ARTICHE, REGIONI (A. T.,1-2-3)
Storia delle esplorazioni. - Di una penetrazione umana nei mari o fra le terre inospitali della calotta artica durante l'antichità classica non abbiamo alcuna notizia. La navigazione di scoperta, condotta dal greco Pitea da Massalia (oggi Marsiglia) nei mari settentrionali d'Europa (sec. IV a. C.), pervenne tutt'al più alla sporgenza occidentale della costa norvegese: certo, da Tule, ultima terra a lui conosciuta o per veduta o per sentito dire, egli riportò notizia del lunghissimo giorno e del mare rappreso dai ghiacci.
Bisogna, comunque, venire parecchi secoli più innanzi per vedere raggiunte, grazie al graduale espandersi degli Europei verso le estreme contrade boreali del continente, le inospiti terre situate oltre il circolo polare: il norvegese Othere nell'870 è registrato come il primo che s'avventurò per nave fino al Capo Nord e che di là proseguì a levante, lungo la costa della penisola di Kola, fin dentro al Mar Bianco. Degli stessi secoli è anche il primo diffondersi degli Scandinavi, in ardite navigazioni, tra le acque dell'Oceano a ponente: quindi la scoperta - cui segue la colonizzazione - dell'Islanda (867?), e successivamente quella della Groenlandia (925?), colonizzata però soltanto, come permetteva il clima, nell'estrema parte a SO. Questa colonia groenlandese, iniziatasi col sec. XI, durò in contatto con la madrepatria scandinava e con Roma per più di quattro secoli, estinguendosi tuttavia, per il graduale deperire interno e per il mancare d'ogni comunicazione con l'Europa, alla fine del sec. XV.
Questo primo espandersi degli Europei verso tramontana non oltrepassa però ancora, tranne che nell'estremo Nord europeo, il circolo polare chiudente la calotta artica. Soltanto la grande espansione marinara seguita alla scoperta dell'America spinge gli scopritori verso gli estremi mari settentrionali e inizia quindi il glorioso periodo delle esplorazioni artiche, poiché il fatto, rapidamente accertato, non essere le terre scoperte da Cristoforo Colombo, da Giovanni Caboto e dagli altri oltre Atlantico le sperate terre asiatiche del Catai, incita gli scopritori provenienti dall'Europa a cercar di sorpassare queste terre nuove per giungere ai paesi asiatici più ricchi e propizî, che evidentemente erano situati più in là. E subito, nei primi anni del'500, v'ha taluno fra gli scopritori che per sorpassare l'ostacolo tenta di salire verso latitudini più elevate, come Gaspare Cortereal, portoghese, che in una navigazione del 1500 avvista, tra i ghiacci galleggianti, una "ponta de Asia" (così nelle carte) che è probabilmente l'estremità della Groenlandia; e come Sebastiano Caboto, veneziano al servizio dei re Enrico VII e Enrico VIII d'Inghilterra, che in un viaggio di pochi anni più tardi risale anch'egli a N. delle terre scoperte fino a incontrare grandi ghiacci galleggianti, pericoloso ostacolo al cammino.
Col proseguire poi, durante i primi lustri del sec. XVI, delle scoperte lungo tutta la sponda occidentale dell'Atlantico, le nuove terre si rivelano ogni dì più un grande, gigantesco mondo nuovo frapposto tra Europa e Asia, a girare il quale non altro cammino si trova aperto, fuorché quello dell'estremo mezzodì scoperto da Magellano, lontanissimo da tutte le terre europee. Di fronte a una tale condizione di cose acquista ogni giorno maggior valore la possibilità, per quanto ipotetica, d'una via di mare che, girando l'America a N., possa permettere ai paesi settentrionali d'Europa una navigazione non eccessivamente lunga alle terre dell'estremo oriente (passaggio di NO.), mentre dalla parte di NE. appare anche possibile per gli stessi paesi boreali d'Europa tentare un cammino, forse anch'esso non troppo lungo, che, girando di là dalla Scandinavia e dal Mar Bianco, raggiunga le stesse più desiderabili terre dell'Asia (passaggio di NE.). Si può ben dire che all'ipotesi d'un passaggio attuabile, tanto sulla via di NO., quanto su quella di NE., si devono quasi tutti i viaggi di scoperta nella calotta artica per il periodo dal sec. XVI al XVII, mentre soltanto col XIX e poi col principio del XX, esaurita o quasi la ricerca dei due passaggi, vediamo la dura battaglia continuarsi unicamente per il vantaggio della scienza: tentata ogni via attraverso ai deserti di ghiaccio per svelare questo o quel lato del mistero polare, accesa la gara per il raggiungimento di latitudini sempre più elevate, conquistato il Polo e sorpassato il Polo volando.
Riassumiamo innanzi tutto le prime ricerche rivolte al passaggio di NE. A cominciare dalla metà del sec. XVI, gl'Inglesi, ritenendo questa una via che potesse assicurar loro qualche benefizio dei grandi traffici asiatici fino allora sfruttati interamente da altre nazioni, tentano la via del Mare Artico per arrivare in Russia e dalla Russia in Asia. La Compagnia dei mercanti di Londra (detta poi comunemente Compagnia di Moscovia) manda nel 1553 per suggerimento di Sebastiano Caboto, una prima spedizione al comando di sir Hugh Willoughby, alla quale, malgrado il poco fortunato esito, si deve la conoscenza della Novaja Zemlja (già nota probabilmente prima a navigatori russi), oltre al raggiungimento del Mar Bianco. Stefano Burrough, inviato dalla stessa compagnia nel 1556, scopre tra la Novaja Zemlja e l'isola Vajgač l'ingresso del Mar di Cara. Un altro tentativo, per mezzo di Arturo Pet e di Carlo Jackman, fa la stessa compagnia nel 1580, ancora con l'illusione di poter arrivare in un'estate al Catai, ma il tentativo non va oltre il Mar di Cara. Subentrano allora agl'Inglesi sulla via del passaggio di NE., mostratasì così ostile ai primi esploratori, gli Olandesi, i cui tentativi si ripetono frequenti dal 1565 in poi: memorabili fra tutte la spedizione del 1594, con tre navi, una delle quali, comandata da Willem Barentszoon (detto Barents), si spinge lungo la costa occidentale della Novaja Zemlia scoprendola fino al suo estremo settentrionale, e l'altra spedizione del 1596 che, volta dapprima a tramontana, scopre l'Isola degli Orsi e la maggiore delle Svalbard (Spitsbergen), indi, per merito del Barents, riprende l'esplorazione della Novaja Zemlja superandone l'estremo N., finché i ghiacci arrestano nell'Ice Haven l'audace scopritore: primo crudele sverno nei mari artici, fatale al Barents stesso.
Dopo questo viaggio, le difficoltà, dimostratesi quasi insuperabili sulle varie vie adducenti al Mar di Cara, disanimano anche gli Olandesi da un'ulteriore ricerca del passaggio nord-orientale. Riappare invece in queste acque a N. dell'Europa la bandiera inglese, grazie al tentativo di Henry Hudson, avviato nel 1607 per la Compagnia di Moscovia a tentare la via, non verso il Mar di Cara, ma traversando direttamente l'area polare verso l'Asia: la spedizione dà come frutto la scoperta dell'isoletta detta poi di Jan Mayen e d'un notevole tratto della costa orientale della Groenlandia, nonché una più minuta esplorazione della costa delle Svalbard, già scoperta dagli Olandesi; ma una barriera di ghiacci intransitabile, estesa dalla Groenlandia alle Svalbard, impedisce ogni tentativo a N. oltre l'81° parallelo. Questo scacco consiglia a ritentare un anno dipoi il passaggio verso la Novaja Zemlja, ma anche qui l'Hudson è arrestato dai ghiacci lungo la costa già nota dell'isola.
Maggior fortuna, non per agevolezza di passaggi, ma per larga e fruttuosa scoperta di terre, incontravano nel frattempo i tentativi a N. delle terre americane, avviati dagl'Inglesi per l'iniziativa di Martin Frobisher e per il consiglio di sir Humphrey Gilbert, patrocinante con validi argomenti scientifici il passaggio di NO. Il primo tentativo (1576) conduce il Frobisher alla scoperta del larghissimo braccio di mare a O. della Groenlandia e, di là da quello, alla prima nuova terra artica nord-americana, oggi Terra di Baffin: quivi è sua meta (la "Meta incognita" delle carte) la lunga insenatura anche oggi detta Baia Frobisher, e alla stessa meta, creduta ricca produttrice d'oro, conducono due altri viaggi di lui nei due anni successivi. Pochi anni dopo segue al Frobisher (1585) John Davis, il quale, toccata l'estremità della Groenlandia (ch'egli chiamò Desolations Land), traversa il braccio di mare che serba ancor oggi il suo nome, e s'imbatte anch'egli nella Terra di Baffin là dove il Golfo di Cumberland dà allo scopritore l'illusione d'un passaggio aperto a NO. Non maggiore frutto egli trae da un secondo viaggio compiuto l'anno dipoi; ma nel terzo viaggio (1587) l'ardito navigatore segue, con mare abbastanza libero, per più di 1500 km. la costa occidentale della Groenlandia, scoprendola fino a 72°15′; indi ritorna alla Terra di Baffin a tentare vanamente il chiuso Golfo di Cumberland, e scopre l'ingresso dello stretto che prese poi il nome dall'Hudson.
L'esperienza del Frobisher e del Davis, la quale legittimava la speranza d'un varco aperto fra quelle terre boreali in direzione di ponente, viene messa a profitto soltanto dopo qualche anno. Invero due spedizioni, inviate successivamente nel 1602 e nel 1606, falliscono allo scopo, ma con assai migliori auspici nel 1609 i mercanti di Londra, deposte del tutto le speranze circa il passaggio di NE., affidano a Enrico Hudson, reduce dalla Novaja Zemlja, la ricerca del passaggio al Pacifico. La fortuna sembra propizia: il 24 giugno si apre davanti all'Hudson lo stretto (che oggi porta il suo nome) dritto verso O., poi dallo stretto la nave sbocca in un immenso spazio di mare aperto verso il S., del quale essa vien costeggiando tutto l'orlo orientale; ma, di fronte alla chiusa insaccatura della Baia di James, cade la concepita speranza del passaggio, e sopravvengono il duro sverno e la rivolta della ciurma, che tronca al prode navigatore la vita. Le scoperte di quel memorabile viaggio vengono completate poi nello stretto e nella Baia di Hudson (la quale va riconoscendosi appunto baia e non mare aperto) da sir Thomas Button (1612), da Robert Bylot con William Baffin pilota (1614), da Jens Muk inviato dal re di Danimarca (1619), da Thomas James che lasciò il suo nome alla minor baia dipendente da quella di Hudson (1631), da Lucas Foxe scopritore del canale, da lui nominato, a N. della Baia di Hudson (1631), risultando però vana ogni speranza che ancora si potesse nutrire d'un passaggio dalla gran baia ai mari dell'estremo Oriente. Né maggiore speranza dà in quegli stessi anni il famoso viaggio condotto da Bylot e Baffin (1616), per la via più settentrionale rivelata e percorsa dal Davis: la navigazione particolarmente fortunata permette alla piccola nave di raggiungere, traversando tutto quello che oggi diciamo Mar di Baffin, l'ingresso del Canale di Smith (che agli scopritori sembrò chiuso) al 78° N., poi gl'ingressi dei due stretti di Jones e di Lancaster; ma queste vie così settentrionali, anguste e bloccate dai ghiacci, parvero al Baffin opporre difficoltà così grandi da doversi scartare a priori ogni possibilità di servirsene per un passaggio al Pacifico.
I risultati di questi ultimi viaggi parvero per lungo tempo troncare ogni speranza d'un passaggio praticamente attuabile sulla via di NO., come già si era perduta la speranza d'un consimile passaggio verso NE. Di navigazioni a N. dell'America non si parla quasi più; e, se continua invece un maggior affluire di navi nelle acque artiche a N. dell'Europa, ciò si deve unicamente alle attrattive della caccia fruttuosissima. A taluna di queste navi, generalmente inglesi o olandesi, il caso riserva l'onore di novelle scoperte, specie sulle coste delle Svalbard e della Novaja Zemlja: nel 1664 Willem de Vlamingh, olandese, gira a N. la Novaja Zemlja, scendendo poi a S. lungo la costa orientale dell'isola fino al 74° di lat.; nel 1707 un altro baleniere olandese, Cornelis Gillis (o Giles), naviga in acque libere fino a 81° a NE. delle Svalbard, vantando quivi la scoperta di una terra, che, a voler ritenere autentica la notizia, può ravvisarsi soltanto nella assai più meridionale Isola Bianca giacente fra le Svalbard e la Terra di Francesco Giuseppe. Di viaggi che abbiano mire più elevate che la caccia e la pesca, sono soltanto da ricordare, nel 1671, quello di Federico Martens, che, chirurgo di bordo, visitò le Svalbard e ne lasciò un'accurata descrizione per lungo tempo assai accreditata, e, nel 1676, quello di John Wood che, ripreso il disegno di passare all'Asia per NE., tenendosi nell'alto mare a N. della Novaja Zemlja, dimostrò ancora una volta, salvato a stento sulle coste già note di quell'isola, l'enorme difficoltà del tentativo.
Nelle acque artiche americane, come s'è detto, venuta meno ogni iniziativa, il privilegio stesso accordato alla nuova Compagnia della Baia di Hudson (1670), concernente, oltre al commercio delle pelliccie, anche la ricerca del varco marittimo all'Oceano Pacifico, era per questa parte rimasto lettera morta. Soltanto nel sec. XVIII la compagnia, persuasa che non ancora fosse del tutto esclusa la possibilità d'un'apertura nella parete ocaidentale della baia, ricomincia i tentativi, e invia nel 1717 James Knight a un'esplorazione che doveva costare la vita a lui e a tutti i suoi; un'altra spedizione pur vana si tenta, in seguito all'insistenza di taluni nuovi patrocinatori inglesi del passaggio di NO., nel 1737; un'altra più risolutiva è affidata dall'Ammiragliato inglese nel 1741 a Cristoforo Middleton, che con due navi completa finalmente l'esplorazione della costa NO. dell'immensa baia senza trovare passaggio alcuno. A risultati non diversi pervengono William Moore e Francis Smith, che ancora nel 1746 scoprono quivi il Chesterfield Inlet, sfuggito ai navigatori precedenti. S'aggiungono due viaggi famosi per terra: quello di Samuel Hearne, che nel 1770-71 dal forte Churchill della Baia di Hudson raggiunge e segue il fiume Coppermine e ne scopre la foce in una nuova e più settentrionale porzione del Mar Glaciale, e quello di Alessandro Mackenzie, che nel 1789 scopre e segue fino alla foce, anch'essa nel Mar Glaciale, il gran fiume che del Mackenzie conserva il nome: nuova dimostrazione, e l'uno e l'altro viaggio, di quanto si estendesse realmente a N. la terraferma americana, di quanto più a N. quindi dovesse trovarsi il passaggio marino così ostinatamente cercato intorno alla baia. Queste conclusioni ricevono ancora conferma dalla navigazione famosa di Giacomo Cook, che in quegli anni stessi (1778) segue tutta la costa americana del Pacifico fino allo Stretto di Bering non solo, ma riconosce anche a N. dello stretto un largo tratto del Mare Artico. Dopo così chiare dimostrazioni, chi poteva ormai più pensare alla possibilità di trovare una via che, in latitudini così settentrionali, per così lungo giro, tra così formidabili ostacoli, potesse comunque riuscire utile ai traffici?
Tramonta dunque ogni scopo utilitario, e le perigliose vie rimangono del tutto abbandonate fino al giorno in cui gli uomini sono spinti a nuovamente ricercarle per il solo vantaggio della scienza. Unico precursore, durante il sec. XVIII, il capitano Costantino Phipps, che primo tenta nel 1773, per puro amore di scienza, un'esplorazione diretta al Polo, arrivando a N. delle Svalbard fino a 80°48′ di lat. Ma bisognava attendere il sec. XIX perché il movimento si diffondesse e le faticose vie del Mare Artico si aprissero ai nuovi pionieri.
Lo scioglimento eccezionale dei ghiacci in dipendenza di estati particolarmente calde, constatato dai balenieri negli anni 1816-17, alletta finalmente gli uomini di mare britannici a promuovere i primi tentativi nuovi: John Ross nel 1818 apre la via, penetrando nel Mar di Baffin ben due secoli dopo che il Baffin l'aveva scoperto, e di là, con poco successo, nel Lancaster Sound. Riprende l'anno dipoi con maggior risolutezza il cammino il luogotenente del Ross, Edoardo Parry, che con eccezionale fortuna corre verso O. tutto il Lancaster Sound e il susseguente Barrow Strait, scopre e segue per più di 200 km. anche lo stretto del Principe Reggente, diretto di qui verso S., quindi ancora per il Barrow Strait, sempre diritto verso O., perviene al largo Melville Sound, e non si arresta che sulla costa meridionale dell'isola Melville, quivi fermato dall'inverno. Di ben poco progredisce poi verso O. dopo lo sverno per l'impedimento insormontabile dei ghiacci, e, avvistata appena la nuova Terra di Banks, il ritorno s'impone; ma il viaggio, anche arrestato a questo punto, segna un così lungo tratto novellamente conquistato di mari e di terre, che ne risulta ormai per quasi due terzi percorso il cammino dall'ingresso atlantico dello Stretto di Davis all'opposto sbocco dello Stretto di Bering.
Una seconda spedizione tentò il Parry nel 1821, cercando un varco in paraggi meno settentrionali; ma, nonostante due sverni coraggiosamente affrontati, gli riuscì soltanto di pervenire dalla Baia di Hudson, per il Canale di Foxe scoperto 190 anni prima, al sottile stretto che dal nome delle sue navi chiamò di Fury ed Ekla, a tergo del Mar di Baffin. Un terzo viaggio e un altro sverno ancora (1824-25), nel Canale del Principe Reggente, nulla aggiunsero alle conoscenze già acquisite. Un quarto ne volle ancora tentare il tenace esploratore, ma con tutt'altra meta, verso il Polo cioè e per la via delle Svalbard (1827); ma l'opinione allora corrente che alle più alte latitudini i ghiacci dovessero essere piani e lisci e particolarmente atti alle avanzate in slitta, si dimostrò purtroppo vana: quell'esplorazione, tentata appunto con battelli mutati in slitte (trainate a forza di braccia), incontrò ghiacci asprissimi, per di più derivanti verso S.; pur tuttavia fu raggiunta la lat. di 82°45′, rimasta insuperata poi fino al 1876.
Questi anni del terzo decennio del secolo segnano anche un progresso sensibilissimo nelle conoscenze delle coste continentali americane sul Mar Polare, che, quasi ignote fino allora, il governo britannico fa riconoscere sistematicamente. Il capitano John Franklin, che già pochi anni innanzi aveva navigato nel mare delle Svalbard è inviato per via di terra, nel 1821, alla foce del Coppermine e di qui scopre a E. tutta la costa lungo il Canale Coronazione; in una seconda spedizione, nel 1826, dalla foce del Mackenzie raggiunta per terra egli scopre a O. la costa fino al 150° long., e i suoi compagni Richardson e Kendall, a E., la costa dal Mackenzie al Coppermine, mentre per mare il capitano Beechey, spintosi fuori dello Stretto di Bering, manda il suo luogotenente Elson lungo la costa alascana a esplorare fino alla Punta Barrow. Così, in un brevissimo giro d'anni, tutta la lunghissima costa continentale fuor dallo Stretto di Bering fino all'imbocco dello Stretto Dease era segnata nelle carte, mancando soltanto un piccolo tratto a E. della Punta Barrow, che fu riconosciuto più tardi da Dease e Simpson nel 1837.
L'impulso dato in questi anni più non si arresta. Giovanni Ross, per munifica iniziativa dell'industriale Felix Booth, ritenta la via del NO. nel 1829, ma è bloccato per tre inverni successivi nel Canale del Principe Reggente; di qui però riesce a esplorare con le slitte tutta la terra ch'egli chiamò Boothia Felix, a determinare quiv la posizione del Polo magnetico, a scoprire a O. della Boothia l'isola fin'allora ignota del Re Guglielmo. Di faccia a questa nuova isola perveniva in quegli stessi anni (1834) Giorgio Back, trattovi per terra lungo il Gran Fiume del Pesce da lui scoperto per conto della Compagnia della Baia di Hudson; e P. Dease e Th. Simpson raggiungevano anch'essi (1838-39) la foce del medesimo fiume arrivandovi però da O., dalla foce del Mackenzie, così che ne risultava ormai riconosciuta tutta la costa continentale dallo Stretto di Bering fino ai tortuosi aggiramenti adducenti all'ingresso settentrionale della Baia di Hudson. Bastava ora che una nave riuscisse a congiungere la via già seguita dal Parry oltre il Lancaster Sound, ovvero quella più meridionale per la Baia di Hudson, con questa lunga via d'acque seguente la costa continentale, per poter dire compiuto il laborioso passaggio di NO.: a tale fine l'Ammiragliato inglese inviava nel 1845 John Franklin, già così esperto esploratore polare, con le due navi Erebus e Terror, le quali dal Lancaster Sound riuscivano sì a raggiungere direttamente l'Isola Re Guglielmo, ma poi rimanevano imprigionate quivi dai ghiacci in tal modo da non potersene più sciogliere: così che i miseri, dopo tre sverni consecutivi, finivano con soccombere tutti, non uno eccettuato, ai morbi e al gelo.
Il mistero ricoprente il destino dell'infelice spedizione, scomparsa senza che nulla si sapesse del suo cammino né della meta, destava tale ansietà in Inghilterra da derivarne tutta una serie di ricerche promosse dall'Ammiragliato e da privati per la salvezza degli scomparsi. Tre spedizioni invia, nel 1848, l'Ammiragliato: l'una, comandata da Giacomo Clarke Ross, nipote di Giovanni, impedita dai ghiacci, oltrepassa di poco i paraggi del Barrow Strait; un'altra, condotta dal Richardson e dal Rae, esplora gli stretti già noti a E. della foce del Mackenzie fino al Canale Coronazione; una terza, condotta dal Kellett, s'aggira lungo le coste fra lo Stretto di Bering e il Mackenzie. Nessuna delle tre avendo trovato traccia della spedizione Franklin, altre navi si armano per la generosa ricerca: per questo nel 1850-51 il vecchio John Ross esplora le adiacenze del Barrow Strait, O.T. Austin con quattro navi batte la stessa via, scoprendo l'isola Principe di Galles, W. Penny a N. del Barrow Strait riconosce tutto il Canale di Wellington e le terre adiacenti, e, prima spedizione americana di fronte a tante britanniche, Enrico Grinnell manda due navi a tentare lo stesso Canale di Wellington.
Ma assai più importante è, sempre negli stessi anni, la spedizione di Roberto Mac Clure, inviato dall'Ammiragliato con la nave Investigator per la lunga via dello Stretto di Bering. Favorito fuor dallo stretto da un mare relativamente libero, il Mac Clure raggiunge facilmente la Terra di Banks, già scoperta molto più a N. dal Parry, e segue quasi tutto lo stretto fra quest'isola e la nuova Terra del Principe Alberto. Bloccato nello stretto dai ghiacci, le slitte gli permettono di giungere il 26 ottobre 1850 allo sbocco settentrionale dello stretto nel Melville Sound, là dove era pervenuto da levante il Parry trent'anni prima: così si congiungevano insieme gl'itinerarî provenienti dalle due opposte parti, e il passaggio di NO. era virtualmente compiuto. Dai ghiacci il Mac Clure poté uscire nel luglio 1851, riscendendo a S. e poi girando esternamente tutta l'isola di Banks, di dove, benché bloccato di nuovo dai ghiacci, pervenne con le slitte nell'aprile 1852 al luogo stesso, nell'isola Melville, dove il Parry aveva svernato nel 1819-20. Il 6 aprile 1853 avveniva finalmente l'incontro risolutivo, poiché alla nave del Mac Clure, da un anno e mezzo bloccata tra ostinatissimi ghiacci, giungeva in quel giorno un drappello d'uomini mandati innanzi dal capitano Kellett, da poco svernante nell'isola Melville dov'era giunto dall'Inghilterra: la comunicazione per il NO. era così stabilita con diretto contatto, tanto che prima una parte degli uomini dell'Investigator, poi gli altri col Mac Clure stesso, abbandonando la nave ormai condannata, si univano col Kellett all'isola Melville, donde raggiungevano poi per la via dell'Atlantico la Gran Bretagna.
Continuano intanto le spedizioni alla ricerca, ormai quasi disperata, della spedizione Franklin. Il capitano R. Collinson, uscito anch'egli nel 1851 dallo Stretto di Bering, non riesce nel compito pietoso meglio del Mac Clure, poiché raggiunge la Terra Alberto e visita più tardi gli stretti già noti lungo la costa americana, subendo tre inverni consecutivi, ma senza arrivare all'isola dove si nascondevano le tragiche reliquie. Neppure vi arriva la spedizione di W. Kennedy che, avendo con sé l'ufficiale francese J.R. Bellot, esplora (1851-52) dal Canale del Principe Reggente con lunghissime escursioni l'adiacente isola North Somerset (a S. della quale scoprono lo stretto denominato dal Bellot) e l'isola Principe di Galles. Pure nel 1852 altre cinque navi della marina inglese navigano, sotto il comando di sir Ed. Belcher, per il Lancaster Sound: due, mandate innanzi col Kellett, oltre a incontrare e raccogliere, come s'è detto, l'equipaggio pericolante del Mac Clure, inviano esploratori a riconoscere per intero l'isola Melville e a scoprire ed esplorare (merito del capitano Mac Clintock e del luogotenente Mecham) l'isola del Principe Patrick; due altre aggiungono scoperte nuove nelle isole immediatamente a N. del Canale di Wellington. Dopo il terzo sverno, abbandonate delle cinque navi quattro prigioniere dei ghiacci, il Belcher rientra in patria nel 1854, ricco di nuove scoperte, benché anch'egli senz'alcuna notizia di lord Franklin e dei suoi. Contemporaneamente rientra in Inghilterra il capitano Inglefield, che nel '52, cercando per lady Franklin i perduti, si era spinto rapidamente nei paraggi inesplorati a N. del Mar di Baffin (Canale di Smith) toccando la lat. di 78°28′, e poi nello Stretto di Jones, e nel'53 era tornato nelle acque artiche a raggiungere il Belcher, avendo con sé il Bellot che incontrava misera fine poco appresso, ingoiato da un crepaccio dei ghiacci. Una spedizione americana, promossa dal Grinnell, aveva aggiunto anch'essa nello stesso anno le sue ricerche: il dott. E. Kane di Filadelfia aveva infatti seguito il cammino dell'Inglefield a N. del Mar di Baffin, risalendo per il Canale di Smith fino a sboccare in quel più ampio seno che si chiamò il Bacino di Kane; e il luogotenente Morton dal quartiere di sverno aveva proseguito con slitte fino a 80°40′ seguendo la costa groenlandese lungo il nuovo Canale Kennedy.
Queste spedizioni però, volgendo l'anno 1854, segnano la fine dello sforzo grandioso che governo e privati avevano consacrato per sette anni alla ricerca della spedizione Franklin: sette anni preziosi, non tanto ai fini stessi della ricerca (ché solo al termine di quel 1854 pervennero in Europa le prime scarse notizie dei luoghi e delle circostanze della catastrofe, raccolte dal dott. Rae lungo la costa occidentale della Boothia Felix), quanto per le scoperte fatte, che permettevano ormai il tracciamento di tanta parte del disperso e frammentario Arcipelago Artico Americano. A completare la ricerca pietosa delle reliquie della spedizione Franklin provvide (1857-59) l'invio d'una nave, armata a spese di lady Franklin e d'altri generosi, e comandata da L. Mac Clintock, la quale, dopo due sverni che permisero fruttuose esplorazioni a N. e a O. della Boothia Felix, riuscì a raggiungere il teatro della triste odissea e a trovare i resti preziosi (altri resti dovevano esser trovati venti anni più tardi dalla spedizione Schwatka, giunta per terra dalla Baia di Hudson con un percorso totale in slitta di oltre 5000 km.). Altre spedizioni invece, non più vincolate ormai alla pietosa ricerca, abbandonano le vie ad O. del Mar di Baffin, quasi unicamente battute da quarant'anni, e si dànno a investigare la strada che il Kane aveva dimostrato proseguire direttamente verso N. e che il Morton aveva trovata tutta libera dai ghiacci nel giugno, a poco più di 900 km. dal Polo. Prima segue a quella del Kane un'altra spedizione americana (1860-61), anche questa promossa dal Grinnell, e condotta da Isacco Hayes già compagno del Kane: risultato, un centinaio di km. guadagnati verso tramontana, sempre lungo il Canale Kennedy, di là dal punto raggiunto dal Morton. Segue ancora una spedizione americana, comandata da Francesco Hall, già fatto espertissimo da una dimora di quattro anni nella Terra di Baffin e da altri cinque trascorsi fra gli Eschimesi della Baia di Hudson: nel 1871, con una navigazione eccezionalmente favorevole, gli riesce di portare la sua Polaris fino alla lat. di 82°16′, dove il Canale di Robeson, prosecuzione di quello di Kennedy, si apre nel Mar Polare; ma, morto il valoroso capitano, nell'estate seguente la nave è travolta dalla deriva dei ghiacci verso mezzodì, salvandosi l'equipaggio, parte per il fortuito incontro d'altri balenieri, parte miracolosamente su un banco di ghiaccio trascinato fino al largo del Labrador.
Le scoperte delle tre spedizioni americane lungo questa via, che veramente sembrava aprire un accesso verso il Polo, ridestano l'emulazione dell'Inghilterra, da più anni assente da questo suo vecchio teatro di gloria. Partono quindi nel 1875, a spese del governo, due navi comandate da Giorgio Nares, e una di esse riesce con felice navigazione fuor degli stretti lungo la Terra di Grant (continuazione della Terra di Ellesmere) alla lat. di 82°24′; delle varie escursioni in slitta una riconosce tutto l'orlo settentrionale della stessa terra, un'altra segue un lungo tratto della costa nord-groenlandese, un'altra punta direttamente verso tramontana, raggiungendo, su un mare non già libero come aveva fatto sperare qualche spedizione precedente, ma più che mai irto di ghiacci, la lat. di 83°20′ a poco più di 700 km. dal Polo.
Il buon esito della spedizione Nares dà nuova spinta alla benefica rivalità tra Inglesi e Americani su questa via feconda di scoperte. Con l'appoggio del governo degli Stati Uniti parte nel 1881 una nuova spedizione comandata dal luogotenente A.W. Greely, inviata a stabilire sulle rive del Canale di Robeson una stazione che, rifornita di anno in anno del necessario, abbia a servire come punto di partenza per parecchie spedizioni successive. Con auspici particolarmente favorevoli la nave del Greely riesce a raggiungere in un mese solo di navigazione il punto prescelto; ma, dopo le fruttuose escursioni in slitta compite dal Greely stesso nel montuoso interno della Terra di Grant, e dal tenente Lockwood lungo nuovi tratti della costa nord-groenlandese (lat. raggiunta 83°24′) e poi attraverso tutta la Terra di Grant, mancano ai disgraziati esploratori i rifornimenti promessi, e quando finalmente nel giugno dell'84 arriva la nave soccorritrice, essa non trova più che sette superstiti dei 25 membri della spedizione.
Tutte queste spedizioni, susseguitesi sulla via del Canale di Smith, avevano scoperto e precisato tratti di costa assai lunghi, sconosciuti prima, e soprattutto avevano contribuito a dare indizio ormai di quale fosse nel complesso la figura della principale isola di tutta la calotta artica. Diciamo la Groenlandia, che, abbastanza ben nota fin dai secoli XVI e XVII lungo tutta la costa occidentale prospiciente allo Stretto di Davis e al Mare di Baffin, era stata invece appena toccata o intravista qua e là lungo la costa orientale dall'Hudson, nel 1607, e da qualche nave peschereccia più tardi; così che l'isola intera era ancora in grandissima parte ignota, pur nel contorno, al principio del sec. XIX. Dobbiamo le prime conoscenze nuove dell'orlo orientale al danese capitano Guglielmo Graah, che, tra il 1821 e il '31, rilevò il tratto costiero dal Capo Farvel fino a 65°18′ di lat., e al baleniere scozzese Guglielmo Scoresby, che nel 1822 esplorò con molta cura il tratto da 69° a 75°. Ma quasi nulla più s'aggiunge da questa parte per oltre un quarantennio; cosicché, quando già per il Canale di Smith l'Hayes ha riconosciuta (1861) la costa groenlandese di ponente fino oltre l'81° sulla costa, che pure è più vicina all'Europa, nulla di preciso si conosce di là dal 72°30′ raggiunto da Scoresby. Soltanto nel 1868 riesce al geografo tedesco Augusto Petermann, da lunghi anni propugnatore vivacissimo dei tentativi polari per la via nord-europea, di organizzare una spedizione tedesca che si volgesse al Polo lungo la costa orientale della Groenlandia: il primo tentativo della Germania, affidato al capitano K. Koldewey, trova però la costa groenlandese tutta chiusa dai ghiacci, così che la nave deve rivolgersi, e con scarso frutto di nuove scoperte, alle Svalbard; riparte la Germania l'anno dipoi con la minore Hansa e raggiungono questa volta la costa groenlandese; ma la Hansa si perde (salvandosi l'equipaggio su un ghiaccio galleggiante che li porta a S. per 1800 chilometri), e la Germania sola riesce a toccar la costa approdando all'isola Sabine, di dove vengono poi scoperte ed esplorate con le slitte nuove sponde verso N. fino a 77°30′ e l'imponentissimo fjord Francesco Giuseppe (1869-70).
Questo lungo ritardo nell'esplorazione della Groenlandia orientale ha la sua ragione nel fatto che le spedizioni nel Mare Artico europeo si volgono abitualmente, piuttosto che alla costa E. groenlandese pericolosamente sbarrata dai ghiacci, ai paraggi delle Svalbard che, facilmente accessibili d'estate fino a 80° e più, rappresentavano per molti la più facile e consigliabile stazione di partenza per una fruttuosa avanzata verso il Polo. Così vediamo nel 1857, nel '61, nel '64, nel '68, nel '72, succedersi cinque spedizioni svedesi (le ultime tre comandate da A. E. Nordenskiöld, e all'ultima partecipò anche il tenente Eugenio Parent della marina italiana), tutte dirette a esplorare scientificamente le Svalbard e il mare adiacente e a tentare se possibile un'avanzata ulteriore a N. delle isole, senza però che alcuna delle cinque riesca a guadagnare un sol passo nella direzione del Polo.
La grande frequenza di navi europee in tutti questi mari settentrionali porta anche in questi anni a nuove esplorazioni della Novaja Zemlja. Fra gli altri, nel 1869 e nell'anno seguente, il capitano E.H. Johansen (o Johannesen), baleniere norvegese, trovando libero il mare per vastissimi spazî intorno alla grande isola e più in là, compie l'intero periplo insulare non solo, ma riesce anche a circumnavigare quasi senza difficoltà l'adiacente Mare di Cara; nel 1871, il capitano E. Carlsen, pure norvegese, riconosce all'estremo NE. dell'isola il Porto del Ghiaccio, ove aveva svernato nel 1596 Willem Barents, e rintraccia e riporta in Olanda le preziose reliquie di quella gloriosa spedizione.
A N. della Novaja Zemlja però, per lungo tempo era parso impossibile aprirsi una via, ché tutte le navigazioni pervenute nelle acque più settentrionali del Mar di Barents concludevano per l'esistenza d'una ostinata barriera di ghiacci, continua dalle Svalbard alla grande isola russa. Soltanto in questi anni avviene a parecchie navi baleniere e, nel 1871, a una spedizione comandata dai due ufficiali austriaci Giulio Payer e Carlo Weyprecht di trovare il mare relativamente aperto anche verso tramontana. E perché tali condizioni favorevoli sembravano ripetersi di frequente a estate avanzata, vollero il Payer e il Weyprecht ritentare al più presto la prova: onde col generoso contributo di privati fu allestita per loro una nuova spedizione, destinata, secondo il programma, a navigare a N. della Novaja Zemlja per esplorare di là il mare nord siberiano; equipaggiavano la Tegetthoff (tale il nome della nave) marinai quasi tutti italiani della Dalmazia. Partita la nave da Bremerhaven nel giugno 1872, la bloccarono i ghiacci nell'agosto lungo la costa della Novaja Zemlja e così prigioniera la trascinarono per un anno verso E. e verso N., finché il 31 agosto del '73 apparvero all'orizzonte le prime ignote isole dell'arcipelago che nel loro insieme chiamarono Terra di Francesco Giuseppe. Le esplorazioni in slitta condussero gli scopritori a riconoscere numerose isole, estese a N. fino a 82°5′ (estremo punto raggiunto) nell'isola Principe Rodolfo; nel ritorno, abbandonata la nave, riuscirono a raggiungere felicemente coi canotti la Novaja Zemlja, dove furono raccolti da una baleniera russa.
A questa scoperta di nuove terre, onde la spedizione del Tegetthoff ebbe fama come una delle più notevoli del sec. XIX, segue ben presto l'altra non meno famosa spedizione della Vega, che conquista la palma del passaggio di NE., compiendo per intero il periplo settentrionale dell'Asia. Fino agli anni di cui parliamo la conoscenza del contorno dell'Asia lungo il Mare Artico si era venuta precisando assai più per via di terra che per via di mare, perché la conquista russa della Siberia, la quale aveva condotto Semon Dežnev già nel 1648 all'estrema punta orientale dell'Asia, aveva parimente condotto di buon'ora altri avventurosi in più punti a riconoscere gli sbocchi dei grandi fiumi siberiani nel mare settentrionale: finché dal 1734 al 1743, per ordine del governo russo, si era proceduto tratto per tratto, col concorso anche di scienziati stranieri, al rilevamento della più gran parte delle coste, partendo i rilevatori dallo Stretto di Jugor e reciprocamente dalle foci della Lena, e seguendo con slitte e con battelli l'orlo costiero: nel 1742 il timoniere Čeljuskin era pervenuto con un traino di slitte alla punta estrema che porta il suo nome. Dalla costa poi si era tentata anche la via verso isole supposte o vedute verso tramontana: così le Isole della Nuova Siberia erano già in parte note ed esplorate nel 1770 dal Ljachov, la cui opera veniva continuata dal Sannikov nel 1805. Tutto questo complesso di esplorazioni, determinando per intero, almeno sommariamente, il contorno della costa siberiana, segnava il cammino a chi volesse riprendere il disegno, da tanto tempo messo da parte, dell'intero passaggio di NE. D'altronde la navigabilità del Mar di Cara, così a lungo ritenuta pressoché impossibile per l'accumularsi dei ghiacci, s'era invece dimostrata, grazie alle recenti navigazioni norvegesi, non di rado possibile, anzi addirittura facile a estate avanzata.
Nel 1875 una spedizione scientifica svedese con la nave Pröven, sotto la guida del Nordenskiöld, verifica ancora una volta la costa, arrivando senza notevoli difficoltà alla penisola dei Samoiedi e alla foce del Enisej (Jenissei), donde lo scienziato svedese può proseguire risalendo il gran fiume e ritornando per la via di terra; nel 1876 l'esperimento svedese si rinnova colla nave Ymer, che in venti giorni naviga da Troms alla foce del Enisej e con eguale facilità ritorna nel 1877 una nave inglese in un solo viaggio perviene direttamente dall'Inghilterra fino alla foce dell'Ob e su per il fiume a Tobolsk. Tante e replicate prove decidono quindi il Nordenskïold, fatto esperto come nessun altro da vent'anni di esplorazioni in tutti i mari settentrionali, al tentativo di compiere l'intero passaggio di NE. girando dall'Atlantico settentrionale al Pacifico per tutta la lunghezza del mare nord-asiatico. Nave destinata la Vega, che la Lena accompagnerà fino alla foce del fiume omonimo; imbarcato tra gli altri ufficiali il capitano Giacomo Bove della marina italiana, la spedizione salpa da Göteborg il 4 luglio 1878, perviene a Porto Dickson sul golfo del Enisej il 6 agosto, e prosegue mantenendosi in complesso poco lontana da terra, in modo da poter verificare e rettificare in molti luoghi i precedenti rilievi; le foci della Lena sono raggiunte prima che l'agosto finisca, ma la speranza di poter arrivare tosto allo Stretto di Bering è troncata dai ghiacci che serrano la nave alla costa il 4 ottobre, a poco più di 200 km. dallo stretto; così che solo è dato alla spedizione di penetrar nel Pacifico a sverno finito il 20 luglio dell'anno seguente. Così l'illustre svedese compiva per la prima volta nel 1879 il passaggio di NE., che Sebastiano Caboto aveva disegnato da Londra nel 1553.
Appena occorre menzionare, contemporanea alla navigazione della Vega, la scoperta della piccola e dispersa Isola della Solitudine compiuta da E. H. Johansen nel '78, a NE della Novaja Zemja. Assai più memorabile, sempre in quegli anni, il viaggio della nave Jeannette, allestita da privati americani per una spedizione a N. dello Stretto di Bering e posta agli ordini del cap. G. W. De Long; uscita dallo stretto nell'agosto del '78 volta verso l'isola di Wrangel, la nave fu quivi presso serrata dai ghiacci che la trascinarono per 21 mesi con tortuoso cammino fino a NE. delle Isole della Nuova Siberia, dove essa finalmente s'inabissò lasciando i componenti della spedizione affidati per la loro salvezza ai battelli: tredici approdarono in salvo sulla costa asiatica della Lena, gli altri dopo tragica odissea perirono tutti compreso il De Long, lasciando come risultati del tentativo la scoperta di tre piccole isole a N. della Nuova Siberia, e la prima dimostrazione dell'esistenza probabile d'una deriva E.-O. al largo del Mare Siberiano.
Continuano in quest'anno e nel successivo i contributi delle più vaste nazioni all'opera esplorativa. Fra gli altri rammentiamo il Corwin, americano, che visita per la prima volta a fondo nel 1880 l'isola di Wrangel e ne prende possesso in nome degli Stati Uniti; il Willem Barents, olandese, esplorante per tre anni consecutivi (1878-80) il Mar di Barents; la Dijmphna, danese, armate per un tentativo polare a N. del capo Čeljuskin (1882-83), ma arrestata dalle circostanze avverse nel Mare di Cara (era a bordo col capitano Hovgaard anche il tenente De Rensis della marina italiana); l'Eira, inglese, condotta dal capitano Leigh Smith (1880 e 1881) a nuove scoperte nelle isole di Francesco Giuseppe, e naufragata quivi, salvandosi fortunatamente l'equipaggio coi battelli, dopo lo sverno.
A tutte queste e ad altre esplorazioni, che hanno uno scopo limitato all'illustrazione d'una zona più o meno ristretta di mare e di terra, si contrappone, nell'ultimo decennio del sec. XIX., un tentativo grandioso di traversata dall'intero mar Polare, poiché la lunga deriva della Jeannette trascinata per così gran tratto delle acque siberiane da E. ad O., il fatto sorprendente che reliquie del naufragio della stessa Jeannette fossero rinvenute dopo quattro anni all'estremo S. della Groenlandia quivi traportate dai moti sconosciuti del Mar Polare, il fatto pur da lungo tempo osservato che legni di piante siberiane si trovassero così spesso galleggianti lungo le sponde delle Svalbard e della Groenlandia, portarono il naturalista norvegese Fridtjof Nansen, già bene esperto del mondo artico, a divinare l'esistenza d'una gran corrente attraverso il bacino polare, la quale dall'alto mare siberiano di NE. fluisse fino alla gran porta marina aperta fra Groenlandia e Svalbard, continuando di qui verso S. con la già nota corrente orientale della Groenlandia. Chi si fosse quindi affidato deliberatamente - tale l'idea del Nansen - ai ghiacci siberiani che già avevano imprigionato la Jeannette e si fosse lasciato poi trascinare indefinitamente con essi dagli stessi moti delle correnti, avrebbe finito presumibilmente con attraversare il bacino polare in paraggi non ancora visitati da alcuno, e sarebbe stato forse portato dall'ignota deriva nella zona stessa del Polo. Offertosi per fortuna al Nansen il Fram, nave di tale costruzione da poter resistere indenne per anni alle pressioni dei ghiacci, partì egli (avendo a capitano Otto Sverdrup) il 20 giugno 1893 da Cristiania (oggi Oslo), e, dopo una fruttuosa ricognizione della costa siberiana di NE., fattosi con la nave prigioniero volontario dei ghiacci a ponente delle isole della Nuova Siberia, fu trascinato di qui fino a N. delle Svalbard con un lento andare di trentacinque mesi, durante i quali la più alta latitudine raggiunta fu di 85°57′. Il Nansen stesso volle a un certo punto lasciare la sicura prigionia della nave per accostarsi maggiormente al Polo e raggiunse in slitta 86°14′ (long. 95° E.), costretto poi nel ritorno, per il perduto contatto con la nave, a far sua meta l'arcipelago di Francesco Giuseppe, di dove, dopo l'inverno passato quivi col suo unico compagno, fu tratto fortunatamente in salvo dalla spedizione inglese di F. G. Jackson, occupata a completare la conoscenza del remoto arcipelago. Raggiunsero la Norvegia nell'agosto del '96, quasi ad un tempo col Fram, finalmente lasciato libero dai ghiacci poco a N. delle Svalbard. La piena conferma dell'esistenza della corrente divinata dal Nansen, la scoperta d'un così gran tratto del Mar Polare e la constatazione delle sue rilevanti profondità, il raggiungimento di latitudini che distavano ormai di appena 400 km. dal Polo, la lunga serie di osservazioni scientifiche d'ogni sorta raccolte durante la traversata fecero di questa la più preziosa spedizione condotta nel mondo artico.
Rimanevano ancora non pochi dubbi, dopo la traversata del Fram e le escursioni in slitta del Nansen, se realmente l'arcipelago di Francesco Giuseppe non fosse prolungato verso N. da altre terre intraviste dalla spedizione del Payer. A dissipare tali dubbî attese la spedizione (la prima con bandiera italiana) di S. A. R. Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, mossa nel giugno 1899 con la Stella Polare dal Fjord di Oslo, e pervenuta senza difficoltà fino all'isola del Principe Rodolfo, la più settentrionale dell'arcipelago; dalla stazione di sverno, sfortunata soprattutto per la perdita del tenente Franco Querini, miseramente scomparso con due compagni, poté il capitano Umberto Cagni (essendo infermato il duca) spingersi a N. con le slitte fino a 86°33′, superando di 35 km. l'avanzata settentrionale del Nansen, ma dimostrando vana ogni speranza di trovare altre terre in questi paraggi. Dopo di che ben poche spedizioni frequentarono ulteriormente a scopo di scienza le acque dell'arcipelago Francesco Giuseppe.
Durante quest'ultimo periodo del sec. XIX, le vie d'acqua americane dirette al N., predilette dagli scopritori, dal Kane in poi, e seguite con tanta costanza fino alla spedizione del Greely, non erano già rimaste abbandonate, ma in realtà, più che a cercare la via più breve verso il Polo, quegli anni erano stati dedicati a una ricerca paziente e sistematica dei luoghi, soprattutto per una migliore conoscenza dell'enorme isola groenlandese. Oltre alle sistematiche esplorazioni costiere attuate dal governo danese per i lembi dell'isola più frequentati, si hanno allora anche i primi tentativi di penetrazione sulla grande ghiaccia interna (v. groenlandia): quello dell'instancabile Nordenskiöld, mosso nel 1883 dalla costa dello Stretto di Davis, quello non molto posteriore dell'americano ingegnere R. C. Peary nel 1886, la traversata dall'uno all'altro mare compiuta nella regione meridionale nel 1888 da Nansen, prima rivelazione dell'ardire e della tenacia di lui. Un'altra traversata si deve nel 1892 al Peary, il quale, facendo stazione nel Golfo d'Inglefield, si prefigge di arrivare attraverso la ghiaccia interna, assai più agevolmente che non si potesse lungo l'aspra costa dei canali di Smith e di Robeson, alla sponda N. dell'isola; e riesce infatti a un tratto costiero del tutto nuovo nel Canale dell'indipendenza, dove già l'orlo insulare appare volgersi dall'estremo N. al levante. Gli anni seguenti vedono altre due traversate del Peary, in quei medesimi paraggi (1895 e 1912), un'altra più meridionale di J. P. Koch dove l'isola è più larga, a E. del Mar di Baffin (1913), un'altra condotta assai più a S. del De Quervain (1912). Si aggiunga che l'anno 1900 vede l'infaticabile Peary completare il giro ancora incompiuto della costa N. dell'isola fin quasi al già scoperto Canale dell'Indipendenza, e che il primo decennio del nuovo secolo vede completarsi finalmente nelle grandi linee la conoscenza della difficilissima costa orientale, grazie alla spedizione del duca Filippo d'Orleans (guidata per la parte scientifica dall'esploratore belga De Gerlache), la quale aggiunse al tratto scoperto trent'anni prima dal Koldewey un altro tratto fino a 78°17′, e grazie alla memoranda spedizione danese di Mylius Erichsen, che nel 1906-1908 con eroico sacrificio di vite rivelò l'accidentatissima costa più a N., per ben tre gradi e mezzo, arrivando appunto fino al Canale dell'indipendenza scoperto dal Peary e compiendo così il peripolo dell'intera isola. le spedizioni ancora compiute in questo estremo N. e NE. dell'isola di E. Mikkelsen, dal Lauge Koch (1921-1923), da Knud Rasmussen (1910-19), hanno poi perfezionato vieppiù le conoscenze acquisite.
Alle esplorazioni groenlandesi si accompagnano quelle delle terre sull'opposta sponda del canale di Smith. Anche qui compare l'infaticabile Peary che, svernando con la nave nel Bacino di Kane (1898), reca con le sue escursioni in slitta le prove decisive della unione delle terre di Grant e di Ellesmere in un'isola sola. Nello stesso anno otto Sverdrup, col Fram ch'egli aveva già guidato nella spedizione nansen, sverna anch'egli nel Bacino di Kane, poi con felice ispirazione trae la nave per lo Stretto di Jones ed altri sverni all'estremità SO. della Terra di Ellsmere, e di qui, in paraggi trascurati fin allora dagli esploratori artici, continuando le escursioni in slitta anche durante l'inverno, scopre tale serie di terre ad O. della terra di Ellsmere da doverlo porre fra i massimi rivelatori del mondo artico (1898-1901). Non meno famosa impresa quella compiuta pochi anni dopo, sempre nell'Arcipelago Artico Americano, dal norvegese Roald Amundsen, che, deliberato a precisare la posizione del polo magnetico boreale dopo l'ormai vecchia determinazione di J. Ross, raggiungeva non solo dall'Europa la meta prefissata nell'isola Re Guglielmo, già tomba della spedizione Franklin, ma di qui proseguendo verso O. finiva con raggiungere lo Stretto di Bering avendo compiuto, dopo tre sverni, con la sua piccola Gjöa l'intero passaggio di NO. (1903-06), che il Mac Clure solo con l'aiuto di altre navi aveva potuto compiere sessant'anni prima.
Ma più clamorosa scoperta riservava l'anno 1909 con la conquista del Polo dovuta a Roberto Peary. Un primo periodo di tentativi continuati diretti a tale conquista si era avuto - rammentiamo - dopo la metà del sec. XIX, sulla via, apparsa così promettente, del Canale di Smith; poi, le difficoltà gravissime incontrate dal Nares avevano dato apparentemente ragione a chi sconsigliava l'avanzata dal mare americano, senza che però d'altra parte l'avanzata dai mari europei, propugnata dal Petermann e da molti tentata, sortisse un esito più incoraggiante. Meglio valeva, secondo la propaganda del Weyprecht, non ritentare altrimenti la via del Polo, fin tanto che con osservazioni coordinate e metodiche non si fosse acquistata una più completa conoscenza scientifica delle regioni circumpolari: e infatti una rete di stazioni di studio opportunamente distribuite (prima quella tenuta dal Greely, come già si è detto, nel Canale di Robeson), poté stabilirsi per l'accordo internazionale di undici stati in quindici punti della calotta artica. Ma l'accordo ebbe effetto per un anno solo (1882-83), e, dopo un breve intervallo, vediamo la gara verso il N. riaccendersi, risvegliata soprattutto dalla brama di superare l'alta latitudine raggiunta nel suo gran viaggio dal Nansen. Il giornalista americano W. Wellmann, nel 1894 dalle Svalbard e nel 1898 dalle Isole di Francesco Giuseppe, tenta senza successo una nuova avanzata, ma Cagni nel 1900 supera la latitudine di Nansen, e Peary nello stesso anno incomincia la serie dei suoi tentativi, nel 1900 stesso spingendosi a N. della Groenlandia fino a 83°50′, nel 1902 raggiungendo a N. del Canale di Robeson 84°17′, nel 1906 superando Cagni con l'87°6′ toccato a N. della Groenlandia, nel 1909 finalmente lanciandosi arditamente a tramontana dal Capo Columbia nella Terra di Grant con 23 uomini, 133 cani e 19 slitte, e raggiungendo, senz'alcun incontro di terre, il Polo o i suoi immediati contorni il 6 aprile 1909. Così, dopo i molteplici tentativi d'una intera età, dopo ventitré anni d'approcci e d'assalti senza riposo da parte del Peary stesso, cadevano le ultime barriere opposte all'uomo dall'ostilissimo mondo dei ghiacci, e la conquista della calotta artica poteva insomma nelle linee generali chiamarsi completa. Dopo d'allora recano soltanto ritocchi o perfezionamenti di conoscenze la spedizione americana di D.B. Macmillan (1913-17), cercante invano a NO. della Terra di Grant la fantastica isola di Crooker già scorta incertamente dal Peary; gl'itinerarî del canadese V. Stefansson, svolti per sette anni consecutivi (sfidando la lunga serie degli sverni e vivendo delle sole risorse della caccia) dal bacino del Coppermine alla costa dell'Alasca, da questa alla Terra di Banks, e alla vicina Terra Alberto, al gruppo delle isole Parry, alla nuova isola Borden (1913-18), completando così la conoscenza ormai, può dirsi, perfetta dell'Arcipelago Artico Americano; le crociere del canadese capitano J. Bernier (1904-25) incaricato dal governo del Canadà di stabilire posti permanenti di gendarmeria in tutti i punti più vitali dell'arcipelago. Egualmente si perfezionano ancora le conoscenze della Groenlandia del N. e del NE. e della Terra di Baffin, grazie alle cinque spedizioni mosse dalla stazione danese di Thule sul Canale di Smith e condotte dal groenlandese Knud Rasmussen (1912-1923) e dal Lauge Koch.
In particolare, la storia della scoperta dell'Arcipelago Artico Americano può ricostruirsi brevemente così. La prima scoperta sicura è del 1576, grazie alla spedizione del Frobisher: questa e le successive del Davis, di G. Weymouth e J. Drew (1602), e di H. Hudson disegnano buona parte del contorno orientale e meridionale della Terra di Baffin. Il Button e l'Ingram nel 1612 individuano anche, all'imbocco settentrionale della Baia di Hudson, l'isola di Southampton, mentre poco più tardi la fortunata spedizione di Baffin e Bylot rivela la Terra di Ellesmere e il Devon Settentrionale, e Luca Foxe (1631) aggiunge nuovi lineamenti alla Terra di Baffin. Quasi nulla aggiunge il sec. XVIII, ma nel XIX in un viaggio solo, la spedizione Parry (1819-20) scopre l'isola North Somerset, le altre cui fu ben dato il nome di Arcipelago di Parry, e la Terra di Banks. Lo stesso Parry (1821-25) perfeziona la conoscenza della Terra di Baffin nel tratto occidentale, ov'essa maggiormente si avvicina al continente americano. Il secondo viaggio di J. Ross, poco più tardi, fa conoscere l'isola Matty, e l'isola poi detta di Re Guglielmo, la spedizione di Dease e Simpson (1837) porta alla scoperta dell'isola detta Terra Vittoria (a NO. poi detta Terra del Principe Alberto). Durante l'affannosa ricerca della spedizione Franklin, O.T. Austin scopre l'isola Principe di Galles, W. Penny risale fino all'estrema appendice settentrionale dell'isola Devon Settentrionale, Mac Clure rivela gran parte della Terra di Banks e la nuova terra ch'egli chiama del Principe Alberto (1850). La grandiosa spedizione del Belcher porta alla sua volta alla scoperta e all'esplorazione dell'isola Principe Patrick, completando con questa estrema isola occidentale la conoscenza dell'arcipelago di Parry, mentre altri membri della spedizione esplorano le isole a nord della Terra di Grinnel. La spedizione Mac Clintock (1857) porta anche al rilevamento di una delle parti meno conosciute dell'arcipelago: la costa O. della Boothia, quella E. dell'isola Principe di Galles, gli stretti di Peel e di Franklin e la costa dell'isola Re Guglielmo.
La serie delle spedizioni avviate nei decennî successivi per la via degli stretti di Smith e di Kennedy perfeziona gradatamente la conoscenza dell'unica isola, che comprende le terre di Grant, di Grinnell e di Ellesmere sino al più settentrionale Capo Columbia, ultimo termine di tutto il grande Arcipelago Artico Americano verso il mare del Polo. Del 1881 è, per la tenace propaganda dell'Howgate, l'istituzione della prima stazione scientifica fissa nell'Arcipelago, fondata nella baia Discovery (Terra di Grant) e diretta dal Greely; negli stessi anni una stazione meteorologica vien posta dai Tedeschi nella parte settentrionale del Cumberland Sound (Terra di Baffin), e ne profitta il Boas per fare oggetto di precisa esplorazione l'interno dell'isola (1883).
L'esplorazione dell'Arcipelago ha poi, nell'insieme, il suo compimento per opera della spedizione Sverdrup, che arricchisce la carta geografica delle zone più settentrionali, precisando anche a occidente il disegno così complesso di tutto il gran blocco dell'isola Ellesmere, e scoprendo a O. di esso la grande isola Axel Heiberg e le vicine più meridionali isole Ellef Ringnes, Amund Ringnes e del Re Cristiano. Le scoperte dello Stefansson finalmente definiscono l'intiero complesso dell'arcipelago di Parry e il limite orientale del cosiddetto Mar di Beaufort il quale ormai appare esteso senz'alcuna terra emersa a ponente dell'arcipelago di Parry sino all'Alasca: onde appare escluso ormai ogni altro protendersi dell'Arcipelago Artico Americano verso ponente e tramontana.
Le conoscenze del Mar Siberiano s'accrebbero pure in questo primo quarto del sec. XX - grazie al viaggio di Edoardo von Toll alle isole della Nuova Siberia, ch'egli aveva già illustrato più volte e visitava nuovamente, serbato a tragico destino, nel 1900, cercando in quei pressi l'ipotetica isola di Sannikov, - grazie alla deriva del Karluk che i ghiacci trascinarono nel 1914 dalla Punta Barrow dell'Alasca fino all'isola di Wrangel - grazie alla lunga navigazione della Maud inviata nel 1918 da R. Amundsen al comando di H.O. Sverdrup a rifare, se possibile, col favore della deriva il viaggio del Fram. La nave, chiusa da due sverni consecutivi a ridosso della costa siberiana, non riuscì invece se non a ripetere, con notevoli risultati scientifici, il viaggio della Vega, mentre maggiori scoperte dovevansi al russo capitano Wilkizki, penetrato nel 1913 con due navi rompighiaccio a N. del capo Čeljuskin, dove gli si rivelarono inattesamente le due notevoli isole di Nicola II (oggi Severnaja Zemlja, cioè terra del Nord). La sfortunata spedizione russa del Brussiloff riconosceva poi (1913-14) una larga zona di mare ad E. delle Isole di Francesco Giuseppe.
Ma assai più rapidi strumenti d'esplorazione e di conquista si offrivano ormai in questi primi lustri del sec. XX, in luogo delle navi così deboli contro le barriere dei ghiacci, in luogo delle slitte così lente e faticose nelle ardue avanzate. Periva, è vero, con destino ignoto, lo svedese S.A. Andrée, salpato con un aerostato nel 1897 dalle Svalbard, e vanamente organizzava un'avanzata con dirigibile nel 1910 dalle Svalbard stesse W. Wellman; ma R. Amundsen, il vincitore del passaggio di NO. e del Polo Australe, riusciva a volare pure dalle Svalbard nel 1925 verso il Polo Artico, non raggiungendo la meta a causa di un forzato atterramento sul ghiaccio; nel 1926 R. Evelyn Byrd, della marina degli Stati Uniti, volava dalle Svalbard fino al Polo e ne ritornava in meno di 16 ore; nell'anno stesso R. Amundsen e L. Ellsworth col dirigibile Norge, costruito e diretto dall'italiano Umberto Nobile, percorrevano in 72 ore il tratto Svalbard-Polo Artico-Punta Barrow, scoprendo dal Polo all'Alasca mare ancora ignoto ma apparentemente privo d'ogni terra; nell'aprile 1928 l'australiano Hubert Wilkins volava dalla Punta Barrow alle Svalbard seguendo dal largo l'orlo settentrionale degli arcipelaghi di Parry e di Sverdrup e della Terra di Grant; nel maggio e giugno dello stesso anno il surricordato generale Umberto Nobile col dirigibile Italia volava dalle Svalbard alle Isole di Francesco Giuseppe e da queste fin quasi alle Isole di Nicola II, pur qui scoprendo vasti spazî di mare deserti, al quale volo seguiva nel giugno l'altro sul Polo che condusse alla perdita del dirigibile stesso a NE. delle Svalbard.
Concludendo, la serie delle esplorazioni svoltesi in un periodo di ormai poco meno che quattro secoli ha rivelato, a quanto può ritenersi, per intero le maggiori terre esistenti entro il giro della calotta artica; rimane ancora problematica l'esistenza dell'isola Sannikov, incerte la forma e l'estensione delle Isole di Nicola II, imprecisato qua e là il disegno particolare di parecchie isole artiche americane. Del tutto ignota è tuttora la vasta area, che giace tra le rotte seguite dalla Jeannette e dal Fram, dal lato asiatico europeo, e la traccia aerea del Norge, dal lato europeo americano; ma appare probabile, per le osservazioni raccolte sinora intorno alla profondità marine e ai moti del mare all'estremo N. degli spazî noti, che l'area inesplorata sia occupata da un vasto spazio oceanico vuoto di terre e gareggiante in profondità con gli oceani maggiori.
Le regioni artiche nel loro insieme. - Sebbene le terre spezzate e sminuzzate che giacciono nella calotta artica a N. dell'America, dell'Europa e dell'Asia, siano le une, quelle americane, un semplice prolungamento, per quanto rotto in blocchi grandi e minori, del continente americano; le altre, quelle europee e quelle asiatiche, piccoli gruppi isolati ma rispettivamente saldati da basi sommerse poco profonde alla massa europea e asiatica; tuttavia si sogliono spesso considerare le terre artiche, non come parti o appendici singolarmente dei continenti da cui dipendono, ma come un insieme di aree emerse accomunate da certi spiccati caratteri similari.
Si tratta d'un' evidente somiglianza di posizione per il comune concorrere e prospettare di queste terre verso il profondo bacino del Mar Polare, d'una pur evidente somiglianza di caratteri fisici dovuta soprattutto alle condizioni del clima in rapporto ai fattori astronomici determinanti (distribuzione del calore e della luce conseguentemente alle latitudini), d'una somiglianza di certi fenomeni luminosi dell'atmosfera e dei fenomeni magnetici, d'una somiglianza delle condizioni offerte alla vita dei vegetali, degli animali, degli uomini (v. artico, mare).
Limitandoci qui a questa ultima parte, importa notare come in tutte le terre artiche, una volta che col progredire dell'estate il sole è riuscito a sciogliere la coperta nevosa e i suoi raggi si trovano quindi a scaldare direttamente il suolo nudo, in poche settimane, grazie al riscaldamento ininterrotto e alla continua luce, si sviluppa la vegetazione con sorprendente rapidità. La sola Groenlandia rimane coperta quasi per intero dalla sua possente coltre di ghiaccio, ma anche in essa le coste, dove non sono occupate da ghiacciai sboccanti dall'interno, si liberano dalle nevi in parecchie zone fino a 800 m. di altitudine; nelle Svalbard le nevi si sciolgono disotto ai 600 m.; nella Novaja Zemlja il colmo dell'estate vede libero di nevi quasi tutto il suolo, fuorché nelle parti più elevate. La vita vegetale non manca quindi in nessuna parte, ma essa è quale possono permettere, insieme con la brevità della stagione, la secchezza dell'aria e il minimo spessore del suolo nutritizio agghiacciato al disotto: vegetazione xerofila quindi e con caratteri floristici simili a quelli della zona delle tundre siberiana e canadese. Gli alberi non crescono oltre il 70° N. che in rari punti della regione siberiana, riscontrandosi la latitudine più settentrionale della foresta a 73° alla foce del Chatanga; nelle isole nord-americane e nelle Svalbard non esiste quindi vegetazione arborea, sebbene anche nelle Svalbard non manchino betulle nane gracilissime e salici nani interamente distesi a terra. Caratteristica è la scarsità delle specie, non riscontrandosi nelle terre artiche più di trecento fanerogame; la Terra di Francesco Giuseppe, poverissima fra tutte, non ne alberga più di 23. Le specie endemiche poi sono scarsissime, per essere la flora attuale migrata qui dal S. dopo l'estinzione della flora locale, nell'età glaciale. Comunque, il rapidissimo verdeggiare e il moltiplicarsi de' fiori intensamente variopinti dànno una vivace, benché fuggevole, nota vegetale a tutto il paesaggio artico estivo: le felci fan tappeto ai burroni più umidi; le spiaggie, i piani vallivi, le rupi scoperte fin nell'estremo N. della Groenlandia (dove pure il solo luglio ha una media superiore allo zero) offrono nei loro tappeti verdi e fioriti sufficiente, talora lussureggiante pastura alle greggie dei buoi muschiati.
Nonostante la relativa povertà della vegetazione e le poco allettevoli condizioni del clima, la fauna è numerosa di specie e di rappresentanti, che al clima generalmente si adattano nel fitto rivestimento protettivo e nel colore simile assai spesso a quello delle nevi circostanti e che nella vegetazione trovano sufficiente alimento. Rammentiamo qui soltanto l'orso polare (Ursus maritimus), che è veramente per eccellenza l'abitatore dei ghiacci marini, grazie alla sua abilità a scovare le foche che gli permette di vivere continuamente lontano da ogni terra; il bue muschiato (Ovibos muschatus), che ha invece sua dimora unicamente nelle terre americane, dove arriva fino all'estremo N. dell'arcipelago e della Groenlandia, cercandovi la pastura fin sotto la neve; la renna (Rangifer tarandus), che abbonda nelle terre siberiane e nella Novaja Zemlja, dov'è addomesticata, scarseggia nelle Svalbard per la caccia fattane, manca del tutto nella Terra di Francesco Giuseppe, è ospite estiva in grossi branchi migranti nell'Arcipelago Artico Americano. Si aggiungano volpi polari, lupi e i non molto dissimili cani esquimesi, così preziosi all'uomo; lepri polari, diverse specie di roditori, ecc.
Gli uccelli sono in grandissimo numero, più marini che terrestri; poche però sono le specie che svernano nel N. Alcune specie si radunano sulle coste in numerosissime colonie organizzate; i gabbiani si trovano invece volanti al largo fino a 400 km. da ogni terra. Ricca è la fauna anche per gl'insetti: un lepidottero (Colias hecla) vive fino all'82° grado, e insetti non mancano anche sulle grandi estensioni agghiacciate interne. Le zanzare in estate sono straordinariamente abbondanti e intollerabilmente aggressive. (V. anche artico, mare).
Quanto alla vita umana, certe condizioni fondamentali comuni sono imposte dallo specialissimo ambiente fisico e dalla vita animale circostante. Così dappertutto, fuorché dove si sono fissati gli Europei, gli abitanti vivono nomadi, siano gl'indigeni della tundra eurasiatica viventi dell'allevamento della renna, siano quelli nordamericani costieri o insulari (Esquimesi), attendenti esclusivamente alla caccia, soprattutto di animali marini; gli stessi Europei, in scarso numero stabiliti in quei luoghi, tendono nel vestire, e anche nel vitto, a conformarsi agli usi che la natura ha quivi consigliato. Caratteristica in particolar modo la vita degli Esquimesi, veri figli della natura polare, limitati col loro habitat quasi esclusivamente entro le terre artiche e quindi rappresentanti tipici degli adattamenti umani a quel singolarissimo ambiente (v. esquimesi).
Caratteristico di tutte queste contrade è anche il fondarsi della vita economica sullo sfruttamento del bottino offerto dalle cacce marine e dalle pesche. Se il numero delle navi occupate nelle prede baleniere è oggi, per l'esaurirsi dei cetacei spietatamente cacciati, di una cinquantina appena, dopo esser salito in passato fino a 600 all'anno; assai elevato si mantiene il numero dei cacciatori di foche, senza dire che sulla caccia delle foche si basa tutta l'economia della vita indigena. (V. Tavv. a colori).
La gara europea e americana per lo sfruttamento delle regioni artiche, estesa in tempi recentissimi anche dal mare alla terra, grazie all'iniziata ricerca delle ricchezze minerarie, ha provocato più che per il passato una competizione politica per l'occupazione delle terre polari, anche questa con speciali caratteri. Difatti i singoli stati immediatamente adiacenti alle terre polari di nuova scoperta si erano limitati generalmente durante il sec. XIX a estendere la loro sovranità, per una graduale espansione degli interessi territoriali, su codeste terre nuove; oggi invece, spinti dal fatto del comune convergere di codesti fusi di terre e d'acque verso il Polo, gli stati stessi hanno proclamato, per dirimere ogni possibile concorrenza, un loro accaparramento preventivo sulle terre ancora da scoprire entro i limiti dei singoli fusi fino al raggiungimento del Polo. Così l'Unione Sovietica ha proclamato la sua sovranità non soltanto sulla Terra di Francesco Giuseppe e sulla Terra di Nicola II (Terra di Lenin), ma su tutte quelle che si scopriranno a N. delle coste sovietiche; altrettanto ha fatto il Dominio del Canada non solo estendendo il suo potere su tutte le isole nord-americane ad O. della Groenlandia, ma intendendo sue le altre che eventualmente potessero scoprirsi a N. di quelle fino al Polo. La calotta artica rimane quindi spartita, tranne qualche contestazione ancora non definita, in cinque settori politici: russo, degli Stati Uniti (Alasca), canadese, danese (Groenlandia), norvegese (Svalbard).
In particolare conviene ricordare come gradualmente il governo canadese rese effettivo il possesso, a esso riconosciuto internazionalmente, di tutto l'Arcipelago Artico Americano, e in primo luogo delle parti di esso relativamente più popolate e di qualche valore economico. Già nel 1897, in una spedizione inviata per tentare lo stabilimento di una regolare comunicazione marittima dalla Baia di Hudson al Golfo del San Lorenzo, fu preso formale possesso della Terra di Baffin, della quale si rilevò topograficamente la costa meridionale. Nel 1904 il Low issò la bandiera canadese sulle Isole Beechey, ed egualmente prese possesso per il Canada della Terra di Ellesmere. Due anni dopo iniziava le sue spedizioni nell'arcipelago il capitano Bernier, che dichiarò l'annessione delle Isole Melville, Principe Patrick, North Somerset, ecc.; vi tornava nel 1908 e 1909, prendendo possesso dell'intero arcipelago di Parry fino alla Terra di Banks, e una nuova campagna egli conduceva infine completando le annessioni nel 1910-11 sulle terre a O. degli stretti di Jones e di Davis. In seguito, il governo canadese ritenne conveniente di stabilire veri e proprî posti di polizia, per la sorveglianza delle zone artiche: così, dal 1922 in poi tali stabilimenti si sono venuti effettuando nella Terra di Baffin, in quella di Ellesmere (il più settentrionale a 78°46′ N.) e altrove, e funzionano oggi numerosi ed efficaci a tutela dell'attività economica degli indigeni eschimesi e delle spedizioni pescherecce.
Bibl.: vedi artico, mare. Per la parte storica v. anche: In mezzo ai ghiacci: viaggi celebri al Polo Nord, con prefaz. di G. Dalla Vedova, Milano 1876; L. Hugues, Le esplorazioni polari del sec. XIX, Milano 1901; A. W. Greely, Handbook of polar discoveries, Boston 1909; F. Nansen, In northern Mist., Londra 1911; E. A. Haewood, A history of geographical discovery in the XVII and XVIII centuries, Cambridge 1912; K. Hassert, Die Polarforschung: Geschichte der Entdeckungsreisen zum Nord-u. Süd. Pol., Lipsia 1914; C. R. Markham, The lands of silence: a history of Arctis and Antarctis Expeditions, Cambridge 1921; N. M. Crouse, In quest of the western Ocean, Londra 1928.