Regioni come territori capaci: governo regionale e qualità dei territori
Nel presente saggio verranno analizzate le performance e la qualità dei governi regionali da una prospettiva particolare: quella dei territori che sono stati chiamati ad amministrare, considerati sia come oggetto di politiche, sia come risorsa per lo sviluppo locale. I governi regionali esistono ormai da diversi decenni (le regioni a statuto ordinario furono istituite nel 1970, e quelle a statuto speciale risalgono al 1948) e si può assumere che abbiano lasciato impronte profonde, sia positive sia negative, sul territorio. Essi hanno ereditato dal passato realtà molto eterogenee e con un diverso carico di problemi e di potenziali, che nel corso del tempo hanno fornito opportunità, vincoli, problemi e risorse per lo sviluppo sempre nuovi: il modo in cui i governi sono riusciti a gestire tutto ciò mostra le loro qualità politiche e amministrative, benché il loro operato non possa essere isolato dalla filiera della sussidiarietà verticale e vada considerato entro la mutevole divisione del lavoro istituzionale, in cui intervengono molteplici protagonisti ed è possibile adottare formule diverse.
Per sviluppare questo tema verrà proposto, in via quasi sperimentale, un approccio finora poco frequentato: quello delle capacità. Intendiamo cioè valutare se i governi regionali stiano contribuendo allo sviluppo di ‘territori capaci’, poiché questo è il punto dirimente. Questi ultimi, come vedremo meglio, sono quelli che da un lato sanno preservare e valorizzare in modo sostenibile le loro migliori qualità, e dall’altro sono in grado di costituire ‘ecologie capacitanti’, cioè tali da promuovere le capacità individuali e di gruppo. Le ecologie capacitanti, a loro volta, possono essere viste sia come funzionamenti (modi di essere e di fare) di individui e di gruppi che agiscono nei contesti locali, sia come risorse critiche per lo sviluppo sostenibile delle società e dei territori. È forse utile introdurre qui una precisazione terminologica, poiché il linguaggio talvolta inganna: non va confuso il concetto usuale di ‘capacità di carico’ (che traduce l’inglese carryng capacity), ossia la capacità portante dell’ambiente, con quello di acquisizione di capacità o ‘capacitazione’ usato in questo saggio. La capacità di carico segnala un limite oltrepassato il quale si innescano processi irreversibili; le capacitazioni sono invece l’abilità di governarsi sotto vincolo, cioè, tra l’altro, entro i limiti della capacità di carico: il territorio in futuro dovrà sempre più sapersi misurare con le diverse forme di capacitazione.
Il governo regionale nel corso del tempo ha variamente tentato di gestire il territorio: nel passato, per lo più in funzione di un modello di crescita e, dagli anni Novanta, anche nella prospettiva della sostenibilità, della coesione e delle qualità sociali. Tuttavia i territori risultano più o meno capaci soprattutto in funzione delle sfide globali, che consistono essenzialmente, per la maggior parte delle regioni italiane, nei problemi legati alle transizioni postindustriali, alla globalizzazione dei processi e dei flussi, e specificamente – per il suo impatto sugli ecosistemi locali – al mutamento climatico e alla crisi ambientale globale. In futuro risulteranno capaci quei territori che meglio si sono attrezzati e qualificati per far fronte a tali sfide, per preservare qualità cruciali paesaggistiche e non, per offrire ai cittadini ecologie locali in cui possano fiorire buone pratiche di autogoverno e processi economici sostenibili.
L’apporto del governo regionale a questo esito ipotetico è parziale, poiché esso rappresenta solo un fattore all’interno di processi socioeconomici parzialmente autonomi (il mercato e i processi socioculturali). Tuttavia, anche per la spinta dei programmi comunitari, il governo regionale si è sempre più dotato di strumenti di policy variegati e più o meno efficaci. Il territorio viene regolato, se non governato, attraverso piani paesaggistici, piani di assetto territoriale, piani strutturali, piani regolatori, nonché attraverso le formule più recenti quali i Programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile (PRUSST), introdotti nel 1998, i Piani integrati territoriali (PIT), introdotti tra il 2000 e il 2006, e i loro equivalenti, i piani strategici. I Programmi operativi regionali (POR), anch’essi avviati nel 2000, hanno certamente avuto qualche impatto territoriale e hanno anche spinto i governi regionali a dotarsi di più ampie regolazioni per gli insediamenti produttivi o residenziali, per le infrastrutture del turismo, per la valorizzazione dei beni culturali, per la gestione di criticità locali quali, per es., i diffusi rischi idrogeologici.
In questo saggio, l’impatto dei governi regionali verrà analizzato nel contesto delle società locali: il loro capitale sociale, la natura delle attività produttive prevalenti, la storia politica regionale e così via. Tuttavia ipotizzeremo che, sebbene sia difficile decifrarla, esista una relazione biunivoca tra territori e governabilità regionale, come tra società locale e caratteri del governo politico, e infine tra i caratteri complessivi del territorio e le sue capacità, nel senso sopra indicato. Non tutti i governi regionali, infatti, risultano egualmente preparati a rispondere alle sfide in corso, né tutti i territori sembrano egualmente in grado di uno sviluppo non solo adattivo ma anche sostenibile. Queste differenze dipendono certamente da fattori storici, ma ai nostri fini sembrano essere legate piuttosto proprio alla qualità dei governi regionali: ciò che si erano proposti di realizzare e hanno omesso di fare, i loro errori, i ritardi e gli opportunismi a fronte della somma delle opere pubbliche ‘buone’, della cura dei beni comuni, del sostegno al buon capitale sociale e alle pratiche civiche.
Prima di passare a esaminare, nell’ordine, la varietà dei territori, la costruzione della relazione biunivoca tra territori e governi regionali, le tendenze dominanti di fatto e i tentativi di governo territoriale, va precisato ulteriormente cosa s’intenda con il termine polisemico territorio. Esso è in primo luogo suolo, ossia una sintesi di caratteri naturali e antropizzati su cui si svolgono le attività umane; poi è paesaggio, nello stesso tempo bene ambientale e bene culturale di pregio che registra l’impatto delle attività umane nel tempo; infine è ecologia, cioè un ‘involucro protettivo’ delle comunità locali altamente differenziato che a sua volta può essere più o meno capacitante. Di volta in volta sottolineeremo aspetti diversi della questione, ma principalmente faremo riferimento a questi tre, anche per semplicità del discorso.
Nella seconda parte di questo contributo, prendendo in esame più da vicino il percorso di due importanti regioni quali la Toscana e la Puglia, verranno esaminati i differenti approcci regionali ai territori e gli stili di governo, il diverso peso della storia e del cumulo dei problemi attuali; verranno valutate inoltre le differenti possibilità di evoluzione verso ‘territori capaci’; infine verranno tratte alcune conclusioni più generali sulla natura e le possibilità dei governi regionali e sull’evoluzione dei territori affidati alla loro cura.
Tra i caratteri più cospicui del territorio italiano vi è la sua varietà: un tratto che ha sempre colpito viaggiatori e studiosi e che anima anche il turismo contemporaneo. Per varietà s’intende non solo la diversità tra paesaggi, che pure resta l’elemento maggiormente incisivo, ma anche il grado di variabilità delle qualità territoriali entro spazi contigui. Vi è un gran numero di ecologie e di paesaggi che si succedono, spesso rapidamente, sotto gli occhi del viaggiatore, e si ritene giustamente che preservare questa specificità sia un compito importante del governare, trattandosi di un bene comune molto pregiato. La varietà non è solo frutto della natura, ma anche dell’uomo, dato che si tratta sempre di paesaggi ed ecosistemi antropizzati, spesso anche in profondità. Il territorio infatti è sempre stato oggetto di governo, sin dai tempi di Dante in Toscana (come illustra il celebre ciclo di affreschi nel Palazzo Pubblico di Siena di Ambrogio Lorenzetti, Allegorie ed effetti del buono governo e del cattivo governo, 1338-1339; cfr. Q. Skinner, L’artiste en philosophe politique, 2003), o da quelli di Federico II in Puglia, ma anche prima. Proprio questa profondità storica dimostra come vi sia stata sempre nel tempo un’inerenza tra governo e caratteri territoriali, di cui i governi regionali contemporanei rappresentano, per così dire, solo l’ultima ‘sfoglia’ aggiunta, che potrebbe rivelarsi anche molto sottile (cfr. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario, 1961). Si può affermare, in termini discorsivi, che alla varietà naturale si sia aggiunta, sovrapposta fino al punto di diventare caratterizzante, la varietà della governabilità regionale. Pertanto nell’eterogeneità dei territori leggiamo anche l’eterogeneità dei governi, e in quella dei governi il riflesso più o meno mediato di caratteri strutturali e non contingenti degli spazi.
I territori subiscono inoltre continue trasformazioni. Seguendo regole e piani, o anche e forse soprattutto fuori da regole e piani, viene generata sempre nuova varietà: ed è proprio qui che sorgono i problemi.
Se guardiamo al territorio attraverso le sue criticità e attraverso le qualità che deve acquisire per competere e generare coesione, vediamo che esso è soggetto e oggetto di una grande complessità (che talora aumenta anche quando la varietà territoriale tende a diminuire per impatti omologanti e neutralizzanti). È difficile sottrarsi alla sensazione che, traslando tanta complessità ai processi di governance, si finisca per cadere in una crisi da sovraccarico: rispetto a essa, diventano carenti o insufficienti le risorse cognitive, quelle finanziarie, quelle progettuali a disposizione della filiera della sussidiarietà. Amministrazione e politica appaiono diversamente stressate, talora costrette a rinunciare o a ricorrere a scorciatoie, o anche alla sperimentata omissione o al rinvio delle scelte. Il territorio si presenta come vario, molteplice, multidimensionale e multiscalare. In questi caratteri si radicano le sue fragilità e insieme le sue potenzialità. La varietà dipende tanto dalle vicende storiche, quanto dagli interventi compiuti nella fase più recente, che si sono variamente esercitati su aree vaste. Ma mentre da un lato la varietà è diventata oggetto di analisi e di progettazione (per ragioni sia di coesione sia di competitività), dall’altro risulta sempre più evidente quanto essa si sia andata riducendo nel corso del tempo a causa dell’impatto omologante dei processi economici (per es. nelle aree distrettuali, o nei territori dello sprawling urbano o nella padana ‘città infinita’), per l’applicazione di metri di valutazione standardizzati derivanti dai programmi comunitari, o per l’edificazione di opere ‘indifferenti’ al territorio (cfr. A. Clementi, Infrascape, 2003; Infrastrutture e progetti di territorio, a cura di A. Clementi, 2006). Si dice – e a ragione – che la varietà territoriale sia una risorsa, specie nella prospettiva dello sviluppo locale. Tuttavia essa è anche un ostacolo e un fattore di sovraccarico decisionale, perché richiede cura e attenzione.
I territori identitari rivendicano sì autonomia, ma chiedono anche trasformazioni che vanno nella direzione implicita dell’omogeneizzazione. L’analisi è diventata capace di comprendere anche le varietà minori (per es., nella letteratura ecologica e negli studi sul paesaggio), ma nella prassi si mira spesso a essere più simili, per sentirsi uguali o, come si dice, più coesi. E la competitività non solo esige una simile uniformazione di base per tutti (anche per criteri di giustizia), ma comporta anche la diffusione sul territorio di strutture e reti che, connettendo, trasmettono mediatamente imperativi di convergenza e assimilazione.
In sintesi, il territorio è percorso da processi e tensioni ineguali e che non vanno tutti nelle stesse direzioni. La globalizzazione tende a omologare e confondere (come si può notare nel landscaping metropolitano) e anche l’obiettivo di diventare competitivi, paradossalmente, induce tutti i sistemi locali a voler essere la stessa cosa (si pensi al tema del turismo, variamente declinato in ogni piano territoriale che si rispetti). Con tutto ciò, le differenze ereditate dal passato e quelle nuove generate dalla reazione differenziata ai flussi globali sono non meno importanti, specie se vi si vuole cercare potenziali inesplorati, che potrebbero diventare cruciali proprio nella transizione attuale. Alla ricerca della matrice delle trasformazioni in corso, si dovrebbe esplorare meglio la resilienza dei territori agli shock esterni (un gran laboratorio in questo ambito sono i cambiamenti in atto nei distretti), e la capacità di generare e incorporare innovazione (organizzativa, regolativa, tecnologica). Si tratta di modi differenziati, che non riescono a tutti, di provare il passaggio verso l’economia della conoscenza. Un altro indicatore della trasformazione (intesa come processo intrecciato di riduzione e riproduzione diversificata della varietà territoriale) è offerto dai mutamenti nelle reti: specie nel passaggio da reti chiuse e corte (tradizionali e spesso legate a forme negative di capitale sociale) a reti lunghe e aperte (più capaci di innovare e di inserirsi in contesti globali).
I territori rivelano il loro progetto di differenzazione (sia coesiva sia competitiva) anche – e forse oggi soprattutto – nella capacità di generare una visione condivisa a carattere strategico circa il proprio futuro. In tale visione (prodotta per es. nel corso di piani strategici o loro analoghi come le Agende 21 avviate nel 1992), la varietà storica viene ritematizzata come risorsa, in funzione della produzione delle trasformazioni ritenute necessarie e auspicabili (lo mostrano, per es., i documenti dei piani strategici di città come La Spezia o Trento). Si parla di ‘vocazioni’ territoriali – formule sintetiche per esprimere la varianza territoriale – che non sono più date dal passato, ma vengono progettate per il futuro. Le soluzioni adottate hanno diversa probabilità di realizzazione, ma i territori ci provano comunque, sollecitati anche dall’offerta di piani e progetti incentivati dal governo centrale e dall’Unione Europea. Tali visioni incorporano un programma di mutazioni a medio termine del ‘genoma’ territoriale, che orienta l’attrattività degli investimenti, la natura delle opere pubbliche richieste, i dispositivi di controllo sociale delle comunità. I governi locali sono notoriamente diventati molto attivi su questi fronti, e in genere si può dire che anche i territori si siano mobilitati: in questo senso la loro resilienza è aumentata, sostenuta anche dall’infrastruttura in evoluzione della sussidiarietà.
Altri due punti invece presentano più problemi. Il primo è la capacità dei territori di muoversi entro regolazioni complesse, offerte dal centro e dall’Unione Europea, ma in parte anche elaborate localmente (come per es. gli indirizzi di sviluppo locale sostenibile). In quest’ambito ciò che conta è il capitale sociale locale disponibile, specie sotto il profilo delle culture e delle norme sociali che deviano in modi diversi rispetto all’ordinamento giuridico. Il secondo punto è la capacità di governo delle istituzioni locali, che vanno dal sindaco all’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (APAT), dalla Caritas al Forum del terzo settore. Quasi tutte le istituzioni indubbiamente si sono esercitate entro programmi che implicano tavoli di negoziato, formule neocorporative e pratiche deliberative, almeno consultive, ma non si deve dimenticare che nei territori sono radicati interessi molto potenti legati al rent seeking, e anche molte cattive abitudini del ceto politico. Si tratta di fragilità per lo sviluppo e la trasformazione dei territori, e si tratta di territori riottosi alle regolazioni più esigenti. Essi preservano una malsana varietà normativa, per la quale al momento (malgrado i PIT e i piani strategici diffusi di ultima generazione) non si dispone di adeguate strategie d’intervento.
Infine i territori si distinguono anche per il modo in cui affrontano e prima di tutto identificano i lori punti deboli. In primo luogo devono uscire dalle logiche dell’emergenza (che sono così redditizie sul piano politico), e ciò non è facile; poi il governo locale e le policies territoriali devono accrescere la loro capacità progettuale, cosa oggi possibile solo entro programmi complessi e approcci strategici. Tuttavia non tutti ne sono consapevoli o sono disposti a farlo e, in un certo senso, si può solo contare sul ruolo civilizzatore dell’ipocrisia virtuosa a cui nell’arena pubblica oggi tutti devono piegarsi. Eppure le criticità, che certo non mancano ovunque, costituiscono uno dei tratti portanti della varietà territoriale, anche perché esse possono essere della più varia natura: disoccupazione giovanile, integrazione di immigrati, periferie degradate, pendolari in rivolta, inquinamento da traffico, declino economico da deindustrializzazione, invecchiamento della popolazione. È infatti in base ai punti di debolezza che viene costruito l’albero delle decisioni e che, di volta in volta, vengono compiute le scelte: tutte le risorse cognitive, motivazionali, gli interessi e le capacità sono chiamati a concorrere a tale selezione. Gli errori, infatti, possono ritardare per una generazione o anche per sempre l’entrata di un territorio in un’altra varietà.
Quindi il territorio, chiamato a governare la propria varietà e a collocarsi in una diversa tipologia, vede mobilitarsi gli attori e nascerne di nuovi. In modo più empirico, le capacità del territorio come attivazione di potenzialità sono visibili negli attori e nelle loro nuove configurazioni. Criteri dirimenti per valutare tali capacità potrebbero essere: la capacità di stare entro conflitti costruttivi (con esito che non sia stallo decisionale o somma negativa), la capacità di ritematizzare le criticità, di stare in rete e di accettare gli embrioni di costituzionalizzazione richiesti da tavoli, arene deliberative e partenariati entro progetti complessi. In altri termini, le capacità di progettazione degli attori sono più qualificate e complesse delle precedenti (non solo nel senso di una maggiore competenza tecnica, ma anche di un’accresciuta capacità di sviluppare preferenze migliori), così come la capacità di interagire in modo non distruttivo con i progetti altrui (quelli di altri livelli di governo, di altri territori che hanno spillover, di attori non territoriali). E quindi gli attori crescono sul terreno della ‘neovarietà territoriale’ a patto che non si isolino (poiché il localismo è il funerale della varietà e della territorialità attiva), non si trincerino in sindromi NIMBY (Not In My BackYard), non trattino il territorio come un mercato protetto. Per contro, la capacità di stringere alleanze dentro e fuori dal territorio, anche con soggetti lontani, costituisce l’indice della crescita della varietà governata. In definitiva, i progetti impliciti ed espliciti di rinnovamento territoriale, più o meno formulati e tematizzati in politiche, sono il sintomo di una varietà reattiva e che si dispone a gestire la propria trasformazione prima che qualcuno gliene imponga un’altra progettata altrove.
Il punto di vista della varietà permette infine di riconsiderare anche il tema, per noi centrale, della relazione biunivoca tra caratteri del governo regionale e caratteri del territorio. Le intuizioni del buon senso vengono qui confermate: a territori in cattive condizioni corrispondono forme di mal governo regionale, o almeno governi impotenti o incapaci. Per contro, dove troviamo territori in salute e fiorenti, o almeno in grado di non disperdere in modo insostenibile il proprio valore, vediamo che sono state messe in atto politiche efficaci e, in generale, si è avuto un buon governo, inteso anche come relazione responsabile tra governanti e governati. Insomma, nell’evolversi della varietà territoriale si coglie anche il carattere più o meno democratico dei processi locali. Per questo la qualità e la varietà capacitante dei territori rappresenta un test importante della qualità del governo. È inutile del resto sottolineare che a territori malati corrisponde quasi sempre un cumularsi di questioni sociali quali marginalità, degrado urbano, perdita di coesione territoriale e sociale (C. Donolo, Coesione? Ma dove, ma come?, in A. Clementi et al., Paesaggi interrotti, 2013, pp. 37-64), conflitti endemici irrisolti, degrado delle condizioni per attuare i processi capacitanti dei cittadini.
La relazione biunivoca si stabilisce in quanto il territorio, sotto il profilo della politics locale e delle scelte collettive, si presenta come un’ecologia di giochi. Essa è descrivibile come un insieme di convenzioni, di pratiche sociali, di conflitti su risorse scarse, di lotte per il riconoscimento. Tutto questo rinvia in modo spesso implicito e indiretto a strutture basilari delle società locali nel loro rapporto con il territorio, per es. al peso dei diritti proprietari e alla mappa delle opportunità di rent seeking. La diversità locale – ossia, in una data regione, l’insieme di una serie interconnessa di varietà e di ecologie – codetermina lo spazio di capacitazione di tutti gli attori. D’altra parte, politica e amministrazione sono anche la stratificazione storica delle esperienze nel e con il territorio, e ciò quanto più il territorio è antropizzato. Governare significa fare buon uso del margine di lasco che sempre è lasciato in questa relazione. Di conseguenza, alla lunga, il territorio registra e assorbe anche questo tipo di varianza, come innovazione, aumento della varietà territoriale, ampliamento degli spazi di capacitazione per gli attori. E il ciclo continua lungo il sentiero dei circoli virtuosi e viziosi che contribuiscono alla definizione dei caratteri territoriali.
Come abbiamo accennato, il governo regionale non è l’unico fattore capace di produrre effetti sul territorio. Osservando le aree di sprawling urbano nella Padania, o gli assi congestionati dei distretti veneti, o anche le criticità ambientali dovute a siti inquinati spesso macroscopici sparsi qua e là, si ricava l’impressione che vi sia stata una gestione molto debole dei processi territoriali. In verità, però, hanno dominato altre forze, spesso ben più virulente e persistenti. Il territorio è oggetto di numerosi interventi e programmi governativi, che tuttavia non si può dire che agiscano in profondità: piuttosto essi appaiono come un fattore di rallentamento, un katekon, di processi entropici spesso molto marcati. Lo si vede nel modo in cui sono state costruite le nuove periferie, come sono state spesso malamente collocate e disegnate infrastrutture viarie o elettrodotti, come si è lasciato largo spazio ad abusivismi di ogni sorta tra villettopoli e seconde case. Le coste in particolare hanno subito, anche nelle regioni meglio amministrate, un assalto potente che ha comportato un’imponente cementificazione e alterazione degli ecosistemi locali. I diritti di edificazione, come vengono chiamati, acquisiti magari in un passato lontano, continuano a essere fatti valere in modo quasi irresistibile – spesso con l’avallo dei Tribunali amministrativi regionali (TAR) – anche quando ormai i piani sono diversi e più orientati alla sostenibilità e alla salvaguardia di beni comuni ambientali e paesaggistici. In questo modo viene anche depotenziato il valore turistico dei luoghi e viene minacciata la varietà in un complessivo processo di urbanizzazione omogeneizzante (si vedano, per la descrizione delle trasformazioni delle coste pugliesi: M.V. Minnini, La costa obliqua, 2010; per i problemi politici delle strategie di sviluppo: Donolo 2003; I. Vinci et al., Pianificazione strategica in contesti fragili, 2010; Attualità dello sviluppo, a cura di V. Fini, V. De Leo, 2012; The spatial strategies of Italian regions, ed. I. Vinci, 2014; per i problemi generali: S. Settis, Italia spa, 2007; Id., Paesaggio, Costituzione, cemento, 2010).
Osservando poi gli interessi legati alla rendita fondiaria, urbana e in certi casi anche turistica, emerge che il governo regionale risulta spesso impotente, benché si cerchi di canalizzare i processi attraverso i POR e anche altri strumenti di pianificazione, come gli URBAN, i progetti comunitari per la rivitalizzazione delle aree urbane più degradate iniziati nel 1994. Pesano in questo contesto, infine, i poteri autonomi dei comuni, le cui amministrazioni sono più esposte alla pressione degli interessi particolaristici e alle tentazioni di opportunità a breve termine, secondo le modalità assunte in generale dalla politica anche a livello nazionale. Il territorio, insomma, è soggetto a un coacervo di interessi forti (macro e microinteressi che si sommano tra loro), che tendono nei loro esiti a ridurre la varietà in una complessiva omologazione: lottizzazioni, sprawling, villettopoli, resort turistici, tutti implicanti una pesante uniformità formale (come del resto avviene con le ‘cattedrali del consumo’ collocate in posizioni strategiche nelle reti di comunicazione). La complessità giuridica delle regolazioni (P. Urbani, Territorio e poteri emergenti, 2007; Id., Le nuove frontiere del diritto urbanistico, 2013) rende spesso poco efficace l’intervento pubblico anche meglio intenzionato e ciò rivela, ancora una volta, che quello regionale è appunto un governo debole (cfr. Donolo 2012; M. Bricocoli et al., Milano downtown, 2012).
In conclusione, quando si vogliono individuare le caratteristiche territoriali e rapportarle alle forme e ai mezzi di governance, ci si imbatte in una relativa impotenza degli strumenti e, di conseguenza, anche in una parziale deresponsabilizzazione dei governi locali. Ciò però è rischioso sia perché mette a repentaglio valori economici importanti (per es., nel caso di degrado paesaggistico), sia perché banalizza i processi democratici, sia infine perché conduce a una progressiva dispersione del capitale sociale locale.
Gli effetti di governo sul territorio sono una sottoclasse delle trasformazioni che dipendono da fattori eterogenei, vicini e lontani nel tempo e nello spazio. Anche per quanto riguarda il sistema delle autonomie locali, molto deriva dal loro lavoro complessivo; si tratta quindi spesso di effetti indiretti, e a volte solo tardivamente riconosciuti. Un ruolo sempre più importante lo svolgono i governi locali ai diversi livelli, tanto più quando si considerano gli effetti di attività più vicine nel tempo. Le loro azioni, che si definiscono politiche di governo del territorio, comprendono le politiche urbanistiche e urbane, la politica infrastrutturale e delle opere pubbliche, le politiche ambientali in senso stretto, le politiche di valorizzazione di beni culturali e ambientali, le politiche della messa in sicurezza di rischi industriali, sismici o idrogeologici. E la lista non è esauriente. Questi interventi nel corso del tempo, e in particolare dalla seconda metà degli anni Novanta, hanno assunto propriamente la figura di politiche (policies) formali, in quanto – soprattutto sotto impulso comunitario – la variegata serie degli interventi obbligatori o volontari è stata formalizzata in un discorso di politiche pubbliche (cfr. Il futuro delle politiche pubbliche, a cura di C. Donolo, 2007; La ragione politica, 2° vol., I discorsi delle politiche, a cura di V. Borghi, O. De Leonardis, G. Procacci 2013, con specifico riferimento al governo del territorio). Ciò permette meglio che in passato di valutare il loro impatto effettivo e di riconoscere l’eventuale loro forza autonoma rispetto ad altri fattori di metamorfosi territoriale.
Le regioni producono una documentazione programmatica che genera regolazioni anche molto dettagliate, definizione di standard di riferimento e di criteri di valutazione, agende e tempistica degli interventi, tavoli di concertazione, formule di governance e una congerie di forme attuative del criterio della sussidiarietà verticale e orizzontale. Questa legislazione regionale fornisce l’alveo entro cui dovrebbe poi scorrere quella di livello inferiore, settoriale o di scala locale, ma nei fatti ci si scontra poi con il territorio in tutta la sua varietà, vischiosità e reale complessità: è difficile – come del resto ben noto nel caso dei Piani regolatori generali comunali (PRGC) – che da quelle indicazioni normative o programmatiche, esposte in forma coerente, derivino poi effetti di governo univoci e tanto meno diretti. L’ordinato quadro sinottico delle politiche quando diventa operativo si sfrangia in una matassa spesso impenetrabile, in cui sopravvivono soprattutto gli opportunisti di turno. Indubbiamente attraverso l’opera di governo molte cose vengono frenate o impedite, altre facilitate e accelerate; ma certo gli effetti (che consistono nelle conseguenze pratiche osservabili di un dato modo di governance) dipendono da molti fattori intermedi, anche devianti, che arrivano fino al ruolo del contenzioso amministrativo. Malgrado questa difficoltà, alcuni effetti sono visibili e un planning ben concepito e reso operativo da amministrazioni capaci di vario livello produce impatti positivi, come risulta dall’esame dei due casi, quello pugliese e quello toscano, proposto nel paragrafo successivo.
In genere introdurre nuovi elementi (un’opera, un insediamento, un resort o un ipermercato) risulta più facile che impedire abusi o sprechi (il problema del consumo di suolo), o curare situazioni critiche (siti inquinati, rischi di vario tipo, degrado di paesaggi di pregio). Il compito più difficile, anche dove esistano i presupposti istituzionali e regolativi appropriati, resta la cura del territorio come bene comune, per la quale spesso mancano persino le basi culturali. Così le questioni della sostenibilità e della coesione sono finora rimaste marginali, ovvero di scarso peso nei processi territoriali effettivi, anche quando esplicitamente dichiarate nei documenti programmatici. Qui le virtuosità sono spesso di scala locale, come nel caso dei comuni ben amministrati (dal punto di vista energetico e ambientale). Le complesse mediazioni con gli interessi forti (che comprendono anche l’insieme dei microinteressi virulenti, tipicamente nel caso dell’abusivismo) a livello aggregato, pur necessarie a livello regionale, finiscono per ridurre molto l’incidenza delle normative, anche di quelle ben intenzionate. In molti casi appare già un buon risultato salvare il salvabile o impedire il peggio. Si può arrivare alla situazione estrema, ma tutt’altro che improbabile, che nelle regioni dove si cumulano condizioni quali instabilità dei governi, fiducia e lealtà istituzionale scarse, diffuse sregolazioni, economie criminali e abusivismi rampanti, esista solo proforma un governo del territorio, che è piuttosto nelle mani dei poteri di fatto. Proprio per questa ragione abbiamo scelto, per illustrare il nostro assunto, regioni dove al contrario si è tentato e si vuole davvero un governo del territorio, con l’intento anche di correggere molti deficit e fragilità del passato (come intende fare il recente piano paesaggistico pugliese, adottato nel 2013).
Mentre vi sono certamente, e perfino in regioni dissestate, tanti piccoli comuni e medie città ben governati, a livello regionale sono rare le situazioni soddisfacenti o che almeno si approssimino all’idea guida di un territorio governato, i cui processi siano resi sostenibili, coesivi e capacitanti per i suoi abitanti, come pure si legge nei testi dei piani e dei programmi. Nel valutare i due casi in esame, bisognerà tenere conto di tali difficoltà.
Il confronto qui proposto è solo esemplificativo, e serve soprattutto a mostrare come si potrebbe condurre un’analisi più dettagliata di quella qui presentata. Consideriamo, non proprio a caso, due regioni diverse: la Toscana e la Puglia. Entrambe hanno territori molto variegati, antropizzati e ricchi di beni culturali, oltre che paesaggi pregiati a livello internazionale. Sono regioni con una lunga e diversa storia alle spalle (cfr. Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Toscana, a cura di G. Mori, 1986; La Puglia, a cura di L. Masella, B. Salvemini, 1989) e che presentano in modo diverso alcuni problemi ambientali, spesso derivati da fasi precedenti dell’industrializzazione; entrambe, inoltre, devono affrontare la questione di come governare i processi di progressiva urbanizzazione del territorio.
I loro governi regionali sono stati diversi a partire dagli anni Settanta: la Toscana ha avuto amministrazioni prevalentemente progressiste e stabili, mentre in Puglia si è succeduta una serie di governi moderati o di destra che ha poi portato, nel 2005, a due legislature consecutive di sinistra. In Toscana possiamo dare per scontata una diffusa cultura civica che assume varie forme: associazionismo, terzo settore, municipalismo, sostanziale lealtà e fiducia nelle istituzioni locali, diffuse buone pratiche di partecipazione. In Puglia questi elementi sono storicamente più precari, a macchia di leopardo, intermittenti, pur vantando la regione una importante tradizione urbana (non tanto nei capoluoghi ma nelle diverse città contadine, come nella Valle d’Itria), e anche un’attiva partecipazione ai recenti processi di modernizzazione. Pesante è inoltre l’eredità dei diffusi abusivismi edilizi, e ricorrenti sono le gravi crisi ambientali dovute a un’industrializzazione insostenibile (come a Brindisi e Taranto). Tuttavia la Puglia è una regione vivace, ricca di imprenditorialità, con un’agroindustria moderna, ed essa resta uno dei poli attrattivi del turismo nazionale e internazionale, grazie anche alle ricche e diversificate dotazioni: dal romanico alle architetture federiciane, dal barocco salentino all’area dei trulli, fino naturalmente alle coste balneabili.
Da sottolineare che entrambe le regioni vantano diverse culture dell’alimentazione, la classica toscana e l’emergente mediterranea, che costituiscono ulteriori capitali virtuali importanti. Le due regioni presentano elevati livelli di crescita e sviluppo negli ultimi decenni, fino a una specie di maturità distrettuale in Toscana, che inizia a costituire un problema; viceversa in Puglia, dopo la stagione degli investimenti industriali pubblici, resta una diffusa imprenditorialità in settori tradizionali, ma anche di avanguardia (meccanica e aerospaziale).
Entrambe le regioni godono poi di intensi flussi turistici che costituiscono una voce importante del PIL (Prodotto Interno Lordo) regionale. A elevati livelli di benessere diffuso in Toscana, dovuti sia all’economia distrettuale sia alle politiche di welfare locale (che però oggi trovano, come ovunque, limiti e carenze), in Puglia corrisponde una faticosa conversione a un’economia moderna della vasta classe bracciantile (rimasta sostanzialmente invariata dai tempi di Giuseppe Di Vittorio, 1892-1957). La questione occupazionale è sempre stata seria e oggi, poi, come nel resto del Sud, si cumula con le nuove forme dell’inoccupazione giovanile. Marginale può essere considerata la questione della criminalità organizzata, che pure è una spina nel fianco di ogni sviluppo sostenibile.
La lunga storia della Toscana l’ha portata ad aderire in toto alla modernità nelle sue varie fasi, ma oggi si trova di fronte a problemi più grandi: riconversioni industriali, metamorfosi dei distretti (come nel caso estremo di Prato), invecchiamento della popolazione e una certa stagnazione della capacità innovativa (si vedano su questo punto i documenti del Piano di indirizzo territoriale della Regione). In Puglia la modernità è arrivata più repentinamente e più tardivamente, in modo spesso traumatico, come si registra anche nelle forme dell’habitat urbano, e solo in tempi molto recenti si può dire che l’intera popolazione sia uscita dall’alveo dell’antica cultura agraria. Tuttavia essa è la regione più dinamica e dotata del Meridione, capace di mostrare che anche il Mezzogiorno può farcela (G. Viesti, Più lavoro, più talenti, 2010), e che ha retto meglio di altre la crisi economica degli anni Dieci del Duemila.
Il territorio toscano è sempre stato oggetto di regolazioni accurate fin dai tempi del Granducato (per una documentazione anche iconografica, cfr. L’architettura civile in Toscana dall’Illuminismo al Novecento. Il paesaggio toscano, a cura di A. Restucci, 2002) e conserva paesaggi di pregio universale, un patrimonio culturale senza eguali e ben preservato, da cui non emergono criticità ambientali e territoriali gravi. Tuttavia, anche come conseguenza della crisi, si diffondono casi di siti industriali abbandonati, cave mal gestite (comprese quelle dei marmi delle Alpi Apuane), un eccesso di infrastrutture viarie ingombranti in territori delicati, una tendenza alla residenza unifamiliare sparsa o alla lottizzazione per seconde case: insomma, problemi minori rispetto al quadro nazionale, ma pur pesanti proprio per il valore speciale del territorio toscano, dove anche piccole perturbazioni possono provocare squilibri importanti. Il governo regionale è intervenuto con piani e programmi via via sempre più dettagliati: sul paesaggio, sul governo sostenibile, sulla terapia di crisi ambientali locali, sulla promozione oculata e così via. Nell’insieme si può dire che queste regolazioni hanno avuto l’effetto di preservare la sostanza del territorio, senza però riuscire a impedire sbavature, eccessi, omissioni, correzioni tardive. La sfida della Toscana è quella di riuscire a governare bene e mantenersi all’altezza del patrimonio ricevuto, mentre un certo provincialismo della classe dirigente emerge rispetto al compito di ricollocare il bene comune della regione nel quadro globale (economico ma anche culturale). Questi limiti sono del resto riconosciuti negli stessi documenti di programmazione regionale, preoccupati dal calo demografico, da una certa tendenza al rent seeking, da una diminuita capacità d’innovazione ecc.: tendenze proprie, del resto, a tutti i territori ‘maturi’, il cui modello di sviluppo va spesso radicalmente ripensato per le sfide future di un mondo globale.
Nell’insieme le culture progressiste che hanno gestito la regione si sono evolute in senso gestionale, manageriale, mentre il ceto politico, venuto meno il sostegno di un’organizzazione di partito capillare, sempre più è dovuto ricorrere ad alleanze spesso improprie con i poteri forti (come del resto si registra a livello nazionale). Ma ancor più sembra poco a poco diluirsi e quasi svanire la cultura della cura e della gestione, responsabile alleata del capitale civico locale, anche per i naturali processi di modernizzazione. Indicare le terapie, ammesso che esistano, non è certo facile. Nei documenti programmatori si nota lo sforzo di mettere a fuoco questi problemi emergenti, di natura economica, ma anche di cultura civica, di coesione sociale, di prospettiva per le giovani generazioni al di là dell’orizzonte della rendita turistica e di immagine. C’è forse ancora un legame troppo stretto con le tradizioni un po’ stereotipate e campanilistiche, e una difficoltà a comprendere che l’intera economia della cultura che innerva la vita regionale va decisamente spostata sul versante della società della conoscenza e delle capacitazioni più diffuse: la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa costituisce un’eccellenza, ma ci vogliono anche più diffuse competenze sia nella sfera pubblica sia in quella privata. Altrimenti, e come esito anche non voluto, lo stesso governo dei territori può andare in crisi, diventare debole e inefficiente e soprattutto non riuscire in quella valorizzazione intelligente che è ora necessaria. Si tratta di sfide note, di cui si discute, anche se al momento non sembrano prospettarsi investimenti cognitivi e motivazionali all’altezza del problema. Il rischio di rendite di posizione è molto alto, come avviene del resto in tutte le città d’arte in Italia.
La Puglia, invece, presenta problemi di altro ordine più che di altra natura (per un’introduzione ai territori, ai paesaggi e ai beni culturali pugliesi si rinvia ai classici studi di Cesare Brandi). Gli strumenti di governo del territorio in passato sono stati meno incisivi, e maggiore è stato il peso degli interessi particolaristici e degli abusivismi. Un importante argomento di legittimazione della debolezza regionale è stato quello della necessità di uscire dal sottosviluppo e dalla marginalità: la crescita poteva anche avvenire a spese di altri beni e, per via della carenza di beni pubblici, concedendo molto spazio alle iniziative private. Inoltre in Puglia è stato particolarmente pesante il ruolo delle grandi corporations energetiche e delle partecipazioni statali, specie nella siderurgia. Ciò spiega gran parte di quanto avvenuto nella seconda metà del Novecento: la regione è cresciuta, si è modernizzata, le città si sono rinnovate e, sia pure molto lentamente, così è avvenuto per le infrastrutture (si pensi alla lenta elettrificazione e al raddoppio della linea Bari-Lecce), riuscendo infine sia con l’agricoltura sia con l’industria e poi anche con il turismo a realizzare una quota importante del PIL nazionale.
Esaurita la stagione delle lotte contadine, la civiltà pugliese è diventata prettamente urbana, pur mantenendo caratteri di fondo dell’antico regime agrario, come si nota nel Salento, nelle Murge o nelle città bianche del Brindisino. I primi governi regionali si sono limitati a coinvolgere la Puglia nella strategia dell’intervento straordinario, delegando il resto all’iniziativa privata, nel bene e nel male. L’abbattimento dell’ecomostro di Punta Perotti (2006) ha sigillato simbolicamente la fine di questa fase. Tuttavia nel frattempo le coste si erano pesantemente urbanizzate sia per l’espansione delle periferie e dei nuclei urbani costieri, sia per il numero elevato di insediamenti turistici e di lottizzazioni anche entro i 500 metri dal mare. L’urbanizzazione dei servizi, al contrario, è restata molto incompleta. Tutte le città dell’interno sono fortemente cresciute per quanto riguarda l’edificazione, se non per quanto riguarda il numero di abitanti. Anche le infrastrutture, decisamente migliorate, hanno avuto la loro parte nel consumo di suolo, su cui grava anche la diffusione di cave e discariche abusive.
I paesaggi di pregio dell’ulivo, nelle Murge interne, nella Valle d’Itria e poi nel Salento, sono stati messi decisamente sotto pressione, e in vaste zone appaiono fortemente alterati rispetto a quello che erano anche solo alla fine degli anni Novanta. Ma più ancora hanno pesato le esternalità negative, specie sulla salute, dei grandi impianti industriali come quelli di Brindisi e Taranto, spesso con scala dei problemi quasi intrattabile. Ciononostante, mare, sole, cibo e arte rimangono dei grandi attrattori e il turismo costituisce una voce consolidata e importante, come mostra l’ampio numero di agriturismi di alto livello che attraggono soprattutto ospiti stranieri. Dal principio degli anni Duemila, si è cercato di intervenire in modo più efficace sull’uso dei territori e sulle loro vocazioni, anche per impedire che il patrimonio si degradi e in certi casi si esaurisca. Mentre tanti centri storici e beni culturali sono stati recuperati e resi accessibili, la grande questione rimane quella del governo di area vasta, data anche la varietà dei territori regionali, che hanno diversa vocazione e diverso valore come bene comune.
Una fase importante è stata quella dei PIT, che in Puglia hanno assunto una versione particolare, più accentrata ma anche molto articolata, con l’individuazione di un numero ristretto di aree vaste, entro le quali collocare progetti di sviluppo sostenibile. Ciò ha arricchito indubbiamente le capacità di governo regionale e ha fatto maturare competenze anche nelle amministrazioni locali. Invece è rimasto sempre piuttosto debole il peso dell’attivismo ambientale e in difesa dei beni comuni, poiché il criterio della sostenibilità, come anche della coesione, è entrato con difficoltà nella cultura di governo. Lo sforzo più impegnativo è stato il Piano paesaggistico regionale, avviato nel 2007, che ha sollevato numerose controversie, ma che meritoriamente impone una serie di limiti e fa chiarezza sui valori in gioco. Proprio la compresenza di città, industria, agricoltura di pregio, turismo di massa e di nicchia, esige un modello di sviluppo sostenibile diffuso e l’adozione da parte di tutti gli attori (specie quelli economici) di nuovi parametri di riferimento, meno opportunistici e meno orientati a rendite facili. Gli esiti di questa battaglia non sono ancora chiari, ma certamente la regione si è dotata degli strumenti necessari ad agire e governare il territorio. Tali nuove regole, che orientano verso l’idea di una cultura condivisa, richiedono la promozione di capacità diffuse nella popolazione e specie nelle minoranze attive: amministratori, professionisti, attivisti sono chiamati a una diversa cultura della responsabilità. Gli impatti territoriali si vedranno nel tempo, ma si spera almeno che vengano evitati alcuni eccessi nell’abuso del territorio, che in passato invece venivano considerati normali.
In Toscana come anche in Puglia la lunga crisi del primo decennio degli anni Duemila ha fatto riemergere come prioritarie questioni che erano state quasi trascurate nella fase del benessere da crescita: quella dell’occupazione e della disoccupazione giovanile, la necessità di liberare l’impresa dall’eccesso di vincoli, lo sfruttamento intensivo delle risorse disponibili (compresi i beni comuni), senza guardare troppo al futuro e alla sostenibilità. Tali urgenze rendono più difficili individuare strategie capacitanti, nel senso inteso in questo saggio, sia per carenza di risorse sia per lo scadimento dell’agenda pubblica, sempre impegnata a far fronte alle emergenze piuttosto che a programmare obiettivi di ampio respiro. Perciò assumono maggior valore i tentativi in Toscana e in Puglia di mettere bene a fuoco i problemi dello sviluppo in un contesto sempre più aspro di competizione territoriale transnazionale e di globalizzazione dei processi e dei flussi.
Se l’idea di capacità territoriale ci fornisce qualche modalità più ricca per guardare ai territori come a un patrimonio che condiziona nel bene e nel male la qualità della nostra vita pubblica, va anche sottolineato che essi sono in perenne transizione da uno stato all’altro. I territori, infatti, registrano le trasformazioni di ordine demografico, sociale, insediativo e produttivo in atto, e le incanalano secondo le loro possibilità attraverso numerose difficoltà: così lo sprawling padano ormai è un carattere irreversibile dei luoghi e condiziona la struttura della rete energetica e di comunicazione, e le congestioni venete lungo gli assi di scorrimento rendono quasi impossibile una riqualificazione della maglia territoriale. In quasi tutte le regioni si è assistito a uno spostamento di attività dall’interno verso la costa (così è nata la città infinita adriatica) e anche alla diffusione delle seconde case e degli insediamenti di tipo turistico: oggi i grandi centri commerciali e le aree industriali sono diventati nodi di reti di trasporto e comunicazione così potenti da ridisegnare di fatto la matrice dell’urbano, spesso antica di secoli. Di fronte a queste trasformazioni – cui si aggiungono i relitti dell’industrializzazione postbellica – il governo dei territori gode di poco spazio per introdurre innovazioni radicali, e si autoconfina a gestire l’adattamento tra nuovo e vecchio, cercando di ridurre i danni e i rischi, e ad accompagnare un processo ‘spontaneo‘ (in realtà principalmente guidato dalle ragioni della rendita e del profitto), cercando di introdurvi standard, qualità e riduzione delle esternalità negative: il granducato di Toscana certamente aveva le mani più libere del governo regionale, il cui carattere democratico si riduce a registrare interessi legittimi.
Cosa implica questo stato di cose per la transizione a territori (più) capaci? La crescita territoriale (per es. nei distretti) aumenta le risorse a disposizione per una parte consistente della popolazione (o almeno così è stato per una certa fase storica). Ma cosa succede quando la crescita non è più possibile nelle forme consuete e deve diventare sviluppo sostenibile (Donolo 2007)? Il passaggio dalla crescita allo sviluppo implica anche la transizione da territori capaci (benché in misura ridotta) a territori più o altrimenti capaci. Ciò è imposto tra l’altro dalle nuove condizioni della competizione territoriale transnazionale, dalla necessità di ridefinire il locale all’interno del contesto globale, e quindi dall’imperativo di riqualificare le vocazioni territoriali tradizionali. Si richiede più qualità e più selettività nelle infrastrutture materiali, diventa necessaria la banda larga accessibile, deve aumentare la vivibilità degli ambienti urbani (situazioni di rischio industriale come quelle di Marghera e Taranto non sono più considerate tollerabili) e si richiede infine un rapporto più intelligente e responsabile verso i tanti beni culturali e ambientali di cui l’Italia è ricca in ogni regione.
Quindi la transizione comporta un governo del territorio diverso, più incisivo e qualificato, proprio però nel momento in cui la politica e le amministrazioni regionali e locali sono sotto una forte pressione fiscale, culturale e logistica. I documenti di programmazione più recenti (per es. in Toscana e in Puglia) registrano esattamente questo spostamento di enfasi, che in sintesi può essere così delineato: si è passati dal modello di crescita con pochi vincoli a quello di uno sviluppo sostenibile qualificato, da un criterio elementare di benessere (PIL pro capite) a un’idea di benessere esteso che coinvolge come fattore critico proprio le qualità territoriali. La difficoltà del governo del territorio può essere così riassunta: dover operare con molti più vincoli (una situazione definita da situazioni di fatto limitative e da carenza di risorse) e nello stesso tempo dover operare in modo più qualificante e con standard più esigenti. La transizione a territori capaci diventa più imperativa e nello stesso tempo più difficile. Essa è richiesta inoltre, come vedremo più avanti, da esigenze proprie del regime democratico.
Una modalità di approccio al problema è offerta dal tema della smartness, sia urbana sia territoriale. Ciò fa parte di un impegno comunitario per la riqualificazione funzionale e civile delle città europee (http://europa.eu/legislation_summaries/environment/sustainable_development/l28171_it.htm) in funzione della competizione globale: tale approccio ha un forte imprinting tecnologico, e in un certo senso consiste in una digitalizzazione radicale della vita urbana. Come tutto ciò che riguarda la rete, gli esiti di questo processo sono molto ambigui: potrebbero risolversi nella costruzione di un nuovo mercato di servizi urbani e quindi in occasioni di rendita e profitto per oligopoli, oppure in una grande occasione di incivilimento della vita cittadina, di cui le nostre città hanno un forte bisogno. La connessione tra tecnica e democrazia nei territori resta infatti ancora un problema aperto (si veda il sito Forumpa: smartinnovation.forumpa.it/smarttags/smart%20cities e, per il caso del sistema urbano meridionale, C. Donolo, T. Federico, La questione meridionale e le smart cities, «Rivista economica del Mezzogiorno», 2013, 1-2, pp. 189-210). Anche la smartness costituisce una componente delle capacitazione, poiché è una modalità per rendere più efficienti, razionali, fluidi e trasparenti i processi urbani e territoriali: con essa i cittadini dovrebbero diventare più cognitivi, più connessi e più interattivi. Database accessibili (per il movimento open data), governo dei flussi (dal traffico allo scambio di informazioni tra cittadini e tra cittadini e istituzioni), interazioni in tempo reale, cognitivismo esteso ai tanti aspetti della vita sociale sul territorio dovrebbero costituire l’insieme di opportunità offerte a tutti gli attori che operano nei contesti urbani, ma molto dipende dalla qualità dei contenuti e delle interazioni rese possibili. La città oggi appare molto frammentata da ‘egotismi’ di vario genere, mentre il territorio sembra ritrovare certezze nel recupero di identità passate (assai spesso inventate). Si tratterà dunque di vedere come la smartness interagirà con questi dati problematici e, d’altro lato, con gli aspetti di squilibrio, perdita di coesione e di qualità del territorio: una grande sfida dagli esiti ancora incerti. Oltre alle gravi difficoltà fiscali, va tenuta in considerazione infine l’incompiuta evoluzione delle culture di governo, che non appaiono del tutto convinte, nella prassi, di ciò che enunciano a livello di principio nei documenti programmatici e di planning.
La cultura civica in Italia sta indubbiamente evolvendo in senso positivo, benché lentamente e per frammenti. Numerose sono le pratiche virtuose che vengono ostacolate dal malcostume dominante: si pensi, per es., al caso quasi prototipico dell’uso dell’auto, che è stato uno dei fattori che più hanno condizionato le nuove forme del territorio, al di là di ogni programmazione o governabilità. Si stanno inoltre diffondendo pratiche di democrazia partecipata, regolata come in Toscana o sperimentale come nella maggior parte degli altri casi, e quella della sostenibilità è oramai una cultura condivisa, anche se nella prassi, spesso per carenza di alternative (come nel caso della mobilità), rimane sulla carta. Grazie agli incentivi fiscali, si stanno promuovendo fonti energetiche alternative e interventi di edilizia sostenibile: che il patrimonio ambientale vada rispettato è convinzione condivisa anche dal mondo delle imprese (e semmai la più opportunista in questo ambito è la classe politica, troppo dipendente da prospettive a breve termine). Tuttavia manca ancora un insieme di approcci, di programmi coerenti, di indicazioni univoche, che rafforzino il senso comune in formazione. Troppo grave è il peso della gestione delle conseguenze della fase di deindustrializzazione (in Toscana a Piombino, o in Puglia a Taranto e Brindisi). Anche il turismo, così importante nell’economia delle due regioni, si smarca a fatica da un modello che consuma il territorio senza risarcirlo e predilige forme più tradizionali ma meno competitive sul lungo periodo. Nell’insieme però ci sono le condizioni – considerando anche i nuovi rapporti tra università e territori – per avviare una fase più decisamente cognitiva e capacitante, che può ispirarsi a modelli ormai affermati nel resto d’Europa.
A questo punto è possibile fare un passo avanti e spiegare, in estrema sintesi, in che senso i territori della varietà diventino territorialità attiva (cfr. Territorialità, sviluppo locale, sostenibilità, 2005) in quanto territori capaci, ovvero territori in cui crescono le capacità di autogoverno. Schematicamente, le capacità in via generale sono funzione di due risorse: le dotazioni e i titoli. Nel caso dei territori, le dotazioni sono il patrimonio di capitale umano, sociale e infrastrutturale disponibile (e riproducibile su scala allargata). Si tratta di beni materiali e virtuali che partecipano alla definizione stessa di territorio e di locale in cui va sottolineato il ruolo dei commons locali. I titoli invece sono l’insieme delle autonomie operative nell’ambito locale: le autonomie non sono tanto i poteri decentrati e derivati (in un processo di decentramento dello Stato amministrativo o anche di federalità crescente), quanto le effettive capacità di autoregolazione, a partire dalle risorse proprie e sulla base della normatività (norme sociali, fiducia specie nelle istituzioni, capacità di seguire regole, affidabilità e sostenibilità istituzionale) effettivamente praticata. Se ne possono leggere i riflessi nella qualità della classe dirigente locale, nella responsiveness (capacità di dare un contributo responsabile alle domande sociali), nel perseguimento delle qualità ambientali e urbane, nel grado di coesione percepito come giusto e così via.
Le dotazioni, o patrimonio ‒ termine che ha un’accezione simile al francese patrimoine, con un accento sulla componente culturale e normativo-simbolica (cfr. «Parolechiave», 2013, 49, nr monografico: Patrimonio culturale) ‒, interagiscono con i titoli, gran parte dei quali sono ‘sommersi’ negli assetti istituzionali e regolativi, a loro volta in evoluzione. Le interazioni sono decisive e ne possono derivare mostruosità territoriali e sociali o piccoli Eden: se soddisfacenti, producono un ambiente capacitante in cui gli attori più innovativi possono produrre esternalità positive per tutto l’ambiente. Qui si possono ricordare due indicatori probanti della ‘miscela capacitante’ tra dotazioni e titoli: la genesi di nuove istituzioni (che comprende anche i nuovi tipi di attori) e il contatto sempre più intenso con la società della conoscenza. Attori più capaci di innovazione sono il segnale di una territorialità attiva, ed è importante che vi siano spillover, trasmissioni, esternalità positive, circolazione di competenze. A un livello evolutivo più semplice lo si è visto all’opera nei distretti manifatturieri come li intendeva Giacomo Becattini, che però si riferiva a un’epoca precedente a quella della società della conoscenza, del globale pervasivo, della rimessa in gioco dei territori a causa dei flussi globali.
Le capacitazioni devono essere all’altezza dei nuovi compiti. Nei territori ormai da tempo, sin dagli studi di Gunnar Myrdal e Albert O. Hirschman, sono state riconosciute ricorsività negative e positive: esistono ‘territori piombati’, chiusi all’interno di un autoctono modello riproduttivo capace di assorbire risorse dall’esterno ma non di riprodurre localmente le condizioni dello sviluppo, ed esistono, al polo opposto, ‘territori dello sviluppo’, che generano risorse per il proprio e altrui progresso e che operano scambi intensi e cumulativi. Nei primi si osservano circoli viziosi, nei secondi virtuosi: la territorialità attiva corrisponde al secondo modello. Ma più dell’apologia delle aree virtuose importa la decostruzione di quelle dominate da circuiti viziosi, nelle quali la crescita del benessere privato si accompagna tipicamente a miserie pubbliche. L’apologia del locale, del distrettuale, ha fatto aggio sul riconoscimento della persistenza di patologie sociali e istituzionali assai rilevanti nei nostri territori: malgrado le dichiarazioni programmatiche contrarie, si può del resto dubitare che la classe dirigente nazionale ne abbia davvero nozione e sia effettivamente capace di definire un’agenda realistica al riguardo. Sarebbe necessario tesaurizzare le esperienze di governo delle zone in cui i beni comuni sono stati più devastati, nelle quali si ha a che fare con una ‘tragedia dei commons‘ (l’uso improprio dei beni comuni per interessi privati) di proporzioni gigantesche: per questi casi limite (spesso di ampie dimensioni, anche macroregionali), va ripensata una strategia di capacitazione, oltre ai patti per lo sviluppo, i PIT e i piani strategici di area vasta. Queste situazioni critiche soffrono il modo in cui perfino nelle politiche di sviluppo, di coesione e di infrastrutturazione il territorio è stato considerato, ossia quasi sempre come un mero supporto o contenitore, o come un bene comune da esporre a un uso individuale non regolato. Non è pensabile per numerose zone, pure così importanti per lo sviluppo nazionale e per la nostra integrazione in Europa, il superamento di circoli viziosi, dipendenze, e degrado ulteriore, senza assumere una visione del territorio come risorsa cumulativa da rigenerare e non solo da spremere.
Il tema della territorialità attiva probabilmente trae il suo intero significato proprio a contatto con questi casi critici, piuttosto che in rapporto ai territori virtuosi. L’indicazione principale, in sintesi, è che si deve passare dalla crescita allo sviluppo: un percorso difficile e per il quale non siamo del tutto attrezzati. È soprattutto rispetto ai territori dei flussi che emerge l’importanza della territorialità attiva e dei processi di capacitazione. E, per contro, va rilevato che i territori fuori da questo quadro sono tanti, troppi, e troppo pesanti, anche dal punto di vista demografico. Si tratta non più di territori arretrati, ma di territori deviati ed è quindi a essi che vanno in primo luogo applicate le politiche attive di capacitazione. La coesione territoriale (e sociale) non può ridursi alla componente, pur essenziale, delle reti dei trasporti e della comunicazione, e alla connettività ma, come già enunciato anche nei documenti del Quadro strategico nazionale (QSN), si deve estendere a quelle variabili-risorse che sono le dotazioni e i titoli, di cui abbiamo già parlato mutuando la terminologia di Amartya K. Sen. Si noti che i territori deviati sono territori incapacitanti sia per i governanti sia per i governati: le capacità sono frustrate, ostacolate, censurate, la varietà annientata e resa perciò inservibile per i processi di sviluppo.
L’autonomia locale sarà in futuro sempre più calibrata su forme di capacitazione: il territorio, la sua qualità o stato di salute, segnalerà se essa è solo uno slogan nel conflitto tra livelli di governo, o se invece è stata la forma del buongoverno. Come sempre il buongoverno si riflette sullo stato del territorio e il cattivo si mostra nel cumularsi negli stessi luoghi, come accade spesso in Italia, di tutti i possibili mali sociali e nel degrado degli ecosistemi. Territorio capace è un territorio capace di autonomia, cioè di sviluppare preferenze per la sostenibilità. Questo oggi è il test principale a cui devono rispondere le regioni.
Sempre nella medesima prospettiva, notiamo nel territorio l’intreccio di dotazioni materiali (beni ambientali e culturali, infrastrutture) e immateriali (capitale umano, capitale sociale, fiducia istituzionale e buone regolazioni). Questo patrimonio nel suo insieme contribuisce a definire la natura e perfino lo status di un’area, mentre costituisce il capitale collettivo di riferimento per le ecologie dei giochi locali. Possiamo tradurlo in termini di contesti più o meno capacitanti, più o meno pronti alla sfida della globalizzazione e della digitalizzazione, più o meno preparati a coniugare la ricchezza del passato con le opportunità dell’avvenire. Gli attori che operano al suo interno sviluppano maggiori o minori capacità, o meglio sono in grado o meno di ricavare da un dato set di opportunità (capabilities) un insieme operativo di funzionamenti reali, che si traducono a loro volta non solo in più ampi spazi di libertà per i soggetti, ma anche in occasioni di innovazione, apertura al futuro, successo dei progetti, interazioni forti con tutti i livelli e le scale della realtà socioeconomica. Del resto il distretto stesso evolve chiaramente in direzione di realtà anche virtuali, o muta la scala passando dal locale al sovralocale, all’area vasta, alla piattaforma territoriale, con forti elementi di sovrapposizione e intreccio con sistemi prossimi ma spesso anche molto lontani. E rilevante è il fatto che l’insieme delle capacità-opportunità e dei funzionamenti effettivi ricada sul territorio come suo buon governo, per il tramite della politica e dell’amministrazione locale in primo luogo, ma anche come cultura della cooperazione interistituzionale e della sussidiarietà ben temperata. Quando vediamo territori in buona salute constatiamo implicitamente le rilevanti capacità sviluppate dai soggetti della più varia natura, come anche le risorse capacitanti che i territori sono stati in grado di offrire a sempre nuove generazioni di abitanti.
Per confrontare due territori al fine di valutarne qualche aspetto particolare, è necessario un certo livello di astrazione e di genericità. Troppo pesa infatti l’eredità storica, nonché le condizioni naturali, che in buona parte non sono modificabili. Si pensi solo alla quantità di aree che meriterebbero di essere protette o a quella dei suoli a rischio idrogeologico, sismico o inquinati dall’attività umana. È necessario quindi semplificare molto, anche contando sull’ampia serie di analisi e studi di diversa natura che ci permettono con qualche approssimazione di definire per ogni territorio un profilo caratteristico, la resilienza, le patologie o altro ancora. Si può far riferimento ai dati ISTAT, a quelli prodotti da organizzazioni come Legambiente, ad altri di origine accademica, dal CNR ai report specialistici, e negli anni più recenti alla ricca produzione regionale. Per valutazioni accurate occorrerebbe disporre di database integrati e di serie storiche, di indicatori sistematici, di indici sintetici, di analisi quantitative e qualitative. Proprio sulla questione delle capacità mancano informazioni essenziali che però in futuro potremmo avere grazie all’iniziativa BES (Benessere Equo e Sostenibile) dell’ISTAT, che coprirà progressivamente proprio l’area di nostro interesse. Ai fini sperimentali del nostro approccio può bastare tuttavia molto meno: si può dunque procedere a esaminare alcune variabili o situazioni prototipiche dalle quali ricavare un giudizio ponderato che almeno si approssimi alla realtà.
Tra le molte variabili che è possibile prendere in considerazione vi sono il consumo di suolo, che deve tener conto, oltre che degli aspetti demografici, delle differenze nella maglia urbana e dei caratteri orografici, e guardare soprattutto alle zone pregiate e a quelle costiere; la progressiva istituzione di parchi, aree protette, biotopi, e quindi il riconoscimento ad aree sempre più numerose di qualità di pregio e tali da meritare una regolazione specifica; lo stato delle coste e della loro leggera o pesante urbanizzazione; la diffusione dello sprawling o di abitazioni diffuse entro spazi che un tempo erano campagna; le modalità di crescita dei centri urbani oltre i loro limiti amministrativi: come è avvenuta, con quanta quota di abusivismo e con quale qualità urbanistica.
Le variabili in gioco sono dunque numerose e occorre sottolineare che per molte di esse esistono regolazioni, standard, modelli di rifermento, regole del gioco tra interesse privato e interesse pubblico; ciò è poi ulteriormente complicato dalla necessità di applicare criteri di sostenibilità sociale, ambientale ed energetici. Numerose sono le fonti consultabili per approfondire questi temi: quelle regionali, quelle dell’ISTAT (per es., ISTAT, Consumo di suolo 2012; http://paesaggio.regione.puglia.it), quelle elaborate dalla Società geografica italiana, dai geologi, dal CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali), dalle ARPA (Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente), dall’Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana (IRPET, per es.: Le trasformazioni territoriali e insediative in Toscana, 2006), da Legambiente (si veda per es. per la Puglia http://www.legambiente.it/files/docs/dossierabusivismopuglia-def.pdf) o dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale). Per la Toscana e la Puglia l’osservazione di tali variabili e l’incrocio dei dati forniti dalle fonti sopracitate ci fornisce il quadro che segue.
In Toscana l’abusivismo è stato contenuto, ed è stato anche evitato, quasi ovunque, un eccesso di urbanizzazione costiera, cresciuta soprattutto per l’espansione dei centri esistenti, come effetto del fenomeno distrettuale e come attrazione dei centri maggiori, non solo capoluoghi di provincia. Con diversi interventi si è cercato di contenere il consumo di suolo, senza peraltro poterlo davvero frenare, salvo che negli anni più recenti. Della Toscana va sottolineato il particolare pregio di quasi tutto il territorio regionale: paesaggi di valore globale, anch’essi investiti da trasformazioni molecolari dovute sia all’edificazione delle seconde case sia, in pianura, all’aumento delle infrastrutture viarie e, in prossimità di queste, alla crescita dei grandi centri commerciali (si considerino per es. le trasformazioni del paesaggio avvenute in tempi recenti tra Siena e San Gimignano). I rischi legati a frane e a siti contaminati sono diffusi, ma vengono progressivamente monitorati. In sostanza, gran parte del valore della regione è stato preservato, anche se restano alti i rischi proprio a causa della sua unicità. Rimane qualche perplessità – del resto segnalata anche in documenti di programmazione regionale quale il PIT (www.regione.toscana.it/-/pit-il-piano-di-indirizzo-territoriale-della-toscana) – sul fatto che la regione possa ancora contare sul suo buon capitale sociale, che è stato tra l’altro l’artefice della crescita dei distretti: non è certo che le sue tradizioni, che hanno un forte imprinting campanilistico e identitario, possano davvero reggere alla sfida della globalizzazione.
Lo stesso può dirsi del capitale umano, che tanto ha alimentato lo sviluppo locale nei decenni scorsi: in che modo è possibile modernizzare in profondità una cultura secolare come quella toscana? E come mantenere i legami con il passato mentre ci si avvia verso il futuro che, per molti versi, presenterà rispetto a esso caratteri di discontinuità? Sono davvero questioni scottanti e solo grandi investimenti cognitivi e motivazionali sulle giovani generazioni potrebbero permettere una capacitazione profonda e a ampio raggio, che è la condizione necessaria affinché la regione mantenga il suo primato culturale, estetico e non solo. I giudizi devono essere bilanciati perché ogni sintesi che non sia il risultato di un lungo processo di pratiche democratiche deliberative ben informate resta irrisolta e come sospesa, almeno in questo caso in cui grandi risorse, continuità, evoluzione, partecipazione civica e municipalismo convivono con problemi, erosioni e impoverimento della tradizione stessa (si veda per es.: http://www.regione.toscana.it/cittadini/ambiente/parchi-e-aree-protette).
Se si passa a esaminare la Puglia si scopre un diverso panorama. A prima vista qui i fenomeni urbani sono storicamente più contenuti, mentre le campagne hanno grande estensione, essendo tipicamente non abitate come in Sicilia. Con lo sviluppo economico il territorio è diventato molto più urbanizzato di prima, lungo gli assi viari e soprattutto come espansione dei centri storici. Inoltre la campagna è diventata assai più popolosa, mentre le coste sono state ampiamente colonizzate anche in spregio della legge Galasso. Si tratta di un fenomeno comune alle regioni meridionali. Diffuso è l’abusivismo, inizialmente ‘di necessità’ e poi legato alla rendita (si tratta del 15% di tutto l’abusivismo nazionale). Nelle città si concentrano fenomeni di marginalità sociale e forme di degrado (in parte sanate grazie a progetti come quello URBAN per il centro storico di Bari). Fino ad anni recenti possiamo dire che il governo del territorio è stato molto blando e affidato all’incerta efficacia dei PRG. Con le politiche comunitarie e i POR sono intervenute qualificazioni crescenti e necessità anche urgenti di intervento, mentre cresceva anche la coscienza ecologica e civica della popolazione. Ma di un vero e proprio governo si potrà parlare solo a partire dall’introduzione dei PIT e poi dall’adozione dei recenti provvedimenti in materia di pianificazione e paesaggio (Piano paesaggistico territoriale della Regione Puglia adottato con decreto del governo regionale 2 ag. 2013 nr. 1435).
Come in Toscana, anche in Puglia i fenomeni urbani sono stati in sostanza ingovernabili, e forse soprattutto in questa regione deliberatamente. Le conseguenze sono un eccesso di abusivismo, una forte pressione sulla linea costiera, che comprende anche le maggiori infrastrutture viarie, una progressiva trasformazione del paesaggio agrario, dovuto sia alla campagna ‘urbana’ (Donadieu 1998) sia alla trasformazione agroculturale (che è passata da culture asciutte estensive a culture intensive irrigue). Ampie aree dei territori sono protette da parchi anche perché, almeno a partire dagli anni Novanta, la Puglia è diventata un attrattore turistico globale. La pressione antropica resta molto alta e di difficile governo anche per il peso della rendita fondiaria e del settore delle costruzioni. Più grave la situazione derivante da grandi aree e fonti di inquinamento, come nel caso di Taranto. Solo in anni recenti, dunque, si è cercato davvero di contenere e orientare il consumo di suolo e di contrastare l’abusivismo. Gli impatti di decenni di ‘trascuratezza territoriale’ sono però pesanti. Come nel caso delle cave e della tendenziale gentrification delle campagne più pregiate (cioé del loro imborghesimento, generato da una sostituzione sociale degli abitanti e da una riqualificazione edilizia), occorrono interventi puntuali e quadri generali di riferimento.
Ma il problema resta l’implementazione, perché ci si trova ancora in mezzo al guado sia con riguardo alle capacità dei governi locali, sia in relazione all’evoluzione delle culture civili locali. Va notato che il paesaggio pugliese sta acquistando sempre più valore: culturale, turistico e anche come fonte di rendita (http://www.parks.it/regione.puglia/). La sua protezione diventa urgente proprio per preservare nel tempo un capitale decisivo per lo sviluppo regionale. Anche in questo caso, più difficile di quello toscano, le sfide dell’attuale transizione sono evidenti e – rispetto a prima – il dibattito pubblico è molto vivace, la partecipazione più elevata, la possibilità di elaborare un capitale sociale locale all’altezza dei problemi più probabile. E proprio sul terreno del governo del territorio si stanno formando le nuove capacità.
A conclusione di queste sintetiche osservazioni sulle Regioni della Puglia e della Toscana, in termini della loro capacità possiamo ricavare quanto segue.
Governi più stabili e più ‘democratici’ (dotati di maggior consenso popolare) hanno permesso alla Toscana di iniziare presto a governare il territorio, seguendo piste del resto tracciate già in passato. Esaurito un importante ciclo di urbanizzazione trentennale si tratta di capire quale sarà il futuro del paesaggio toscano come bene comune e come patrimonio da valorizzare molto oculatamente. Le capacità locali esistono, ma non è sicuro che il peso della (buona) tradizione renda facile la transizione a una governabilità molto più rigorosa e qualitativamente esigente. Il territorio è certamente tra i più capaci in Italia, come attestano anche le sue tradizioni democratiche, ma proprio il suo pregio e la sua centralità strategica rendono molto acuta la sfida da affrontare. Le incertezze istituzionali e i tagli alle risorse non aiutano, ma il vero elemento frenante per una ridefinizione strategica tra governo e territorio risiede proprio nel relativo benessere raggiunto e nelle diffuse posizioni di rendita acquisite e non facili da mobilitare per gli obiettivi più ambiziosi richiesti dal posizionamento competitivo globale.
Per la Puglia il buon governo è stato un’eccezione e solo in una fase recente. Di conseguenza gli effetti sul territorio sono minori e più difficile è stato mobilitare il capitale sociale locale, data la minore fiducia istituzionale e in genere la minor osservanza delle norme. Lo sviluppo, o meglio la crescita, ha portato però la Puglia a disporre di numerose nuove risorse cognitive e progettuali e vi è stata una grande apertura alla modernità e una crescita della coscienza civile. Ma il futuro è incerto poiché non vi è garanzia di stabilità negli orientamenti strategici e perché la crisi ha colpito duramente le basi produttive manifatturiere regionali, pur in presenza di eccellenze anche in quel campo (a Brindisi e a Bari).
In entrambi i casi il territorio è un bene con elevata robustezza, in grado di assorbire molteplici trasformazioni, anche perverse. Ma alla lunga non bastano né il sentiero virtuoso del passato, né le buone prove recenti. I costi per i territori del modello di crescita senza aggettivi è alto, e la gestione delle loro conseguenze grava sulle spalle di governi regionali a risorse morali e fiscali decrescenti. I territori attendono perciò un’esplicita e tempestiva strategia di capacitazione ad ampio raggio, grazie anche alla sponda offerta dai programmi comunitari: sui sistemi urbani, sui paesaggi, sulla coesione territoriale e sociale, sullo sviluppo locale sostenibile.
Nel corso della perdurante crisi della politica a livello nazionale, si sono riposte molte speranze nelle virtù dei governi locali, a cominciare dal ‘partito dei sindaci’ degli anni Novanta. Il nostro sistema delle autonomie, tra tanti limiti, conserva infatti il pregio del municipalismo e l’orgoglio delle proprie tradizioni. È bene capire che, nella prospettiva dello sviluppo di territori capaci, non sono utili né sensati i campanilismi e le chiusure identitarie: essi infatti sono incompatibili con le esigenze dei ‘giochi globali’, che si svolgono su molte scale e molti livelli. Piuttosto i riferimenti alle tradizioni di buon governo locale, o anche – come spesso succede – alle capacità di riscattarsi da marginalità e sottosviluppo, oppure di riprendersi dopo qualche evento economico o politico traumatico, assumono senso solo se connessi a pratiche di territorialità attiva e a processi di capacitazione.
Consideriamo allora la relazione biunivoca tra territorio e governo nella prospettiva di processi democratici. La nostra democrazia ha, come è emerso già nel Risorgimento e poi durante la Resistenza, numerose radici locali: buon governo e territorio capace di sviluppo si corrispondono. In questa relazione assumono grande importanza le pratiche democratiche, si tratti di democrazia rappresentativa (partecipata o deliberativa), o di forme innovative di partecipazione alla sfera pubblica. Spesso si è visto che istanze democratiche localmente radicate hanno un riferimento diretto al governo di beni comuni (locali e translocali). Il territorio stesso può essere visto come un grande bene comune, costituito da un patrimonio di beni comuni puntuali o anche trasversali (come nel caso dell’aria, dell’acqua, ma anche di molte forme di capitale umano e sociale). Tali esperienze fanno pensare che vi sia una forte inerenza reciproca tra pratiche democratiche e cura dei beni comuni: questi ultimi vengono infatti riproposti al centro dell’attenzione pubblica e della politica ‘istituita’. Ma il territorio stesso con ciò diventa centrale nell’agenda locale. Dapprima il territorio si presenta come una risorsa economica, e vengono dunque attuate le varie strategie di promozione, di competizione territoriale, di benchmarking e posizionamento competitivo con riguardo a mercati ormai globali. Ciò riguarda soprattutto i territori pregiati – come attrattori turistici e poli per investimenti mirati a nuove opere pubbliche – e le città d’arte di prima e seconda grandezza. I governi locali si sentono impegnati a sostenere la crescita, magari piegandola verso forme più compatibili. E si parla sempre di vocazioni del territorio, che però resta ‘l’uso che se ne fa’ (Crosta 2010), ovvero cambia natura a seconda dei modi sostenibili (e non) di usarlo nella vita sociale ed economica. Quando tuttavia, per crisi di un modello, congestione o eccesso di esternalità negativa (ambientali e sociali, come nel caso dei tanti siti inquinati abbandonati dalla produzione), si inizia a ipotizzare un’altra modalità di sviluppo per il territorio, risulta evidente la sua natura di bene comune: è a questo punto che assumono rilievo le pratiche democratiche, proprio in funzione del governo della transizione. Viene così alla luce il nesso profondo tra governo dei beni comuni locali, capacità socializzate e pratiche di democrazia ben radicate (nella migliore tradizione del municipalismo storico). Governare i beni comuni significa evitare la tragedia dei commons (con riguardo ai beni comuni ‘naturali’) e quella degli anticommons (ossia quando vi è un sottoutilizzo di una risorsa comune tale da produrre un costo sociale) con riguardo ai beni comuni virtuali (Ostrom 2006). Gli uni rischiano sempre di essere sfruttati oltre la loro carrying capacity, i secondi di essere svalorizzati e sottoutilizzati, e questo proprio mentre ci addentriamo nella società della conoscenza. Ma la tragedy of commons può essere evitata e trasformata in pratiche di buon governo solo in presenza di diffuse capacità (culturali, gestionali, di institution building, di innovazione tecnologica, di networking, tra le tante cose necessarie). Ecco allora che lo stesso governo locale, ma specificamente quello regionale, viene investito da compiti e responsabilità inedite e deve fare i conti con tutti i propri limiti e fare ricorso a tutti i propri potenziali. Purtroppo il degrado che ha investito la politica nazionale rende difficile scorgere le buone pratiche esistenti, il lavoro anche di resistenza al degrado istituzionale incombente, e il prezioso lavoro di salvaguardia dei beni comuni che pure ha luogo. Non si è mai avuto tanto bisogno di capacità come in questa fase storica di metamorfosi dei territori e di necessaria riformattazione dei loro governi (cfr. Le grandi città italiane, 2012; Citymorphosis, a cura di M. Cammelli, P. Valentino, 2011). Questo stato problematico delle cose è la principale giustificazione dell’approccio al territorio in termini di capacità.
Abbiamo presentato il governo dei territori – guardando soprattutto alle esperienze di due importanti e qualificanti regioni – come una questione di capacità: un saper essere e un saper fare tali da proteggere i territori (e i loro abitanti) dalla tragedia dei beni comuni, garantendo stati crescenti di benessere esteso, coesione sociale e territoriale, sostenibilità dei processi (L’Italia dei beni comuni, a cura di G. Arena, 2012; Tempo di beni comuni, a cura di L. Pennacchi, A. Montebugnoli, 2013). Si intende che capaci sono in primo luogo gli attori istituzionali e quelli sociali; tuttavia non è una metafora parlare di territori capaci. Considerandoli come ecosistemi e come ecologie di giochi si comprende quanto le loro qualità, e i loro processi di riqualificazione o degrado, pesino sulle condotte e sulle strategie, sulla forma sociale ed economica. E ciò a sua volta dice molto sulle aperture al futuro di cui popolazione e territori insieme saranno capaci. Il termine capacità è evocato anche in ragione delle grandi sfide che li attendono, con il passaggio a un dominio di reti e di flussi, con la velocità del mutamento, con la riclassificazione di ogni locale dentro complesse e varianti gerarchie globali (Sassen 2008). Proprio regioni che vantano una lunga storia e sono, per così dire, cariche di beni culturali e stanno per tanti versi dentro tradizioni ancora obbliganti sono chiamate a un grande sforzo di buon governo, affinché questi territori preziosi non sprechino le numerose occasioni che pure si offrono. Ciascuno di loro è gravato anche da molteplici crisi ambientali, da residui di rischi industriali, da infrastrutture carenti o eccessivamente invasive, da un difficile equilibrio tra tutela del patrimonio ricevuto e introduzione di innovazioni (talora necessarie, talora solo frutto di miopi interessi).
Tutto ciò esige un più deciso passaggio in direzione della società della conoscenza, e quindi diffuse capacitazioni individuali e collettive, istituzionali e sociali, ben oltre la saggezza ricevuta di una buona amministrazione ordinaria. Lo sentono gli amministratori locali, sotto la pressione di continue emergenze e di tempi sempre più veloci; lo vivono gli abitanti come ansia per il futuro proprio e dei territori stessi cui sono legati da fili infiniti, tessuti dalla memoria e dalla speranza. Transizioni a territori capaci: l’unica alternativa al declino, alla perdita di coesione sociale e di beni comuni, alla frustrazione delle speranze collettive.
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Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta il 7 novembre 2014.