Città, Regno di Sicilia
I trent'anni compresi tra la scomparsa di Guglielmo II (1189) e la celebrazione della Curia generale di Capua da parte di Federico II nel dicembre del 1220, che videro, prima, la lotta per la successione al trono tra Tancredi di Lecce e l'imperatore Enrico VI, marito di Costanza d'Altavilla, e poi i due periodi di anarchia in coincidenza con la minorità di Federico II e la sua lunga assenza dal Regno, segnano il momento più alto delle autonomie cittadine nel Mezzogiorno: momento che venne a coincidere con il periodo della massima espansione delle istituzioni comunali nel resto d'Italia, anche se proprio in quegli anni cominciavano a verificarsi in area padana i primi esperimenti di tipo signorile. A questa coincidenza è da aggiungerne però anche un'altra, alla quale non si è prestata finora la dovuta attenzione: il conseguimento da parte del papato di una posizione di assoluta preminenza all'interno non solo della cristianità occidentale, ma anche della società politica italiana e, in buona parte, europea. I pontefici, soprattutto Alessandro III (1159-1181) e Innocenzo III (1198-1216), furono infatti i decisivi punti di riferimento delle città italiane, di quelle del Nord nella lotta contro il Barbarossa e di quelle del Sud nella difesa dalle prevaricazioni dei capi militari tedeschi, venuti in Italia meridionale al seguito di Enrico VI e rimastivi a spadroneggiare durante la minorità del figlio Federico. E fu proprio il ruolo svolto dal papato in quegli anni che favorì la circolazione anche al Sud dei modelli costituzionali che si venivano sperimentando nel resto della penisola e di cui erano espressione emblematica le figure di consoli, podestà, capitani, rettori, che vediamo sulla scena politica di alcune città meridionali: Gaeta, Teramo e altre non meglio individuate ("in quibusdam partibus regni nostri" dice Federico II nelle Costituzioni di Melfi: I, 50). Tra esse è da porre anche Napoli, sebbene non si conosca per quegli anni la precisa configurazione del suo governo; non sono attestati, infatti, né consoli né podestà, sembrando piuttosto l'arcivescovo il principale punto di riferimento della città.
L'esplosione del movimento autonomistico non era però un fatto insolito e legato unicamente alla prospettiva della protezione papale, ma solo la riproposizione in grande stile e in maniera generalizzata di una linea di tendenza che aveva attraversato tutta l'età normanna e che aveva visto i duchi e i re, fin dal tempo di Roberto il Guiscardo e di Ruggero II, il fondatore della monarchia, impegnati a ridefinire continuamente i loro rapporti con i poteri locali: feudi, enti ecclesiastici e città. Ne era scaturito, per quanto riguarda queste ultime, un modello organizzativo che vedeva alla guida di quelle sottoposte alla diretta giurisdizione del re un funzionario regio generalmente denominato baiulo (stratigoto a Salerno, Amalfi e Messina, compalazzo a Napoli, catapano a Bari ed in altre città pugliesi), responsabile della gestione dei beni demaniali e della riscossione dei servizi e dei tributi dovuti al sovrano dalla città nonché dell'amministrazione della giustizia civile, ma a volte anche di quella criminale, come nel caso di Napoli, ai cui abitanti Ruggero II aveva concesso il privilegio di non doversi recare fuori della città per presentarsi davanti ad un tribunale regio. A lui si affiancava però un collegio di giudici, che erano sì nominati dal sovrano, ma erano proposti o comunque espressi dalla comunità cittadina (Calasso, 1971, pp. 76-78), che pertanto non era del tutto priva della capacità di prendere iniziative nelle questioni di interesse locale, ma anche di partecipare alle scelte più importanti che la riguardavano. All'interno di questo ordinamento tipo si poneva, nondimeno, tutta una serie di situazioni particolari, che risalivano alle condizioni pattuite al momento della resa ai normanni: condizioni che i sovrani cercavano al momento opportuno di superare, ma che ciò nondimeno rendevano le città del Regno diverse l'una dall'altra. Si trattava di concessioni non di poco conto: rispetto delle consuetudini locali (Castellaneta, Troia), baiulo scelto tra i cittadini (Gaeta, Atina, Bari), esenzione dal servizio militare per terra e per mare (Bari, Cefalù, Benevento), limitazioni nell'imposizione di tributi, controllo delle fortificazioni cittadine (Amalfi, Salerno) nonché franchigie varie. Senza contare, infine, i margini di movimento legati alla presenza sulle loro cattedre vescovili di presuli in grado di svolgere un ruolo di equilibrio e di mediazione tra apparato regio e istanze locali: mediazione ovviamente non facile, data la dialettica politica assai vivace in atto nelle città, le quali nelle turbinose vicende di quel trentennio si schierarono in un campo o nell'altro a seconda della fazione che riuscì ad imporsi (Gaeta, Capua, Aversa, S. Severo, Messina). Eppure agli storici che hanno guardato a quegli anni con occhio attento non è sfuggito l'emergere tra gli abitanti delle città di una embrionale coscienza del Regno, per cui mai fu messo in discussione il potere sovrano come istanza istituzionale unitaria e il Regno come patria comune (ibid., pp. 108-113; Caravale, 1987, p. 394). Vi contribuì anche l'azione vigile di Innocenzo III, intenzionato a salvaguardare l'unità del Regno e con essa i diritti del suo pupillo Federico.
In questa prospettiva interpretativa va collocato il comportamento di quelle città ‒ Termoli, Molfetta, Bisceglie, Bari, Brindisi, Gaeta ‒ che conclusero in quegli anni trattati di commercio o di amicizia con città straniere, quali Ragusa, Venezia, Pisa e Marsiglia. Indubbiamente esse operarono con grande autonomia nei riguardi di un potere monarchico in crisi, ma è anche da tener presente che quegli accordi furono sottoscritti non solo dagli esponenti degli organismi municipali, ma anche da funzionari regi a livello cittadino o provinciale, dei quali evidentemente si continuava a riconoscere l'autorità. In altri termini, quei trattati, se miravano a tutelare gli interessi degli operatori economici locali e delle oligarchie dominanti nelle città, non per questo si configuravano necessariamente come atti di contestazione del potere monarchico.
Un caso particolarmente interessante è quello di Gaeta, città dotata di una grande coscienza di sé e che godrà sempre di forme di autonomia tra le più avanzate dell'Italia meridionale. Già infatti al momento della sua resa a Ruggero II, nel 1140, aveva ottenuto di conservare la sua costituzione e quindi il diritto di eleggere consoli, senza dover chiedere di volta in volta il consenso regio; ad essi il re avrebbe affiancato un baiulo come suo rappresentante, ma scegliendolo tra gli stessi gaetani. È probabile tuttavia che in seguito il sovrano normanno, analogamente a quel che fece altrove, abbia cercato di svuotare di contenuto l'autonomia concessa, nominando baiulo uno stesso dei consoli, dato che nel 1149 compare in un documento privato un tal Bono, console e baiulo del re. Certo è che nel 1191 i gaetani, nello schierarsi dalla parte di Tancredi, oltre a farsi concedere l'ampliamento del demanio cittadino attraverso la donazione dei due castelli di Itri e Maranola, ottennero anche la conferma del loro ordinamento politico, ma con la precisazione che il baiulo non potesse essere scelto né tra i consoli né tra i membri del consiglio cittadino. Nel 1208 poi la città stipulò un patto di amicizia con Marsiglia, e nel 1214 fece lo stesso con Pisa. Con quest'ultimo i consoli di Gaeta si impegnarono per venticinque anni, a nome dei loro concittadini, a stare in pace con i pisani, a rendere loro giustizia se fossero stati offesi da un cittadino di Gaeta e a non accogliere nel loro porto navi ostili alla città toscana.
Rispetto a questo scenario che cosa rappresentano il ritorno dell'imperatore nel 1220 e la forte accelerazione da lui impressa al consolidamento delle istituzioni monarchiche con la Curia generale di Capua? In quella sede fu decisa la rivendicazione di tutti i diritti regi che erano stati usurpati nel trentennio precedente: fu pertanto ridimensionata la potenza dei feudatari, dei quali si decise di abbattere i castelli costruiti abusivamente, e vennero annullate le più avanzate forme di autonomia cittadina, sulla base di un progetto politico tendente, pur nel dichiarato proposito di rispettare le "buone consuetudini" del tempo di Guglielmo II, a ridurre le diversità, in termini di autonomia, esistenti in precedenza tra le varie città. L'obiettivo era quello di ricondurle tutte ad un modello unico, incentrato sul ruolo determinante del rappresentante regio, il baiulo, e su una partecipazione minima dei cittadini, i quali avevano innanzitutto l'obbligo di cooperare con i funzionari regi, in particolare per la ripartizione delle imposte in sede locale. Le città, tuttavia, non persero la loro fisionomia di organismi con una propria individualità e con esigenze particolari, essendo documentato che esse potevano quanto meno farsi rappresentare dal proprio sindaco nelle cause con altre università e con persone private nonché imporre dei tributi ai propri membri per soddisfare i loro bisogni, come la costruzione di una fontana, di un ponte o di un ospedale, la pavimentazione di una piazza (Vitolo, Organizzazione dello spazio, 2001, pp. 54-58).
Una novità assoluta dell'età sveva fu costituita certamente dalla partecipazione dei rappresentanti delle città alle curie regionali, le assemblee generali che furono istituite nel 1234 e che si tenevano due volte l'anno ‒ il 1o maggio e il 1o novembre ‒ nel capoluogo di ognuna delle regioni in cui fu diviso il Regno: Piazza Armerina per la Sicilia, Cosenza per la Calabria, Gravina per la Puglia e la Lucania, Salerno per il Principato, la Terra di Lavoro e il Molise. Ad esse erano tenuti a partecipare, oltre ai funzionari regi provinciali (giustizieri e camerari), anche prelati, conti, baroni e rappresentanti delle città, allo scopo di raccogliere eventuali lamentele contro gli abusi commessi dai funzionari pubblici, sui quali in linea di principio il sovrano cercava di esercitare un controllo anche attraverso il coinvolgimento dei cittadini (Calasso, 1971, p. 141). Non si trattava, come si vede, del riconoscimento di un potere consultivo o deliberativo, quanto piuttosto dell'obbligo, per i "nuncii" delle città, di "contemplare la serenità del volto dell'imperatore" e riferire ai loro concittadini gli ordini da lui impartiti. Tutto questo valeva però anche per gli esponenti della feudalità e del mondo ecclesiastico, ai quali ugualmente la volontà dell'imperatore si imponeva in maniera assoluta. Anzi, le rare volte in cui Federico accenna, sia pur genericamente, a decisioni prese dopo essersi consultato con altri, non manca di far riferimento, oltre che ai prelati, ai conti e agli aristocratici, anche alle città.
Che esse costituissero una delle realtà territoriali fondamentali del Regno è dimostrato del resto dalla cura con cui l'imperatore volle garantirsene il pieno controllo, rafforzando i castelli in esse esistenti, soprattutto là dove la popolazione si era mostrata nel passato particolarmente irrequieta, come a Gaeta, a Napoli e ad Aversa. Né può dirsi che le sue preoccupazioni fossero infondate, come si vide di lì a poco a Gaeta, che, incoraggiata dal pontefice Gregorio IX, dal quale Federico era stato scomunicato per non aver assolto all'impegno di partire per la crociata, si ribellò nel 1229 al sovrano, distruggendo il castello da poco costruito e buttandone a mare le macerie. Mandati in esilio gli esponenti del partito filoimperiale, i rivoltosi riconobbero il dominio del pontefice in qualità di signore feudale del Regno, ottenendone il 21 di giugno di quell'anno un privilegio, con il quale si concedevano alla città le stesse ampie libertà di cui godeva Anagni, tra cui la possibilità di coniare moneta e creare giudici, notai e altri ufficiali, e con la sola imposizione di un podestà forestiero, a quel che sembra di nomina papale, ma su proposta dei cittadini. E si trattava, evidentemente, di concessioni assai vantaggiose, se i gaetani mostrarono una grandissima determinazione nel difenderle, respingendo ancora nel 1232 gli appelli del papa, che, rappacificatosi ormai con il sovrano, aveva inviato nella città il suo cappellano per indurla a venire a patti.
In questa circostanza Napoli se ne rimase tranquilla, ma altre città seguirono l'esempio di Gaeta, mostrando così come il vigile controllo dell'imperatore su tutta la vita del Regno non ne avesse fiaccato affatto la vitalità; e ciò soprattutto là dove c'era una tradizione di autonomia cittadina anteriore all'arrivo dei normanni, come appunto a Gaeta. Qui, come si è visto, non tutti avevano aderito alla rivolta, ma alcuni avevano cercato di impedirla, pagando la loro scelta con l'esilio e, probabilmente, anche con la confisca dei beni. All'origine di essa non è da escludere che ci fosse una tenace fedeltà all'imperatore, ma la vicenda è da inserire piuttosto in quelle divisioni interne alle comunità urbane, a cui già si è fatto poc'anzi riferimento per l'età normanna. Ne aveva consapevolezza lo stesso Federico II, il quale, nell'ordinare nel 1232 l'intervento dei rappresentanti delle città ai parlamenti generali, richiese che essi non fossero coinvolti in lotte interne.
Dopo aver ridefinito l'assetto complessivo del Regno con le Costituzioni di Melfi e nel mentre tentava di venire a capo della resistenza delle città, il sovrano si preoccupò anche delle condizioni economiche del paese, e con un interesse ed una continuità certamente nuovi per i regnanti del tempo: furono così regolamentati i monopoli, le dogane e tutta l'attività mercantile, mentre gli scambi furono facilitati attraverso l'apertura di nuove fiere nelle principali città (Sulmona, Capua, Lucera, Bari, Taranto, Reggio), la vigile manutenzione dei porti e soprattutto mediante l'impegno con cui furono garantite la sicurezza delle strade e l'incolumità dei mercanti (v. Fiere e mercati). Nello stesso tempo il sovrano promosse la fondazione di nuove città (Augusta, Gela, Altamura) e procedette al potenziamento dell'apparato pubblico attraverso il reclutamento di uno stuolo di funzionari centrali e periferici tra i ceti borghesi e tra le famiglie della piccola nobiltà: funzionari per la cui formazione giuridica fondò lo Studio di Napoli.
Basta tutto questo per parlare di totale cancellazione di ogni spazio di autonomia? Generalmente si risponde di sì, ma sulla scorta degli studi che nell'ultimo decennio Mario Caravale ha dedicato agli ordinamenti politici medievali è lecito credere che lo stato federiciano, pur essendo indubbiamente il meglio organizzato del tempo e quello che esprimeva la più alta progettualità politica, non fosse affatto in condizione di operare prescindendo completamente dai poteri locali, che era possibile comprimere temporaneamente, ma non cancellare del tutto. Una prova è rappresentata dai giudici cittadini, i quali erano sì di nomina regia, ma continuarono ad essere eletti dai cittadini e da loro proposti al re o ai suoi funzionari.
Si tratta di una questione assai importante, dai più considerata ancora aperta, ma la cui soluzione appariva già chiara agli inizi del nostro secolo ad uno storico della letteratura dell'Università di Napoli, Francesco Torraca, il quale, occupandosi di Guido delle Colonne e in polemica con Carlo Alberto Garufi, affrontò la questione dei giudici cittadini, dimostrando sulla base sia delle Costituzioni di Melfi sia di tre documenti pubblicati da Huillard-Bréholles che essi, dopo essere stati eletti dai cittadini, dovevano presentarsi all'imperatore o a un suo delegato, muniti di lettere testimoniali dei loro concittadini attestanti la loro idoneità a ricoprire l'incarico: idoneità sia di carattere morale sia relativa alla conoscenza delle consuetudini locali (Torraca, 1902, pp. 397-406, 460-467). Delle Costituzioni di Melfi il Torraca richiamava la 79 del libro I (De iudicis et notariis), nella quale si dice appunto che le università demaniali debbono eleggere i giudici e inviarli cum testimonialibus litteris alla Curia regia, dove saranno esaminati e ordinati, cioè nominati. Si tratta chiaramente di una formula di compromesso, che salvaguardava il diritto delle città di eleggere i propri giudici, ma anche le prerogative del sovrano, dispensatore unico della giustizia, dato che il giudice, una volta da lui nominato, agiva non più per conto della comunità cittadina che lo aveva eletto, ma in nome dell'imperatore.
Lo si evince con assoluta certezza da uno dei tre documenti citati dal Torraca, che ci consente di conoscere nei dettagli tutta la procedura. Si tratta di una lettera del 1239 nella quale Federico II, rivolgendosi ai cittadini di un'università di cui non si conosce il nome, comunica di aver approvato l'elezione del loro giudice, basandosi appunto sulle lettere testimoniali esibitegli dall'eletto, e quindi di averlo immesso nella carica, esortandoli nello stesso tempo a prestargli il dovuto rispetto tamquam iudici per nostram excellentiam ordinato, vale a dire come a un giudice nominato dal sovrano e che agisce in suo nome. Non sempre però le cose andavano così. Lo dimostra un mandato del 14 novembre di quello stesso anno, anch'esso pubblicato da Huillard-Bréholles (Historia diplomatica, V, nr. 491), ma non citato dal Torraca, con il quale Federico II, dopo aver espresso al giustiziere del Principato, Tommaso di Montenero, il suo sconcerto per l'elezione a giudice di Salerno di Matteo Curiale, "mercante illetterato e assolutamente inadatto a tale ufficio", gli ordina di rimuoverlo dalla carica e di porre al suo posto un altro uomo, "capace, fedele e sufficientemente istruito". Dal tenore del mandato si capisce chiaramente che l'errore del giustiziere, il quale aveva agito per conto del sovrano, allora a Lodi, era consistito nell'aver approvato l'elezione di una persona non idonea a svolgere le funzioni di giudice.
Ma, qualora si avesse ancora qualche incertezza sulla questione, c'è un altro documento, la cui interpretazione non può dare adito a dubbi. Si tratta di un atto notarile rogato a Canosa, in Puglia, il 4 giugno 1266, con il quale il notaio Simeone fa autenticare dal giudice e dal notaio della città una lettera inviatagli dal giustiziere di Terra di Bari, Pandolfo di Fasanella; con essa il giustiziere, in esecuzione di un mandato di Carlo d'Angiò, gli ordina di recarsi personalmente in alcune località per richiamare i giudici eletti dai cittadini all'obbligo di presentarsi al giustiziere per essere investiti del loro ufficio: prassi, questa, che poi risulta ampiamente documentata a partire dal 1270 in tutte le province del Regno, e quindi anche a Napoli (Schipa, 1906, p. 100). Orbene, se si considera che dalla battaglia di Benevento (26 febbraio 1266), e quindi dalla conquista del Regno da parte di re Carlo, erano passati appena tre mesi, è logico pensare che in così poco tempo non si sia potuto mettere mano ad una riforma delle amministrazioni locali e che la prassi alla quale si richiamava Pandolfo di Fasanella fosse già in vigore in età sveva; tanto più se si considera che, al di là dei proclami e delle dichiarazioni ufficiali, Carlo d'Angiò si poneva, per quel che riguardava le prerogative del potere regio, su una linea di assoluta continuità con la politica di Federico II, per cui le novità che si ebbero progressivamente ‒ e, in ogni caso, in maniera assai lenta ‒ in età angioina nell'ambito delle autonomie cittadine furono fondamentalmente scelte obbligate, compiute dai suoi successori, legate alla crisi di direzione politica della dinastia. Se ancora oggi circolano al riguardo idee diverse, è per la perdurante e, peraltro, meritata autorevolezza di Francesco Calasso, il quale operò una troppo rigida distinzione tra età normanno-sveva ed età angioino-aragonese, elaborando uno schema interpretativo di suggestiva efficacia ma, come sempre accade, non del tutto aderente alla realtà storica.
Che Federico II non volesse e non potesse prescindere nella sua azione politica dalle realtà locali, ma le considerasse, sia pure su un piano di subalternità, parte integrante della sua azione di governo, è dimostrato anche dal ruolo che attribuiva alle consuetudini che ne regolavano la vita. Esse, già confermate, come si è detto, nella Curia generale di Capua, avevano un posto ben preciso nella gerarchia delle fonti del diritto codificata nelle Costituzioni di Melfi, le quali ne riconoscevano la piena validità in tutte le materie non regolamentate in maniera completa dalle costituzioni imperiali e dal diritto comune. Anzi, in qualche caso, come ad esempio a Palermo, l'imperatore assicurò che esse sarebbero state considerate valide anche per quanto riguardava le citazioni giudiziarie e la procedura civile e penale, che pure erano state regolamentate a Melfi (Bocchi, 2000, p. 493).
Questo non impediva che i funzionari pubblici, in buona o cattiva fede, operassero tentativi di prevaricazione ai danni delle comunità locali, tentando di conculcare i loro diritti, o che i castellani delle fortezze poste a presidio delle città facessero sentire la loro presenza più di quanto non prevedessero le Costituzioni melfitane e le ripetute disposizioni regie, che vietavano loro ogni ingerenza nelle amministrazioni cittadine. Ma in tali casi era possibile far appello alle autorità superiori, vale a dire ai giustizieri, e allo stesso sovrano, nonché esprimere lagnanze, come si è detto, in occasione delle curie regionali. Il sovrano, del resto, si muoveva instancabilmente attraverso il Regno per controllare di persona che tutto funzionasse a dovere e per far sentire direttamente la sua presenza sul territorio. Gina Fasoli ha ricostruito i suoi spostamenti nella primavera del 1240 sulla base delle tante lettere e circolari che partivano dagli uffici di cancelleria, i quali si spostavano regolarmente insieme al sovrano: il 19 marzo era ad Antrodoco (Rieti), il 22 a Pescara, il 28 ad Apricena (Foggia), il 28-29 a Foggia, il 30 a Tressanti (Cerignola), il 31 a Salpi, il 1o aprile a Orta, il 3 a Lucera, fra l'8 e il 15 di nuovo a Foggia, il 16 a Lucera, il 17 a Celano, in Abruzzo; tra il 20 e il 27 era ancora a Foggia, il 27-28 a Orta, il 28-29 a Coronata (Apricena), il 1o maggio di nuovo a Orta, il 3 a Foggia, il 26 a Napoli.
Ma c'erano città per le quali aveva una particolare predilezione e alle quali attribuiva un ruolo più importante nel contesto dell'ordinamento del Regno? Di recente è stata riproposta la vecchia tesi di Napoli come seconda capitale del Regno e ad essa ne è stata aggiunta anche una terza, Foggia, per cui le capitali sarebbero state addirittura tre: Palermo, Napoli e Foggia (Cuozzo-Martin, 1995). La questione non dovrebbe, però, essere posta in questi termini, e ciò non solo perché allo stesso titolo potrebbero legittimamente aspirare, con argomenti vari, anche altre città ‒ e a quel punto si vanificherebbe il concetto stesso di capitale, già peraltro discutibile nell'ipotesi di tre città capitali ‒, ma soprattutto perché l'idea di capitale sembra fuori dell'orizzonte mentale del sovrano svevo, il quale mirò non a concentrare ruoli e funzioni in una o in due-tre località, ma a distribuirli sul territorio. Negli anni 1235-1250 si vennero così delineando all'interno del Regno tre grandi poli: l'area campana incentrata sul triangolo Capua-Napoli-Salerno, la Capitanata e la Terra di Bari con Foggia, Barletta e Brindisi, e la Basilicata con Melfi.
L'area pugliese, che fu in assoluto quella più frequentata dall'imperatore, svolgeva il ruolo di polo economico del Regno e, diremmo oggi, di laboratorio delle sue sperimentazioni agrarie e produttive. È l'area delle grandi masserie regie ‒ cerealicole e armentizie ‒, di cui ora conosciamo bene l'organizzazione grazie agli studi di Mario Del Treppo ed i cui prodotti alimentavano le speculazioni commerciali del sovrano. Quest'area aveva indubbiamente quello che oggi chiameremmo il suo centro direzionale a Foggia, dove l'imperatore fece iniziare nel 1223 la costruzione di una sua residenza (domus) e dove avevano casa non pochi funzionari ed esponenti della Curia. Nella città inoltre si svolsero anche le curie generali del 1232 e del 1240, e nel 1238 vi furono convocati tutti i giustizieri per organizzare la riscossione della colletta generale. Foggia però non fu la sede di tutti gli organismi di governo dell'area pugliese né tanto meno monopolizzò le attenzioni del sovrano, che puntò invece a valorizzare anche altri centri. Così, quando nel 1234 creò le già citate curie regionali, per la Puglia e la Lucania fu scelta come sede Gravina e non Foggia. Né può dirsi che allora siano valse considerazioni di carattere geografico, essendo Gravina in posizione più centrale rispetto all'intera area pugliese e lucana, perché una considerazione del genere non varrebbe poi per Salerno, scelta come sede per la curia regionale di Principato, Terra di Lavoro e Molise: province rispetto alle quali si trovava chiaramente in posizione troppo eccentrica. A Barletta, invece, fu insediata nel maggio del 1240 la curia dei maestri razionali, ufficio di grande importanza nel contesto dell'organizzazione dello stato federiciano, essendo preposto al controllo dei conti di tutti i funzionari pubblici. È vero che qualche anno dopo questa magistratura contabile, per meglio assolvere ai suoi compiti, fu decentrata in tre sedi, ma all'ufficio di Barletta rimase la competenza per le province di Terra di Bari e Terra d'Otranto, mentre la Capitanata insieme alla Basilicata facevano capo alla sede di Melfi. A Barletta inoltre fu istituita la regia zecca per la coniazione delle monete d'oro. Per quelle d'argento continuò invece la produzione nella zecca di Brindisi, un'altra città che ricevette le cure dell'imperatore, soprattutto a causa dell'importanza del suo porto, dove si imbarcavano i viaggiatori e i crociati diretti in Oriente e dove venivano caricati i prodotti delle masserie regie destinati al mercato estero; venne perciò potenziato il suo arsenale, al punto da poter ospitare fino a venti navi (per avere un termine di confronto, si consideri che il porto di Napoli, anch'esso ingrandito al tempo di Federico II, ne poteva contenere tra sei e otto).
La Basilicata, con i vari castelli, palazzi e domus pro venationibus et solaciis, si configurava nella mente di Federico come il polmone verde del Regno, il luogo del riposo e dello svago. Il centro più importante era certamente Melfi, sede, come si è detto, della curia dei maestri razionali per la Capitanata e la Basilicata, oltre che luogo in cui vennero promulgate le famose Costituzioni del 1231.
La Campania, infine, appariva come il polo culturale del Regno, l'area che, per essere prossima alla frontiera con i domini pontifici, era anche la più adatta ad ospitare le rappresentazioni simboliche del potere. Questo ruolo non era assegnato però ad una sola città, ma almeno a tre: Capua, Napoli e Salerno.
Capua, con la sua famosa porta carica di significati simbolici e con le sue tradizioni culturali, soprattutto in ambito retorico-letterario, peraltro valorizzate proprio da esponenti di rilievo della corte federiciana, primo fra tutti Pier della Vigna, fu anche la sede delle Assise del 1220 e la città nella quale, dopo Foggia, l'imperatore risiedette più di frequente.
Salerno era nota come centro di cure mediche fin dal sec. XI, e proprio nei primi decenni del Duecento vi si formò la famosa Scuola medica attraverso l'unificazione di precedenti scuole private di medicina, frequentate da studenti che venivano anche dall'estero: operazione che avvenne probabilmente per impulso dello stesso sovrano, il quale rese obbligatorio l'esame davanti ai maestri di medicina salernitani per coloro che aspiravano ad ottenere dalla Curia regia l'autorizzazione all'esercizio della professione medica (Vitolo, Tra Napoli e Salerno, 2001, pp. 216-221). Forse fu proprio per il suo prestigio culturale, e nonostante la sua posizione geografica non adatta, che la città, come si è detto poc'anzi, fu scelta a sede della curia regionale per le tre province di Principato, Terra di Lavoro e Molise, rispetto alle quali era Napoli ad essere collocata in posizione più favorevole.
Infine Napoli, sede dello Studio e di un importante convento domenicano, dove probabilmente frequentò i corsi di arti e di teologia Tommaso d'Aquino, nonché città che si gloriava di annoverare tra i suoi protettori non solo martiri e confessori famosi, ma anche Virgilio, la cui leggenda di mago e di nume tutelare di Napoli, ben documentata già dalla fine del sec. XII, doveva certamente essere nota negli ambienti della corte sveva, fortemente sensibili al fascino della romanità. Napoli, infine, era la città nella quale Federico II volle farsi rappresentare nel ruolo al quale egli attribuiva maggiore importanza, quello di dispensatore della giustizia.
Come si vede, funzioni e ruoli sono distribuiti tra i maggiori centri della regione e non concentrati in un solo luogo: un modello molto diverso rispetto a quello che poi si sarebbe imposto a partire dal secolo seguente e che in prosieguo di tempo avrebbe portato ad un grandioso sviluppo di Napoli ed al concentramento in essa di una parte notevole delle risorse economiche e culturali del Regno.
Gli storici ritengono per lo più che queste misure siano state in parte vanificate da un esasperato fiscalismo, che mirava ad accrescere le entrate dello stato, per permettere al sovrano di condurre una politica di potenza in Italia centrosettentrionale, estranea agli interessi del paese; si tratta però di una valutazione per la quale è assai difficile trovare riscontri di natura quantitativa nelle fonti del tempo. Queste registrano sì le lamentele dei sudditi, di cui si fece portavoce presso il sovrano il fedele funzionario regio Tommaso da Gaeta, soprattutto per quel che riguardava la trasformazione della colletta (v.) da tributo straordinario in imposta ordinaria, ma non ci forniscono elementi per capire se il carico fiscale fosse oggettivamente insopportabile o se non si trattasse piuttosto della comprensibile resistenza di fronte alla novità di un apparato statale capace di fornire, sul piano dell'ordine interno, dell'amministrazione della giustizia e del sostegno alle attività economiche, servizi per quantità e qualità fino ad allora sconosciuti in Occidente e quindi più costosi per i contribuenti.
Quello che è certo è che gran parte delle città, comprese quelle che avrebbero dovuto avere molti motivi per sentirsi legate alla memoria di Federico II, tra cui Napoli, Capua e Foggia, si ribellarono ai suoi successori, per cui Corrado IV e Manfredi dovettero penare non poco per riprenderne il controllo. Si trattò di una reazione al fiscalismo svevo? Indubbiamente in parte sì, ma in parte non minore è da ritenere che vi abbia contribuito l'accanimento di Innocenzo IV, prima contro l'imperatore e poi contro i suoi figli: accanimento che costituì un pericoloso precedente per i successivi interventi papali nella vita politica del Regno, il cui processo di consolidamento sarà sempre ostacolato, fino alla fine del Medioevo, dalla prospettiva che avevano i nemici interni della monarchia di ricorrere all'aiuto dei pontefici, che su di esso vantavano diritti di alta sovranità fin dalla fondazione.
fonti e bibliografia
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