E. Giannelli, R. C. Un genio italiano, Roma 2008; M. Maiotti, 1944-1963: i complessi musicali italiani, I, Brescia 2010, pp. 10-19; La canzone italiana 1861-2011. Storie e testi, a cura di L. Colombati, Milano 2011, pp. 655-665; F. Liperi, Storia della canzone italiana, Roma 2011, pp. 171-182; F. Vacalebre, Carosonissimo, Roma 2011; R. Cossentino, La Canzone napoletana dalle origini ai nostri giorni, Napoli 2013, pp. 419-421; R. Manfredi, Skan-zo-na-ta, Milano 2016, pp. 39-59; R. De Simone, La canzone napolitana, Torino 2017, p. 405.
Per alcune informazioni biografiche ricevute un ringraziamento va a Federico Vacalebre e ai famigliari di Carosone, in particolare alla sorella Olga, al nipote Maurizio e al figlio Pino.