REGOLAMENTO
. L'attività dello stato si suole distinguere in legislazione, giurisdizione, amministrazione. Legislazione è l'attività dello stato diretta a formare il diritto obiettivo. Per l'esercizio di questa attività vi è nello stato un organo particolare, che è l'organo legislativo, la cui funzione propria normale e principale è appunto quella di porre norme giuridiche. Queste norme poste dall'organo legislativo costituzionale (che nell'ordinamento italiano è un organo collettivo formato dal re e dalle due camere) sono leggi non solo in senso sostanziale, ma anche in senso formale. Però l'attività legislativa dello stato non si esaurisce nell'attività dell'organo legislativo costituzionale; anche organi amministrativi possono esplicare attività legislativa. Le norme giuridiche, poste da organi amministrativi, si chiamano regolamenti. I regolamenti sono ordinanze giuridiche e sono leggi in senso sostanziale, non in senso formale. Vi sono anche ordinanze giuridiche, che, pur non essendo leggi formali, hanno l'efficacia di legge in senso formale e sono i decreti legislativi e i decreti-legge; ma queste ordinanze non sono regolamenti.
Hanno natura diversa dai regolamenti, in senso proprio, anche gli atti amministrativi generali, ai quali si dà il nome di regolamenti interni. Questi regolamenti interni vengono emanati allo scopo di regolare l'organizzazione degli organi interni inferiori, oppure allo scopo di dare direttive a organi interni ed esterni per l'esercizio delle rispettive attribuzioni. Le disposizioni contenute in questi regolamenti non costituiscono esplicamento di attività legislativa, non sono manifestazioni di potere d'impero dello stato, ma derivano l'efficacia dal potere speciale di supremazia gerarchica, che l'autorità da cui emanano possiede di fronte agli organi dipendenti. La natura dei regolamenti interni è molto discussa nella dottrina italiana e straniera; ma nonostante l'incertezza sulla natura di essi, si può dire che sia comune l'opinione che i regolamenti interni si distinguono dai regolamenti in senso proprio, diversi essendo i principî che si riferiscono agli uni e agli altri. Nella dottrina tedesca i regolamenti in senso proprio sono detti regolamenti giuridici. I regolamenti interni, invece, appartengono alla categoria dei regolamenti amministrativi, i quali in quella dottrina si ritengono distinti dai primi appunto perché non contengono vere e proprie norme di diritto.
La norma giuridica contenuta in una legge non ha efficacia diversa dalla norma giuridica contenuta in un regolamento: legge e regolamento sono allo stesso modo fonte di diritti e di obblighi per i destinatarî della norma in essi rispettivamente contenuta.
La differenza fra legge e regolamento sta soltanto nella diversa rispettiva efficacia formale. La legge, atto dell'organo legislativo, ha valore giuridico assoluto; il regolamento, atto di autorità amministrativa, ha l'efficacia formale di atto amministrativo, ha valore giuridico relativo, perché è valido solo in quanto sia legittimo, cioè non contraddica a una legge formale. Il regolamento può essere quindi, sindacato dal giudice quanto alla legittimità. Difatti, secondo l'art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, sul contenzioso amministrativo, i giudici devono applicare i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi.
Se le norme di diritto - siano poste da una legge formale o da un regolamento - hanno sempre la medesima efficacia giuridica materiale o sostanziale, per quale ragione il diritto obiettivo non viene posto interamente con leggi formali emanate dall'organo espressamente destinato dalla costituzione a porre il diritto, ed esiste, invece, accanto alla legge questa speciale forma di esercizio di attività legislativa che è il regolamento? Il motivo sta nella particolare struttura dell'organo legislativo. Nello stato moderno l'organo destinato a fare le leggi è l'organo rappresentativo del popolo, il parlamento; è, quindi, sempre un organo collegiale, anzi, dove vige il sistema bicamerale, è costituito da due organi collegiali, prescindendo dalla partecipazione del capo dello stato alla funzione legislativa. La procedura per la formazione di una legge in senso formale è per necessità piuttosto lenta; molto più agile, invece, è la procedura per la formazione di un regolamento. Per questo, sembra più adatta la procedura regolamentare che non l'ordinaria procedura legislativa per formare quelle disposizioni di diritto obiettivo, le quali, per essere e mantenersi aderenti alla realtà, devono potersi formare ed eventualmente modificare con una certa prontezza. Questo motivo è comune a tutti gli stati moderni, nei quali l'organo legislativo è il parlamento; quindi in tutti gli ordinamenti giuridici esiste fra le norme di diritto obiettivo poste dallo stato una distinzione corrispondente a quella italiana fra legge e regolamento, sebbene sia assai diversa nei diversi ordinamenti la proporzione con la quale il legislatore pone il diritto secondo l'una o l'altra procedura.
La facoltà di emanare norme giuridiche attribuita al governo e a organi amministrativi (la cosiddetta facoltà regolamentare) costituisce una deviazione dal principio della divisione dei poteri, secondo il quale il potere esecutivo non ha facoltà né di porre né di applicare le leggi. Di qui la questione sul fondamento giuridico della facoltà regolamentare.
Si ammette che il legislatore può con legge attribuire al potere esecutivo o ad altri organi amministrativi la facoltà di emanare norme giuridiche. Si potrà discutere se l'attribuire facoltà legislativa al governo o ad autorità amministrative sia politicamente corretto, ma non v'è dubbio alcuno che il parlamento possa attribuire tale facoltà. La questione è se la facoltà regolamentare del potere esecutivo presupponga sempre una legge che l'abbia attribuita, oppure possa dirsi, in qualche caso, una facoltà originaria dello stesso potere esecutivo. Una corrente dottrinale, che si riallaccia sostanzialmente a teorie germaniche, ritiene che chi ha potere discrezionale per singoli casi concreti può anche determinare in modo generale e astratto l'uso che intende farne nei possibili casi futuri. Secondo questa dottrina, la facoltà regolamentare dell'amministrazione oltre che da attribuzione fatta con legge, deriva dal potere discrezionale che all'amministrazione stessa si riconosce. Un'altra opinione, invece, non ammette che il potere discrezionale dell'amministrazione implichi il potere di porre norme giuridiche. Il potere discrezionale, infatti, è comune a tutte le autorità amministrative; eppure non tutte le autorità amministrative possono porre regolamenti, ma solo quelle alle quali tale potere è stato attribuito dal legislatore, e anche queste soltanto nei casi determinati dal legislatore. La questione, per quanto può riguardare l'ordinamento italiano, ha soltanto un'importanza teorica. Nell'ordinamento italiano il potere regolamentare riconosciuto a un'autorità amministrativa si può in ogni caso far derivare da una legge, che lo ha attribuito. Si tratterebbe, quindi, soltanto di determinare se teoricamente l'amministrazione abbia una facoltà regolamentare propria e originaria, e allora la legge che gliel'attribuisse non avrebbe propriamente efficacia attributiva, ma riconoscerebbe semplicemente una facoltà esistente. Un'altra opinione ritiene anche che la facoltà regolamentare in certe materie è originaria del potere esecutivo e indipendente da attribuzione fatta legislativamente, perché tale facoltà è considerata come una continuazione del potere pieno ed esclusivo che il principe aveva di fare leggi nel regime assoluto. Si immagina, quindi, che nel regime costituzionale il principe conservi il potere di legiferare in tutte quelle materie, che il parlamento non abbia espressamente assorbito nella propria competenza. Ma questo modo di eonsiderare la divisione dei poteri attuata dal regime costituzionale, se può forse valere per il diritto inglese, nel quale il potere regio ha subito una particolare evoluzione, non vale per il diritto italiano né, in genere, per lo stato moderno nel continente europeo.
Anche la classificazione dei regolamenti dà luogo a discussioni. Dei regolamenti possono farsi diverse distinzioni secondo il diverso criterio, in base al quale vengono considerati. La classificazione più comune dei regolamenti è quella che li distingue in tre categorie: regolamenti esecutivi, regolamenti autonomi o indipendemi e regolamenti delegati. La categoria dei regolamenti esecutivi è da tutti ammessa senza discussione; quella dei regolamenti autonomi o indipendenti è pure ammessa, ma la dottrina non è finora concorde nel fissarne i precisi confini; quella dei regolamenti delegati è invece incerta e da alcuni negata.
I regolamenti esecutivi sono quelli che vengono emanati per l'esecuzione delle leggi, come il nome stesso chiaramente indica. Le leggi nell'ordinamento italiano sogliono contenere poche norme astratte e generali. Con ciò si provvede alla maggiore stabilità delle leggi; ma da ciò nasce anche il bisogno di norme più minute, che completino le prime e di queste assicurino l'uniforme applicazione. Queste norme complementari, necessarie per l'esecuzione delle leggi, vengono emanate coi regolamenti detti, appunto, esecutivi. I quali, pertanto, presuppongono una legge, di cui costituiscono l'integrazione e il complemento: la legge e il regolamento esecutivo formano il complesso delle norme che regolano una data materia.
La seconda categoria è quella dei regolamenti autonomi o indipendenti. Vi possono essere materie che la legge non ha disciplinato con particolari norme. L'autorità amministrativa può liberamente agire in tali materie, ma sempre entro i limiti del diritto vigente. L'amministrazione, nell'adottare i provvedimenti che ritiene opportuni, non può restringere la sfera giuridica di altri soggetti, non può a questi imporre obblighi diversi o più ampî di quelli che risultano per essi dal diritto vigente. Però, in una materia non disciplinata da norme particolari di diritto, il legislatore può attribuire all'amministrazione la facoltà di agire anche modificando la sfera giuridica di altri soggetti, creando diritti subiettivi e obblighi giuridici. Tale è la facoltà riconosciuta al re dallo statuto di creare ordini cavallereschi e di conferire nuovi titoli di nobiltà (articoli 78 e 79). L'autorità amministrativa, alla quale è stata attribuita tale facoltà, può emanare norme per disciplinarne l'uso. Queste norme sono ordinanze giuridiche e costituiscono i cosiddetti regolamenti autonomi o indipendenti. Sono detti indipendenti, non perché il potere di emanarli sia indipendente da una legge che, o implicitamente o esplicitamente, l'attribuisca, ma perché, a differenza dei regolamenti esecutivi, che vengono emanati per completare una legge precedente, queste ordinanze non presuppongono una legge regolatrice della materia, ma formano esse il complesso delle norme di diritto che regolano l'intera materia.
Anche i regolamenti delegati presuppongono una materia non regolata con norme particolari di legge. Il legislatore può attribuire all'autorità amministrativa il potere di emanare norme giuridiche per disciplinare tale materia. Si dice allora che il legislatore delega potestà legislativa. Le norme giuridiche emanate appartengono alla categoria dei regolamenti delegati. La potestà legislativa delegata è potestà legislativa in senso materiale o sostanziale, perché il regolamento è legge in senso materiale. Come fu già accennato, il legislatore può attribuire all'autorità amministrativa anche potestà legislativa in senso formale; tale potestà delegata si esplica mediante decreti legislativi, i quali hanno efficacia di legge in senso formale, non mediante regolamenti, che hanno sempre valore di legge in senso sostanziale. Dipende dalla volontà del legislatore, espressa nelle singole leggi di delegazione, che la potestà legislativa delegata sia potestà legislativa in senso sostanziale o in senso formale. E poiché le norme giuridiche emanate dall'autorità amministrativa, anche in base a delega legislativa, sono sempre atti amministrativi in senso formale, per decidere se esse formano un regolamento delegato o un decreto legislativo, non v'è altro mezzo che di risalire alla legge di delegazione per vedere se il legislatore ha delegato potestà legislativa in senso materiale o in senso formale.
La distinzione dei regolamenti in esecutivi, autonomi e delegati, tradizionale nella dottrina, è accolta dalla legge 31 gennaio 1926, n. 100, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, legge di carattere costituzionale, la quale disciplina tutta la materia circa la facoltà regolamentare del governo. Secondo questa legge (art. 1) il potere esecutivo può emanare con decreto reale le norme giuridiche necessarie per disciplinare: 1. l'esecuzione delle leggi; 2. l'uso delle facoltà spettanti al potere esecutivo; 3. l'organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni dello stato, l'ordinamento del personale a esse addetto, l'ordinamento degli enti e istituti pubblici, eccettuati i comuni, le provincie, le istituzioni pubbliche di beneficenza, le università e gl'istituti d'istruzione superiore che hanno personalità giuridica, quando anche si tratti di materie sino a oggi regolate per legge.
I regolamenti menzionati al n. 1 costituiscono la categoria dei regolamenti esecutivi. La facoltà di emanare regolamenti esecutivi era già attribuita al re dallo statuto (art. 6: il re fa i regolamenti necessarî per l'esecuzione delle leggi); ma la legge del 1926, mentre riconosce al potere esecutivo questa stessa facoltà, ne chiarisce anche la portata: la facoltà di emanare regolamenti esecutivi significa facoltà di emanare tutte le norme necessarie per disciplinare l'esecuzione delle leggi. Con ciò è tolto qualsiasi dubbio sulla portata della facoltà attribuita dall'art. 6 dello statuto. Si discuteva, infatti, se il regolamento esecutivo che il re poteva emanare in base alla disposizione statutaria dovesse contenere soltanto le norme che per via d'interpretazione e di deduzione logica si potessero derivare dalla legge, che il regolamento era destinato a completare, oppure anche norme giuridiche non deducibili logicamente dalla legge, ma necessarie per l'esecuzione di essa. Secondo l'opinione restrittiva si dovevano ritenere come incostituzionali tutte le norme di regolamenti esecutivi, che non si potessero far derivare per interpretazione logica dalla legge, alla quale il regolamento si riferiva. Con la legge del 1926 viene eliminata ogni discussione in proposito: il regolamento esecutivo può contenere non solo le norme logicamente deducibili dalla legge alla quale si riferisce, ma anche norme nuove, quando siano necessarie per l'esecuzione di essa. La facoltà data in generale nella legge del 1926 al governo di emanare regolamenti esecutivi rende superflua la clausola che di solito si poneva nelle leggi per autorizzare il governo a emanare il relativo regolamento. Ma la facoltà data dalla legge del 1926 lascia alla decisione discrezionale del governo l'emanazione del regolamento esecutivo, per cui, se il legislatore vuole che questa sia assicurata, deve inserire nella legge la clausola che imponga al governo l'obbligo di emanare il regolamento.
I regolamenti menzionati al n. 2 dell'art. 1 della legge del 1926 sono evidentemente i regolamenti autonomi o indipendenti, secondo la nozione già data di questa categoria di regolamenti.
Il n. 3 si riferisce ai regolamenti, cosiddetti di organizzazione. Alcuni vorrebbero fare dei regolamenti di organizzazione una categoria a sé; altri li considerano come una sottospecie di quelli indipendenti; altri infine - e questa si può dire l'opinione più diffusa - considerano i regolamenti di organizzazione come un esempio di regolamenti delegati. Non c'è infatti - e non avrebbe senso - una disposizione unica generale che autorizzi il governo a emanare regolamenti delegati, come c'è l'autorizzazione a emanare, in genere, regolamenti esecutivi e regolamenti autonomi l'autorizzazione per i regolamenti delegati non può esser data che da ogni singola legge di delegazione che segna la materia la quale deve essere disciplinata con norme regolamentari. La disposizione contenuta nel n. 3 dell'art. 1 è appunto una legge di delegazione, che attribuisce, entro certi limiti, la materia dell'organizzazione degli uffici pubblici alla competenza regolamentare del governo. I regolamenti emanati in base a questa disposizione sono, quindi, regolamenti delegati. Disciplinare l'organizzazione degli uffici pubblici si era sempre ritenuto di competenza del potere esecutivo, ma con la legge 11 luglio 1904, n. 372, si determinò che il numero dei ministeri e i ruoli organici degl'impiegati nominati con decreto reale potessero stabilirsi soltanto per legge, e con la legge 22 novembre 1908, n. 693, venne disciplinato lo stato giuridico degl'impiegati civili. La legge 31 gennaio 1926, n. 100, con l'art.1, n. 3, restituisce, salva qualche eccezione, alla competenza regolamentare del governo l'organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni dello stato, l'ordinamento del relativo personale e l'ordinamento degli enti e istituti pubblici. Già la legge 24 dicembre 1925, n. 2203, sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo aveva determinato (art. 4) che il numero, la costituzione e le attribuzioni dei ministeri sono stabiliti per decreti reali su proposta del capo del governo. Sono riservati alla legge l'ordinamento giudiziario, la competenza dei giudici, l'ordinamento del Consiglio di stato e della Corte dei conti, nonché le guarentigie dei magistrati e degli altri funzionarî inamovibili. È stato anche chiarito che debbono essere regolate con leggi le istituzioni dello stato, quali la costituzione dell'esercito e delle forze armate. Quanto all'ordinamento degli altri enti e istituti pubblici, rimangono esclusi dalla competenza regolamentare del governo i comuni, le provincie, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, ecc. La competenza regolamentare governativa non si estende alle spese relative all'ordinamento degli uffici pubblici, le quali debbono sempre essere approvate con la legge del bilancio.
L'ordinamento delle pubbliche amministrazioni, o, almeno, la disciplina della nomina degl'impiegati statali poteva essere materia di regolamenti autonomi o indipendenti, contemplati dal n. 2 dell'art. 1 della legge del 1926. Infatti, lo statuto (art. 6) attribuisce al re la facoltà di nominare a tutte le cariche dello stato, per cui, in base alla disposizione generale del citato art. 1, n. 2, il potere esecutivo può emanare le norme necessarie per disciplinare la nomina agli uffici pubblici statali. Le norme emanate in base a queste autorizzazioni sarebbero regolamenti autonomi o indipendenti. Ma il legislatore in materia di organizzazione di amministrazioni pubbliche non ha attribuito al potere esecutivo semplicemente la facoltà, in genere, di provvedere, ma ha attribuito direttamente ed espressamente la facoltà di emanare norme; perciò i regolamenti emanati non appartengono alla categoria dei regolamenti autonomi o indipendenti, ma a quella dei regolamenti delegati.
Nel diritto italiano la facoltà di emanare regolamenti, non soltanto esecutivi o delegati, ma anche autonomi, ha ormai il suo fondamento giuridico nella legge che esplicitamente la attribuisce.
La legge 31 gennaio 1926 considera soltanto la facoltà regolamentare del governo; ma la facoltà regolamentare è attribuita anche agli enti locali (comuni, provincie, ecc.). Il podestà, p. es., quale capo dell'amministrazione comunale, può emanare regolamenti riguardanti il trattamento economico e lo stato giuridico degli impiegati e salariati comunali, i regolamenti di uso dei beni comunali, d'igiene, edilizia e polizia locale e i regolamenti che possono occorrere per l'applicazione dei tributi comunali (legge com. e prov. 3 marzo 1934, n. 383, art. 53, n. 2, 6, 10).
L'esercizio della potestà regolamentare sia da parte del governo sia da parte degli enti locali incontra un limite nelle leggi in senso formale, le quali non possono essere né abrogate né modificate in nessuna guisa da una disposizione regolamentare. La legge formale può essere abrogata solo da un'altra legge formale o da un atto avente efficacia di legge in senso formale. I regolamenti degli enti locali, poi, incontrano un altro limite nei regolamenti dello stato, e i regolamenti comunali anche in quelli della provincia. Una disposizione regolamentare, che violasse questo limite, sarebbe illegittima e il giudice non la potrebbe applicare, quantunque egli, se è giudice ordinario, non abbia potestà di annullarla. La competenza regolamentare attribuita in alcune materie al potere esecutivo o agli enti locali non impedisce che il legislatore possa disporre in queste stesse materie con leggi formali. Se ciò accadesse, la legge formale sopravvenuta abrogherebbe o modificherebbe la precedente disposizione regolamentare con essa incompatibile. Una disposizione regolamentare può essere anche abrogata o modificata da un successivo regolamento.
La facoltà regolamentare del potere esecutivo si esercita mediante decreti reali. Si possono dire casi eccezionali i regolamenti ministeriali; però, bisogna notare che nella legislazione italiana in questi ultimi anni venne frequentemente attribuita anche a singoli ministri la potestà di emanare regolamenti per l'esecuzione di leggi, potestà che in qualche caso venne attribuita solo temporaneamente, fino a un dato termine o fino alla pubblicazione del regolamento definitivo. Così, con l'art. 344, comma 30 e 40, del testo unico per la finanza locale 14 settembre 1931, n. 1175, il ministro delle Finanze fu autorizzato a dettare "norme provvisorie di applicazione aventi carattere obbligatorio".
Quanto alla formazione dei regolamenti, la citata legge 31 gennaio 1926 stabilisce che sui regolamenti da emanarsi con decreto reale deve essere sentito il parere del Consiglio di stato. Ottenuto il parere, lo schema di regolamento deve essere sottoposto alla deliberazione del Consiglio dei ministri, dopo la quale viene firmato dal re il decreto reale che emana il regolamento. Alle volte il regolamento è allegato al decreto reale e allora deve essere vistato e sottoscritto, d'ordine del re, dal ministro proponente. Il decreto reale di emanazione deve essere inviato alla Corte dei Conti per il controllo di legittimità. Col visto della Corte dei conti, anche se questo è stato dato con riserva, il regolamento diventa esecutorio. Finalmente, il regolamento diventa obbligatorio con la pubblicazione, la quale avviene nelle forme stesse di pubblicazione delle leggi, cioè mediante inserzione del regolamento nella Raccolta ufficiale delle leggi e decreti del Regno d'Italia e l'annunzio di questa inserzione (o la pubblicazione del regolamento) sulla Gazzetta ufficiale. Il regolamento entra in vigore nel quindicesimo giorno da quello dell'annunzio (o della pubblicazione) sulla Gazzetta ufficiale. Per la formazione dei regolamenti ministeriali la legge non stabilisce forme particolari: di solito non vengono sottoposti né al parere del Consiglio di stato, né alla deliberazione del Consiglio dei ministri, né alla registrazione della Corte dei conti. Debbono, però, essere pubblicati perché diventino obbligatorî.
I regolamenti degli enti locali devono essere, per solito, sottoposti all'approvazione di un'autorità governativa. Con l'approvazione diventano esecutorî, e diventano obbligatorî con la pubblicazione, la quale comunemente avviene mediante affissione all'albo pretorio.
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