BIRAGO, Renato (Renato Carl)
Figlio di Galeazzo, il B. nacque a Milano il 2 febbr. 1507, quando la città era già sotto la dominazione francese. La madre, Anna del conte Renato Trivulzio, era nipote del celebre maresciallo Giangiacomo Trivulzio. È a Milano che il B. trascorse la sua giovinezza come il fratello maggiore Francesco, ma mentre costui si dedicò alla carriera delle armi come il cugino Ludovico e sempre al servizio della Francia, egli si decise per gli studi di diritto che iniziò nella sua città e proseguì ad Avignone.
Costretti ad abbandonare Milano dopo la disfatta del maresciallo di Lautrec: alla Bicocca nel 1522, i Birago si rifugiarono in Piemonte. Il Milanese era caduto ormai nelle mani di Carlo V, che, con rescritto imperiale del 6 maggio 1536, ingiunse ai membri della famiglia di rientrare a Milano sotto pena di fellonia. Il B. rifiutò di rispondere all'appello e si vide confiscare la sua parte del feudo di Ottobiano (28 giugno 1536).
Proprio nel 1536 gli eserciti di Francesco I iniziarono la conquista del Piemonte, dove la Francia assicurò la sua dominazione per un quarto di secolo, dotando il paese di solide istituzioni ricalcate su quelle del regno. Torino diventò così la sede di un Parlamento e nel quadro di questa giurisdizione sovrana il B. iniziò la carriera. Dal settembre del 1538 egli aveva ottenuto la carica di "maître des requêtes" in Piemonte, ancor prima che il Parlamento inaugurasse le sue sedute, e riceveva a questo titolo 400 livres come compenso dei servizi che aveva reso al sovrano nel paese di recente conquista. Dopo aver ottenuto un ufficio di consigliere laico al Parlamento di Parigi il 18 marzo 1541, fu nominato presidente del Parlamento di Torino il 12 giugno 1543, succedendo in queste funzioni a François Errault signore di Chemans, nominato cancelliere di Francia. Risulta che il B. esercitò queste funzioni a partire dal 13 ott. 1543: occuperà questa carica fino al ritorno della città al duca di Savoia nel 1562, carica eminente, dato che il suo titolare non era solo la suprema autorità giudiziaria della provincia, ma aveva anche la custodia del sigillo reale.
Sul piano amministrativo il Piemonte costituiva un "gouvernement", al quale il sovrano preponeva un governatore o luogotenente generale, che disponeva a sua volta di un consiglio. Il B. fu membro di questo consiglio e assistette così successivamente nelle loro funzioni di governatore l'ammiraglio d'Annebault, il signore di Humières e soprattutto Guillaume du Bellay signore di Langey. In tale qualità egli controllava in effetti l'amministrazione civile del Piemonte, mentre le questioni militari dipendevano più particolarmente da Francesco Bernardino Vimercati. Ma in realtà il B., che sarà sempre chiamato il "presidente Birago" fino alla sua elevazione al cardinalato, ebbe una parte attiva anche nelle operazioni militari delle quali il paese fu teatro. Dei suoi interventi in questo campo resta testimonianza nei Mémoires dei fratelli Martin e Guillaume du Bellay come pure nei Commentaires di Blaise de Montluc: lo vediamo così partecipare ai consigli dei capi militari, il signore di Boutières nel 1543, Montluc stesso durante la battaglia per il ponte di Carignano e all'assedio di Ivrea nel gennaio del 1544, il maresciallo di Brissac, infine, che egli accolse solennemente con i membri del Parlamento, dell'amministrazione cittadina e della Camera dei conti al suo ingresso a Torino (20 ag. 1550).
Il cronista contemporaneo Boyvin du Villars precisa che alle sue funzioni giudiziarie il B. aggiungeva allora quelle di commissario generale agli approvvigionamenti in Piemonte e che non aveva "moindre connaissance de la guerre que des lettres". Indubbiamente occorre tener conto, in questo giudizio, del partito preso dal suo autore a favore dei Birago, tanto più evidente se si considera che Paolo Giovio, per esempio, li ignora sistematicamente. Non c'è dubbio tuttavia che il "presidente" continuò ad intervenire efficacemente nella condotta delle numerose operazioni militari intorno a Cardé, San Damiano, Saluzzo, come ricorda nella sua Cronaca Gianbernardo Miolo. Egli partecipò anche alle trattative che si dovevano concludere con la capitolazione di Chieri (settembre 1551), città natale della moglie Valentina Balbiani.L'autorità del presidente non cessò di affermarsi in Piemonte sotto il regno di Enrico II. Nel 1550 egli aveva fatto raccogliere in una sorta di codice di procedura estratti dai registri del Parlamento di Torino, cui aveva aggiunto il testo delle ordinanze e delle lettere del re. Il tutto apparve in un volume in folio pubblicato a Torino con il titolo: Ordinationes regie continentes formam et stillum procedendi coram illustrissima curia regii Parlamenti Taurinensis et aliis curiis ei subditis.
Davanti al Parlamento di Torino, come in tutto il regno di Francia, venivano intentati numerosi processi contro i riformati e il B. si rivelò con la sua intransigenza il nemico dichiarato della loro confessione (ciò che gli varrà il soprannome di "haereticorum malleus" tributatogli dai contemporanei), al punto da preoccupare il Consiglio di Berna che, con una lettera del 1º giugno 1557, indirizzata al maresciallo di Brissac e allo stesso B., chiese si soprassedesse dall'applicazione delle nuove misure di rigore recentemente promulgate dal re Enrico II contro i Valdesi.
Si sa che il trattato di Cateau Cambrésis (aprile 1559), che doveva segnare la fine della preponderanza francese al di là delle Alpi, contemplava, fra le altre clausole, la restituzione del Piemonte al duca di Savoia. Si sa quale amarezza provarono i capi militari francesi costretti ad abbandonare le piazze conquistate. La situazione del B. era tanto più delicata in quanto il successore del Brissac come luogotenente generale in Piemonte era dal 1559 suo genero, il futuro maresciallo Imbert de La Platière, signore di Bourdillon, che aveva sposato in seconde nozze la sua unica figlia Francesca e che cercava di ritardare la restituzione del Piemonte. Il B. si premurò di intervenire presso il Bourdillon per costringerlo a restituire le piazze che teneva ancora, e i Piemontesi del partito francese non mancarono di rimproverarglielo, dichiarando, a quanto assicura Brantôme, che egli aveva fatto "una bella spampanata, e niente" o ancora "una bella cagata". In realtà le trattative si prolungarono fino al 1561, anno in cui ebbe luogo, nel monastero di St.-Just presso Lione, una serie di convegni con i rappresentanti del duca di Savoia. Il B. partecipò a questi convegni, al termine dei quali la Francia abbandonò definitivamente le città di Torino, Chivasso, Chieri e Villanova d'Asti, conservando tuttavia Pinerolo e ottenendo in cambio Savigliano e Perosa. Per assicurare l'esercizio della giustizia in questi possedimenti la Francia installò a Pinerolo un Consiglio superiore, del quale il B. fu nominato presidente il 9 giugno 1563.
In questo stesso anno il re di Francia incaricò il B. di una missione di ben altra importanza. Da un anno il concilio aveva ripreso le sue sedute a Trento, mentre Caterina de' Medici, per incitare i protestanti a recarvisi e dare così al concilio il suo vero carattere ecumenico, aveva auspicato la scelta di un'altra città, di preferenza in Piemonte oppure sulle rive del Reno. Il 15 apr. 1563 il B., cui era stato conferito il titolo di consigliere del re nel Consiglio privato, ricevette istruzioni per intervenire in questo senso presso i legati pontifici al concilio, mentre i signori d'Oisel e d'Allègre dovevano svolgere la stessa missione rispettivamente presso le corti di Filippo II e del papa. Arrivato a Trento alla fine di maggio, senza d'altronde che gli fosse stato conferito il titolo di ambasciatore, egli chiese, ma senza successo, il trasferimento del concilio fuori di Trento. Si preoccupò quindi di sconfessare i sospetti, ingiuriosi agli occhi di Carlo IX, nutriti dall'assemblea, quando aveva appreso della firma dell'editto di pacificazione di Amboise che accordava numerosi vantaggi ai riformati. La missione del B., del quale si conservano le lettere relative (Parigi, Bibl. Nationale,Cinq Cents Colbert, n. 395), Per quel che riguarda questi due punti, poteva concludersi solo con un fallimento. Il B. doveva avere invece maggiore successo a Vienna, dove risulta presente alla fine di giugno del 1563, per gettare le basi, con l'imperatore Ferdinando e il re dei Romani Massimiliano, del matrimonio della figlia minore di questo, Elisabetta di Asburgo, con Carlo IX. Carlo IX e la madre, Caterina de' Medici, stavano apprestandosi ad intraprendere il loro grande viaggio all'interno del regno di Francia. Il B. li raggiunse a Lione nel giugno del 1564 e li accompagnò fino ad Avignone; nel corso di questi spostamenti riannodò le trattative con il duca di Savoia per ottenere il riconoscimento della conservazione di Pinerolo, Savigliano e Perosa alla Francia e le proseguì fino alla fine dell'anno a Torino.
Fino a questo momento il B. aveva servito il re di Francia esclusivamente in Italia, come richiedeva la sua conoscenza del paese e della lingua: ora doveva esercitare nella stessa Francia il suo talento, che gli permetterà nel 1573 di accedere alla più alta magistratura del regno, quella di cancelliere e di ricevere nel 1578 il cappello cardinalizio.
In una lettera del dicembre 1564 Caterina de' Medici gli chiese premurosamente di ritornare vicino al re "comme selui qui sert beaucoup en sete compagnie" e l'invito precedeva l'assegnazione di una carica di fiducia. Nel corso del suo recente passaggio a Lione la regina madre aveva potuto valutare sul posto il pericolo al quale la diffusione della Riforma nella regione poteva esporre la città e con essa il regno tutto. I protestanti del barone des Adrets si erano impadroniti già una prima volta di Lione nell'aprile del 1562 e vi avevano installato un consolato a loro devoto, che aveva accettato di riconoscere l'autorità del re a condizione però che le clausole dell'editto di Amboise venissero scrupolosamente osservate. Lione era allora una città di confine, dalla popolazione turbolenta, la porta aperta su Ginevra e l'Italia. Il re di Francia vi era rappresentato da un governatore, suo cugino il duca di Nemours, ma le funzioni permanenti dell'autorità erano garantite da un luogotenente generale. Il B. succedette in questa qualità alla fine di settembre del 1565 a colui che ricopriva allora questa carica, il signore di Losses, e lo storico della città di Lione, Claude de Rubys, interpretando il senso di sollievo che ne provarono gli abitanti, non mancò di sottolineare la saggezza della scelta del re, dato che il B. gli appariva "non solum legibus armatus sed et armis decorus".
Del doppio arsenale, delle leggi e delle armi, del quale disponeva, il B. doveva servirsi subito per difendere la. città dalle imprese dei riformati. Si preoccupò anzitutto di controllare lo stato delle fortificazioni e di insediare una forte guarnigione. Informato il 29 sett. 1567 che i protestanti si erano impadroniti di Mâcon, intervenne presso il prevosto di Villefranche e presso il signore di Montmelas, Jean Arod, perché prendessero le misure più opportune per scongiurare la minaccia su Lione, mentre egli stesso soffocava un tentativo di rivolta dei riformati del quartiere dei Giacobini. L'11 dicembre successivo pubblicò un'ordinanza, della quale si conserva il testo stampato da Michel Jouve, per interdire agli aderenti della religione pretesa riformata di acquistare nel corso dei disordini beni mobili o immobili, dato che si trattava presumibilmente di beni rubati, una lista dei quali era già in possesso del re, e per sospendere il pagamento in loro favore di ogni credito, rendita, censo, senza la sua autorizzazione. Altre misure adottate di concerto con il siniscalco, i consoli e l'arcivescovo portarono a una vera e propria proscrizione del partito protestante, di cui molti aderenti, in particolare mercanti, si rifugiarono a Ginevra.
Il B., che non aveva certo dimenticato la sua qualità di presidente del Consiglio superiore di Pinerolo ed era rimasto a questo titolo in stretto contatto con il duca Emanuele Filiberto di Savoia, esercitò le funzioni di luogotenente generale a Lione fino al mese di agosto del 1568, data nella quale fu sostituito in questa carica dal celebre signore di Mandelot. Durante questi quattro anni di disordini egli dette prove sufficienti della sua autorità, al punto che, come scrisse Caterina de' Medici in una lettera del 17 ag. al Larcher, commissario deputato all'amministrazione della giustizia in Lione, si pensava di farlo "venir par deça pour s'en servir en autres choses d'importance".
Si trattava in quel momento per il re di Francia di fronteggiare una nuova coalizione armata dei protestanti che avevano fatto di La Rochelle la principale delle loro piazzeforti. Avendo affidato Carlo IX a suo fratello, Enrico duca d'Angiò, il comando dell'esercito che doveva opporsi alle forze protestanti rinforzate dai cavalieri tedeschi del duca di Deux-Ponts, il B. fu inviato presso Enrico, che fece di lui il suo consigliere politico e militare. Si conserva alla Biblioteca Nazionale di Parigi (Ms. Fr. 18587, f. 488, porta la firma di sua mano) il testo di una consulta, che egli approntò su richiesta di Enrico, sul quesito se convenisse all'esercito reale passare all'attacco. Il B. concludeva affermativamente: "le différer seroit le pis".
Il documento, non datato, deve essere di poco anteriore al 3 ott. 1569, giorno nel quale il duca d'Angiò riportò sui riformati la sua seconda grande vittoria dell'anno; la prima, a Jarnac il 13 marzo precedente, era stata possibile anch'essa in conseguenza dell'impegno messo dal B. nella costruzione di un ponte sulla Charente.
La fiducia che Carlo IX ed Enrico suo fratello accordarono allora al B. non doveva essere più smentita, come sottolinea l'ambasciatore di Filippo II a Parigi, don Francés de Alava. Dal momento che era stata firmata la pace di Longjumeau (23 maggio 1568) il cancelliere Michel de L'Hospital era intervenuto a più riprese sul re e su Caterina de' Medici per farne rispettare le disposizioni conformi alla sua volontà di conciliazione che la regina madre non condivideva più. Sotto la pressione del partito cattolico e dei suoi capi, fra i quali era pure il B., Caterina de' Medici ottenne che il vecchio cancelliere, pur conservando il titolo, si dimettesse dalla sua carica di guardasigilli a favore del vescovo di Orléans, Jean de Morvilliers (6 febbr. 1568). Costui accettò a malincuore, ben deciso come era a non rompere con la politica di tolleranza del cancelliere: il 2 marzo 1571 abbandonò a sua volta i sigilli che furono rimessi lo stesso giorno al Birago. In effetti nessun altro candidato si era presentato alla successione, essendo noto che Morvilliers avrebbe continuato a conservare tutta la sua autorità nel Consiglio del re, e nella probabilità che Michel de L'Hospital, sempre cancelliere, sarebbe stato chiamato al più presto alla direzione della politica francese. Il dramma della notte di s. Bartolomeo (24 ag. 1572), nella preparazione del quale sembra certo che il B. abbia avuto, con la regina madre e l'arcivescovo di Parigi Pierre de Gondi, una parte determinante; il ruolo eminente giocato nelle trattative con gli ambasciatori polacchi che dovevano venire in Francia nel mese di agosto del 1573 per annunciare a Enrico duca d'Angiò la sua elezione al trono di Polonia; la morte infine di Michel de L'Hospital, sopravvenuta il 13 marzo, dovevano affrettare la sua elevazione: il 17 marzo il B. accedeva alla carica di cancelliere di Francia.
Ormai l'azione del B., che dovette sicuramente al favore di Caterina de' Medici l'ingresso nella suprema magistratura del regno di Francia, si confonde con quella della monarchia alle prese con i disordini che conobbe allora il paese. Partigiano più che mai di una politica di fermezza, cioè di violenza verso i riformati, che chiesero al re in varie riprese il suo allontanamento, egli non poté opporsi tuttavia alla firma dell'editto di Beaulieu (6 maggio 1576), che accordava loro garanzie mai godute fino ad allora. In compenso perseguitò con il suo rancore il maresciallo di Damville, Henri de Montmorency, governatore della Linguadoca, certamente per le concessioni fatte ai protestanti, ma anche a causa del conflitto che l'aveva opposto a suo cugino Ludovico Birago: "et la lui avait gardée bonne jusques là, à la mode lombarde" scrisse a questo proposito Brantôme.
Nessuna meraviglia che egli si sia opposto alla restituzione delle ultime piazze possedute ancora dalla Francia in Piemonte al duca di Savoia, e la lettera che scrisse a questo proposito al duca di Nevers il 22 ott. 1574 (Biblioteca Nazionale di Parigi,Ms. Fr. 3315, f. 97) è così lucidamente indicativa dei suoi sentimenti che vale la pena di riportarne il seguente passo: "Il faudrait que mes lettres fussent longues, scandaleuses et dangereuses et mesmement pour moy qui ay desjà assez et trop librement parlé estant, comme je crois que sçavez, de telle nature que je ne puis me contenir quand l'occasion se presente, de dire et faire tout ce qui me semble necessaire pour le service du roy mon maistre et pour la conservation de sa couronne et royaulme, ce qui ne se peut en ce temps faire sans danger. Je sçay bien que plusieurs ne m'estiment pas pour cela plus sage mais sçais bien aussi que ceulx qui font le contraire ne sont pas pour cela plus gens de bien...".
Lo stile di questa lettera è impeccabile, ma, uomo d'azione, il B. non era oratore e i contemporanei non hanno esitato ad opporre il sobrio discorso del re Enrico III all'arringa impacciata che il cancelliere pronunciò, come voleva la prassi, dopo di lui, nella seduta d'apertura degli Stati generali di Blois il 6 dic. 1576. Egli stesso del resto non si faceva illusioni su questo punto: "Messieurs", disse, "si je voulais imiter les grands orateurs... je m'y pourrois trouver empesché tant pour ne m'estre de long temps exercé en cest art que pour estre mon aage vieil et septuagénaire...", aggiungendo che ai bei discorsi egli aveva sempre preferito la verità.
Nel corso dei dibattiti non sfuggì la fermezza della posizione del B. contro la pratica dei duelli, né si mancò di notare che egli si fece ardente difensore dell'alienazione dei beni del clero a profitto del tesoro reale, espediente al quale Enrico III aveva fatto ricorso una volta di più nel corso dell'anno. Le crescenti strettezze finanziarie obbligavano anche il sovrano a moltiplicare gli uffici e, nella sua qualità di cancelliere, il B. intervenne ogni volta con la maggior fermezza nei lits de justice ai quali fu necessario ricorrere, particolarmente nel 1580 e nel 1581, per costringere il Parlamento di Parigi a registrare gli "édits burseaux" che li creavano. L'opposizione, temendo che tali risorse fossero dilapidate dal sovrano piuttosto che essere impiegate per i bisogni del regno, fece circolare la battuta che il B. era "moins chancellier de France que chancellier du roi de France".
Nonostante la sua carica di cancelliere, in questi anni difficili il B. aveva già abbandonato i sigilli; dal febbraio del 1578 era stato costretto a farlo, essendo, come scrisse de Thou, "cassé de vieillesse": e lo storico aggiunse che egli volle dare ad intendere di rinunciare volontariamente. Dal canto suo, Brantôme osservò invece che il B. era fortemente attaccato ai sigilli perché gli rendevano molto denaro, che il suo segretario, il signore di Gontery, faceva passare in Italia sia per se stesso sia per il suo padrone. Come guardasigilli gli succedette il suo amico e favorito, come lui, di Enrico III, Philippe Hurault de Cheverny il 29 sett. 1578.
L'anno 1578 fu l'anno della sua elevazione al cardinalato. Dopo la morte della moglie, Valentina Balbiani, sopraggiunta il 13 genn. 1572, aveva abbracciato in effetti lo stato ecclesiastico: il 12 ott. 1573 divenne vescovo di Lodève. È da notare che la sua diocesi fu esonerata dalle 3.000 livres per le quali era stata tassata dopo la pubblicazione della bolla di alienazione dei beni del clero del 24 ag. 1574. È vero però che numerosi vescovati del Mezzogiorno della Francia, rovinati dalle continue guerre, beneficiarono nella fattispecie di importanti agevolazioni.
Il primo intervento che conosciamo in favore della concessione della dignità cardinalizia al B. è quello di Enrico III, che il 23 febbr. 1576 scrisse a Gregorio XIII una lunga lettera; un anno più tardi, il 16 febbr. 1577, Caterina de' Medici intervenne a sua volta premurosamente perché egli fosse "des premiers" a essere creato cardinale. Gregorio XIII lo incluse nella sua quinta promozione di cardinali, il 21 febbr. 1578, ma il B. non si recò mai a Roma per ricevere il suo titolo. Ricevette il cappello nella chiesa di Notre-Dame in Parigi il 24 giugno dalle mani del nunzio Dandino dopo avere offerto, il 20 aprile, una festa al re e alla regina madre per la sua promozione. Brantôme, che lo conosceva bene, assicura d'altra parte che egli non aveva sollecitato questa promozione, perché, scrisse, "il n'était pas habile a far tutte queste gentillesse et ceremonie ecclesiastiche". Non avendo potuto ottenere per lui l'arcivescovato di Albi, Caterina de' Medici gli fece avere l'abbazia di Thouars; egli dispose anche di quella di St.-Pierre-le-Vif di Sens e fu uno dei provveditori del Collegio dei Lombardi di Parigi. Ma non sembra aver tenuto a questi benefici, e Jules Gassot ricorda nel suo Sommaire mémorial che egli "avoit accoustumé de dire, aucunes fois qu'il estoit en ses bonnes, qu'il estoit chancellier sans sceaulx et cardinal sans bénéfices", la qual cosa conferma d'altra parte Pierre de l'Estoile che gli fa dire, poco prima della morte, "qu'il mourait cardinal sans titre, prêtre sans bénéfice et chancelier sans sceaux".
Egli rimase invece il modello della ortodossia più stretta, appoggiando, per esempio, nel febbraio del 1580, le lamentele dei dottori della Sorbona che deploravano l'influenza nefasta di umanisti come Henri Estienne sugli studenti. Il favore del re d'altra parte non l'abbandonò mai: il 1º febbr. 1580 fu nominato commendatore in occasione della seconda promozione dell'Ordine di St.-Esprit.
Dopo la sua elevazione al cardinalato il B. andò ad abitare nel Marais, in una sontuosa dimora che aveva fatto costruire verso la metà del secolo il cardinale di Meudon. Pierre de l'Estoile registra nel suo Journal la notizia del ricco banchetto offerto il 26 genn. 1580 al re, alla regina e alla regina madre nella grande galleria adorna di tappezzerie. Due anni più tardi egli vendette però questa dimora alla regina di Navarra Margherita di Valois per 28.000 scudi e si ritirò nel vicino priorato degli agostiniani di S.te Catherinedu-Val-des-Ecoliers, dove doveva morire, a settantasei anni, il 24 nov. 1583.
Il suo corpo fu esposto per otto giorni in pompa magna e il re volle assistere personalmente alle sue esequie, che furono celebrate il 6 dicembre; l'orazione funebre fu pronunciata dall'arcivescovo di Bourges, Renaud de Beaune. Alcuni mesi dopo i suoi amici pubblicarono, in suo onore, secondo il costume del tempo, un "tombeau",Renati Biragi S. Romanae Ecclesiae Cardinalis et Franciae cancellarii tumulus, al quale collaborarono tra gli altri il poeta Dorat, Papyre Masson, Robert Estienne, J.-B. Bruna e Sébastien Gambaud di Saluzzo, Giacomo Argentario di Chieri e Jean Moré, notaio del re e suo segretario. Le spoglie del B. dovevano riposare in una tomba sontuosa, opera dello scultore Germain Pilon, al quale egli aveva ordinato personalmente il monumento funebre della moglie Valentina Balbiani, all'indomani della sua morte. Delle due tombe si conservano purtroppo, oltre a pochi frammenti, solo le statue. Quella del cardinale, in ginocchio e in cappa magna, è di bronzo, mentre il corpo disteso di Valentina Balbiani è di marmo. Esposte oggi nella sezione sculture del Museo del Louvre, dove entrarono nel 1816, passano fra le maggiori opere della statuaria francese della seconda metà del sec. XVI, ma hanno perduto il contesto architettonico per il quale erano state concepite, quando si fronteggiavano nella chiesa del priorato di S. Caterina, demolita nel 1783. È tuttavia possibile giudicarle in base alla loro originaria collocazione grazie a parecchi disegni, due dei quali di Roger de Gaignières, conservati alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Colpisce il realismo del quale dette prova Germain Pilon nel trattare la statua del cardinale inginocchiato con le mani giunte, il viso grave e avvolto nel suo mantello. Lo scultore spinse la ricerca fino a delineare i riquadri dei quali il mantello era costituito e i punti che li legavano. E se ci si può meravigliare che la fusione del bronzo non sia priva di difetti, si deve ricordare che la statua in origine era interamente dipinta. L'epitaffio latino ricordava che la tomba era stata voluta dall'amico e successore del cancelliere, Philippe Hurault de Cheverny.
Di questa solidarietà fra i due uomini abbiamo un'altra testimonianza in una serie di piccole medaglie d'acciaio o d'argento conservate nel reparto delle medaglie della Biblioteca Nazionale di Parigi, delle quali il diritto riproduce il B. e il rovescio Philippe Hurault de Cheverny. Altre medaglie con l'effigie del cardinale portano nel rovescio l'una o l'altra delle sue imprese: "Ortu clarus sine dolo" o "Ars jus gubernat", che è l'anagramma di "Renatus Biragus", o ancora un agnello circondato da un raggio di fiamme, il piede destro su un libro, il sinistro che tiene una croce a doppia traversa con il motto "Rubet agnus aris" (altro anagramma). Ma è ancora a Germain Pilon che si deve un altro capolavoro, la grande medaglia di bronzo dorato e cesellato del cardinale, che l'artista ha rappresentato all'età di settant'anni, con il suo scrigno di marocchino rosso ornato da un prato di trifoglio circondato da rami di ulivo e con al centro il monogramma del Birago.
I giudizi espressi dai contemporanei sul B. furono contrastanti. Nessuna meraviglia che i Francesi, nei momenti di maggiore tensione con la monarchia, l'abbiano giudicato severamente, tenuto conto della sua appartenenza ad una famiglia di oltr'Alpe e soprattutto del periodo particolarmente tormentato che attraversava allora la Francia. Non c'è dubbio che egli abbia beneficiato costantemente del favore di Caterina de' Medici e che rappresenti una delle figure più notevoli della corte italianizzata degli ultimi Valois. Che, egli sia stato oggetto di quella stessa diffidenza che circondava allora i Gondi, i Sardini, gli Adiaceto, gli Zamet è noto, e Pierre de L'Estoile ne fornisce numerose testimonianze: è lui che ricorda come nel luglio del 1575 il B. abbia fatto processare e impiccare il capitano La Vergerie per aver dichiarato "qu'il fallait couper la gorge à tous ces bougres d'Italiens". Ma Jacques-Auguste de Thou, che pure non mostrò per lui eccessivi riguardi, tenne a ricordare nei Mémoires in quale stima l'aveva tenuto suo padre, il primo presidente del Parlamento di Parigi Cristophe de Thou.
Dalla sua unione con Valentina Balbiani il B. ebbe una figlia, Francesca, che sposò Imbert de La Platière, maresciallo di Bourdillon, poi Jean de Laval, marchese di Nesle e infine, dopo la morte di suo padre, Jacques d'Amboise, conte d'Aubijoux. Dilapidata con lui la sua fortuna, morì in miseria.
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