Abstract
Il reddito di “lavoro dipendente” rappresenta senza dubbio la categoria reddituale più numerosa della nostra fiscalità, e uno di quelli maggiormente identificabili e facilmente determinabili dal fisco, almeno quando è erogato da una struttura caratterizzata da una certa rigidità amministrativa. In quest’ottica, la voce esamina l’individuazione della categoria e la determinazione della relativa base imponibile.
I redditi di lavoro dipendente sono individuati dall’art. 49, co.1, del Testo unico delle imposte sui redditi (di seguito Tuir), il quale si riferisce ai redditi derivanti dal lavoro «prestato alle dipendenze e sotto la direzione di altri». La definizione tributaria di reddito di lavoro dipendente utilizza la stessa formula adoperata dall'art. 2094 c.c., che definisce lavoratore subordinato chi presta la propria opera «alle dipendenze e sotto la direzione» dell’imprenditore (su questa definizione Sacchetto, C., Relazione tra normativa civilistica e fiscale. Il rapporto di lavoro, in Rass. trib., 1989, I, 384 ss.; Puoti, G., Il lavoro dipendente nel diritto tributario, Milano, 1975; Uricchio, A., La qualificazione del reddito di lavoro dipendente tra definizioni normative e itinerari della giurisprudenza, in Dir. prat. trib., 2002, 50 ss.; Tinelli, G., Lavoro nel diritto tributario, VIII ed., Torino, 1992, 391 ss.; Crovato, F., Il lavoro dipendente nel sistema delle imposte sui redditi, Padova, 2001). Non c’è però alcun rinvio in senso tecnico al codice civile o alla legislazione previdenziale, che anzi si collega alla determinazione fiscale del reddito di lavoro dipendente, a seguito del d.lgs. 2.9.1997, n. 314, che ha unificato la determinazione dei redditi di lavoro dipendente ai fini fiscali e previdenziali (Puri, P., Armonizzazione, razionalizzazione e semplificazione delle disposizioni fiscali e previdenziali concernenti i redditi di lavoro dipendente ai fini fiscali e contributivi, in Commento agli interventi di Riforma Tributaria, a cura di M. Miccinesi, Padova, 1999, 277 ss.). La legislazione sul lavoro è richiamata espressamente solo per il lavoro a domicilio, inquadrato nel lavoro dipendente solo quando è tale ai fini della legislazione sul lavoro (art. 49, co. 1, Tuir). Il lavoro a domicilio (da non confondere col lavoro domestico, come ad esempio quello di una collaboratrice domestica) presenta caratteristiche di autonomia che ne rendono necessaria una delimitazione rispetto alla piccola impresa: tale delimitazione avviene in base alla legislazione sul lavoro. Appartengono inoltre alla categoria del reddito di lavoro dipendente (art. 49, co. 2) tutte le pensioni, anche se percepite in relazione a precedenti attività diverse dal lavoro dipendente; ad esempio pensioni di ex lavoratori autonomi o imprenditori individuali, come pure pensioni ai superstiti (coniuge, figli, etc.), i quali spesso non hanno mai esercitato alcuna attività di lavoro dipendente. Anche gli interessi per ritardato pagamento di crediti di lavoro dipendente concorrono a formare questa categoria di reddito, in base ad esplicita previsione dell’art. 49, co. 2, lett. b), che ricalca il principio di accessorietà indicato in via generale dall’art. 6 Tuir.
Anche se condizionato da numerose regole di ordine pubblico, il lavoro dipendente deriva pur sempre da un contratto; occorre quindi stabilire in primo luogo se le parti hanno qualificato il rapporto come di lavoro dipendente ovvero in altre forme (Uricchio, A., Il reddito dei lavori tra autonomia e dipendenza, Bari, 2006). Quando un rapporto è configurato pattiziamente come di lavoro dipendente, le modalità concrete di svolgimento della prestazione lavorativa difficilmente possono smentire questa qualificazione. L’inquadramento formale del rapporto come lavoro dipendente è, infatti, compatibile con le più qualificate modalità di svolgimento della prestazione. Ad esempio, anche lavori di elevatissima qualificazione intellettuale (responsabile legale) o con un elevatissimo grado di autonomia (direttore generale, responsabile marketing) possono essere inquadrati nel lavoro dipendente, fermo restando che analoghe mansioni potrebbero essere compatibili anche con rapporti di lavoro autonomo (o, come si dice spesso, rapporti di “consulenza”). Al contrario, per via delle rigidità del mercato del lavoro e della definizione fiscale d’impresa, che non prevede il requisito dell’organizzazione, numerosi rapporti sostanzialmente di lavoro dipendente sono formalizzati come lavoro professionale (con partita IVA) o prestazioni d’impresa. Quando le mansioni svolte, ad esempio perché ripetitive e prive di un contenuto di autonomia, siano incompatibili con l’inquadramento formale del rapporto in termini professionali o imprenditoriali, il lavoratore o gli organi di vigilanza previdenziale potranno far valere l’effettiva natura subordinata del rapporto. I riflessi lavoristici di un’eventuale contestazione, riguardano soprattutto la richiesta di elementi accessori della retribuzione (ferie, indennità di fine rapporto) e dei contributi previdenziali; i rischi tributari consistono nel vedersi contestare l’omessa applicazione delle ritenute alla fonte di tipo progressivo che sono previste per questi tipi di reddito, mentre per gli altri redditi la ritenuta è proporzionale, o per quelli d’impresa non è prevista.
Con questa categoria di collaboratori, visto anche il loro numero, nascono per prime quelle contrapposizioni di interessi che tanto aiutano il fisco nella sua opera di individuazione e determinazione degli imponibili. In quest’ottica, s’inserisce anche la segnalazione delle retribuzioni al fisco (e agli enti previdenziali) da parte del datore di lavoro, secondo lo strumento della ritenuta alla fonte, che in questo caso ha la particolarità di essere progressiva, ragguagliando al periodo di paga le aliquote annue IRPEF, e le detrazioni d’imposta. Al reddito di lavoro dipendente è così associata la condizione generale comune a tutti i redditi segnalati dalle grandi istituzioni, pubbliche e private. La sola circostanza che il reddito sia giuridicamente “di lavoro dipendente” non ne assicura però di per sé l’emersione. Forti aree di evasione si trovano anche nel lavoro dipendente, quando queste condizioni non sussistono, come accade nel lavoro dipendente domestico, alle dipendenze di piccoli commercianti e artigiani, in quello stagionale per la raccolta di prodotti agricoli, nell’edilizia, a conferma che l’evasione fiscale non dipende dalle caratteristiche giuridico-formali del reddito, bensì dai suoi modi di circolazione e di erogazione. È evidente che il “lavoro nero” costituisce pur sempre reddito di lavoro dipendente e il datore di lavoro rischia, in caso di controllo fiscale, le sanzioni per omissione delle ritenute alla fonte. Il lavoro dipendente è comunque una delle prime aree a essere “messa in regola” ai fini fiscali e previdenziali, quando l’impresa “diventa grande”, e comincia a “lavorare per il fisco”, applicando le ritenute, i contributi etc., anche se in parallelo continua a occultare incassi o a registrare costi fittizi. Da questi può derivare anche il fenomeno dell’erogazione occulta (come si usa dire “fuori busta”) di incentivi, gratifiche o altre elargizioni, da conciliare in qualche modo col resto della gestione aziendale. Con la crescita ulteriore delle dimensioni aziendali e l’aumentare del numero dei dipendenti, anche questi comportamenti gradualmente diventano ingestibili, perché si tratta di rapporti di durata, spesso visibili nel luogo di lavoro, e con evoluzioni molte volte imprevedibili, anche in relazione ad un contrasto di interessi di tipo previdenziale e ai rischi di conflittualità.
In via di principio il reddito di lavoro dipendente ricomprende tutti i compensi percepiti in relazione al rapporto di lavoro (art. 51 Tuir), ivi incluse le molteplici indennità frequenti in numerosi contratti collettivi. Si pensi ad esempio all’indennità di rischio, di cassa, di contingenza, di trasporto, etc., come pure alle erogazioni a titolo di sussidio o liberalità. L’attuale formula secondo cui sono redditi di lavoro dipendente quelli «percepiti in relazione al rapporto di lavoro» ha gradualmente rafforzato l’imponibilità di una serie di compensi privi di una diretta funzione retributiva, come ad esempio alcune liberalità, gratifiche straordinarie, possibilità di acquistare beni a prezzi simbolici, etc. (Sulla determinazione del reddito di lavoro dipendente: Crovato, F., Il lavoro dipendente nel sistema delle imposte sui redditi, cit.; Ficari, V., La nozione di reddito di lavoro dipendente, in I redditi di lavoro dipendente, a cura di V. Ficari, Torino, 2003; Marchetti, F, Il reddito di lavoro dipendente, in AA.VV., Commentario al Testo unico e altri scritti, Roma, 1990, 159 ss.; Dodero, A.-Ferranti, G.- Zaccaria, L., Il reddito di lavoro dipendente, Milano, 1999).
Questa definizione è però inidonea a includere nell’imponibile erogazioni irrilevanti già in base ai principi generali dell’imposizione sul reddito. Rimane perciò un punto fermo imprescindibile, anche in questa categoria reddituale, che il reddito imponibile debba consistere in un «incremento di ricchezza” o, come si usava dire un tempo, “novella ricchezza”. Tale profilo permette di operare una sorta di “discriminazione esterna” rispetto a proventi che non costituiscono reddito in assoluto, e quindi neppure se corrisposti nel corso di un rapporto di lavoro dipendente, come ad esempio i risarcimenti di perdite patrimoniali subite dal dipendente a causa del lavoro prestato. È invece imponibile, secondo questi principi, il risarcimento riferito alla perdita di introiti che - se conseguiti - avrebbero costituito reddito tassabile (nella specie di lavoro dipendente). Si pensi all'indennità giornaliera INAIL sostitutiva della retribuzione in caso di infortunio, imponibile per esigenze di neutralità e simmetria rispetto alle ipotesi in cui la retribuzione fosse stato conseguita direttamente, e non in forma di risarcimento. Il principio è desumibile anche dall’art. 6 Tuir, secondo cui non concorrono a formare il reddito le indennità e i risarcimenti che reintegrano un danno patrimoniale, mentre vi concorrono i risarcimenti a fronte della perdita di redditi, tassabili nella stessa categoria in cui sarebbe rientrato il reddito perduto: Della Valle, E., Appunti in tema di erogazioni risarcitorie ed indennità sostitutive, in Riv. dir. trib., 1992, I, 821; Coco, C., Indennità risarcitorie corrisposte al lavoratore, in La disciplina tributaria del lavoro dipendente, a cura di D'Amati N., Padova, 2003, 289.
In ogni caso, somme e valori per confluire in questa categoria reddituale devono essere corrisposti «in relazione al rapporto di lavoro». È questo il fulcro della nozione di reddito di lavoro dipendente, vero e proprio filtro degli elementi rilevanti ai fini impositivi (Crovato, F., Il lavoro dipendente, cit., cap. 2). Queste espressioni richiamano la necessaria presenza di un legame non puramente occasionale tra somma, o valore, e rapporto di lavoro. Il titolo giuridico dell’erogazione può essere il più vario (non solo il contratto di lavoro quindi, ma anche una transazione, un atto liberale, etc.), come conferma l’indicazione secondo cui le cause possono essere molteplici («a qualunque titolo»), ma il rapporto di lavoro deve costituire il vero motivo che giustifica in concreto l’erogazione al dipendente. Così, qualche volta il rapporto di lavoro può essere solo l’occasione d’innesco di situazioni reddituali ulteriori e diverse dal lavoro dipendente: si pensi all’impiegato al catasto che presta qualche consulenza occasionale e consegue redditi diversi (lavoro autonomo occasionale). Altre volte, l’erogazione potrebbe non costituire presupposto imponibile in assoluto: per un’ipotesi abbastanza ricorrente nell’ambito dei rapporti di lavoro, si consideri la libera conclusione di contratti di compravendita tra datori di lavoro e dipendenti, in cui il datore di lavoro crea accanto al mercato ufficiale a prezzi ordinari una nicchia di mercato a prezzi più convenienti, ma pur sempre remunerativi, che non coprono un’attribuzione surrettizia di redditi in natura, ma sono più semplicemente il corrispettivo di un normale rapporto di fornitura, senza assumere quindi una funzione retributiva ma semplicemente commerciale: Crovato, F., Il passaggio dal criterio del costo specifico al criterio del valore normale: il caso dei beni ceduti ai dipendenti dietro corrispettivo, in Rass. trib., 1997, 1507 ss.
La produzione del reddito di lavoro dipendente può dare luogo in concreto, per il lavoratore, a costi e spese (trasporto, aggiornamento professionale, etc.); il fisco guarda però con molto sospetto a queste spese, prima di tutto per la possibilità che possano celare finalità di consumo personale, e poi per il lavoro amministrativo che sarebbe richiesto ai fini del controllo. Le spese di produzione, pur concepibili, sono dunque irrilevanti fiscalmente, visti i problemi di documentazione e controllo cui darebbe luogo una loro deduzione, oltre che per il tendenziale accollo della maggior parte dei costi da parte del datore di lavoro. C’è comunque maggiore larghezza per i servizi erogati attraverso il datore di lavoro, come la mensa, il trasporto collettivo, i rimborsi per trasferte fuori sede, e i fringe benefits, come ad esempio l’auto aziendale. È un indizio di quella più generale esternalizzazione della fiscalità rispetto agli uffici tributari, con l’attribuzione di compiti alle strutture amministrative aziendali, che costituisce un filo conduttore della moderna fiscalità. In futuro, proprio questa esternalizzazione potrebbe portare a un riconoscimento di alcuni oneri di produzione del reddito di lavoro dipendente, attribuendo una funzione di filtro (primo controllo di inerenza) al datore di lavoro, che già ora la esercita con riferimento agli oneri deducibili e detraibili. Nel frattempo, il rigore con cui sono considerati imponibili i rimborsi spese di produzione del reddito appare sempre meno giustificato, anche rispetto alla deduzione delle spese effettive concessa a imprenditori e professionisti: Crovato, F., Indennità di trasferimento e spese di produzione del reddito: spunti tra vecchio e nuovo regime, in Rass. trib., 2003, 1392 ss.
L’imputazione dei redditi in esame al periodo d’imposta segue la regola generale del “principio di cassa”. I redditi di lavoro dipendente sono quindi imputati all’anno della percezione e non a quello della maturazione. Il momento percettivo può essere privilegiato perché siamo di fronte a un fenomeno reddituale abbastanza elementare, in cui la maturazione del reddito coincide in genere con la sua percezione. Tra i redditi del periodo d’imposta devono essere incluse però anche le retribuzioni maturate a dicembre e materialmente pagate nel nuovo anno, precisamente fino al 12 gennaio. Si tratta di una deroga al principio di cassa volta soprattutto a facilitare i conteggi del compenso complessivo annuale. Infine, segnaliamo che l’eventuale restituzione, per vicende sopravvenute, di elementi reddituali dapprima riscossi e dichiarati fiscalmente (il caso è abbastanza frequente per le pensioni), può essere portata in deduzione dal reddito complessivo ai sensi dell’art. 10, co. 1, lett. d-bis), Tuir: Crovato, F., La restituzione dei redditi già sottoposti a tassazione, in Rass. trib., 1998, 41 ss.
L’ampia definizione dei compensi imponibili è poi derogata da numerose previsioni dell’art. 51 (lettere a-g), che escludono dal reddito, con finalità agevolativa, varie erogazioni. Tra di esse segnaliamo i contributi previdenziali obbligatori per legge, sia a carico del dipendente che del datore di lavoro, esclusi dal reddito (art. 51, lett. a), in quanto la tassazione si verificherà al successivo momento in cui la prestazione (ad esempio, pensione) sarà erogata. I contributi di assistenza sanitaria esclusi nel limite di 3.615,20 euro per ciascun anno (art. 51, lett. a): Procopio, M., Il trattamento tributario dei contributi versati ai fondi sanitari, in Dir. prat. trib., 2012, 369. I servizi di mensa aziendale, le prestazioni sostitutive (ad esempio, ticket restaurant) e in alcuni casi particolari anche le indennità sostitutive erogate in denaro: Lupi, R.-Crovato, F., L’imminente defiscalizzazione dell’indennità di mensa, in Il fisco, 1997, 11194 ss. I servizi di trasporto collettivo anche attraverso mezzi pubblici (art. 51, lett. d): Petrucci, F., Spese per il raggiungimento del posto di lavoro, in Corr. trib., 2009, 374 ss. L’utilizzazione, anche da parte dei familiari del dipendente, di opere e servizi (erogazione diretta della prestazione da parte del datore di lavoro o tramite terzi in convenzione) per finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto (art. 51, lett. f), nonché le somme, i servizi e le prestazioni (vaucher) per la frequenza ad asili nido, colonie climatiche e per borse di studio a favore dei familiari dei dipendenti (art. 51, lett. f-bis). Per le fattispecie previste dalla lettera f-bis) (asili nido, borse di studio, colonie climatiche) la non concorrenza prescinde, a differenza di quanto prevede la lettera f), dalla circostanza che l’erogazione sia volontaria o invece in adempimento di una previsione contrattuale (o altro obbligo giuridico in capo al datore di lavoro). Nel loro complesso, queste due agevolazioni possono favorire i piani di welfare aziendale che si stanno diffondendo negli ultimi tempi anche nel nostro paese: Tursi, A., Il welfare aziendale: profili istituzionali, in La Rivista delle politiche sociali, 2012, 227 ss.; Treu, T., a cura di, Welfare aziendale: migliorare la produttività e il benessere dei dipendenti, Milano, 2013. Le azioni gratuite (o a sconto), della società datrice di lavoro o di altre società del gruppo, attribuite ai dipendenti costituiscono reddito, per i medesimi, solo per l'eccedenza rispetto al controvalore di 2.000 euro annui a condizione che non siano riacquistate dalla società emittente o dal datore di lavoro e cedute prima di tre anni (art. 51, lett. g). È stata invece eliminata la possibilità di attribuire azioni (in genere ai top manager) a prezzo di favore, attraverso le cd. “stock option”: Tundo, F., Le cd. “Stock options” nell’imposizione sui redditi: problematiche interpretative e profili applicativi, in Dir. prat. trib., 2002, 79; Salvatore, A., Stock options: I profili generali, in Ficari, V., a cura di, I redditi di lavoro dipendente, cit., 157 ss.; Crovato, F., Stock option, strumenti finanziari e retribuzioni variabili, Milano, 2005.
Anche i compensi in natura costituiscono reddito di lavoro dipendente secondo la regola generale già enunciata, in base alla quale il reddito può essere tanto in denaro quanto in natura. Il fenomeno della retribuzione in natura ai dipendenti è del resto preso in considerazione per la sua rilevanza anche dal codice civile che all’art. 2099, co. 3, sottolinea come la retribuzione possa essere, in tutto o in parte, formata da prestazioni in natura. I principi generali già delineati al punto 3.1 e 3.2 di questa voce (funzione selettiva del concetto di reddito e del criterio della “relazione al rapporto di lavoro”) permettono peraltro di escludere dal perimetro di rilevanza impositiva i tradizionali strumenti messi a disposizione dal datore di lavoro per consentire al dipendente di svolgere la propria prestazione, alla stregua della scrivania, del computer o del tavolo di lavoro. Si pensi anche ai corsi di lingue nelle società multinazionali, o ai corsi organizzati per utilizzare strumenti informatici impiegati in azienda. Perfino l’alloggio, tradizionalmente considerato erogazione di natura retributiva, potrebbe divenire non imponibile quando venga fornito al dipendente un semplice posto letto, ad esempio in un cantiere o in una piattaforma petrolifera, e l’erogazione non abbia quindi alcuna funzione abitativa per il dipendente, ed eventualmente per la sua famiglia, ma “dipenda” da ragioni organizzative del datore di lavoro.
Rispetto all’approccio generale alla tematica dei redditi in natura nell’imposizione sul reddito, il collocarsi del reddito in natura come prestazione accessoria nel quadro di un rapporto di lavoro dipendente ha dato luogo, in alcune ipotesi, a trattamenti più miti di quelli che potrebbero verificarsi al di fuori dei redditi di lavoro dipendente; lo conferma anche il criterio di valutazione al “costo specifico” adottato per lungo tempo in luogo di quello del “valore normale”, applicabile alla generalità dei redditi in natura. Dietro queste previsioni c’è probabilmente anche la consapevolezza dell’impossibilità per i dipendenti di fruire di quelle deduzioni “analitiche” concesse invece agli “autonomi” (punto 3.3 di questa voce). Il fringe benefit è quindi spesso l’unico strumento per riconoscere al dipendente una spesa che altre categorie fanno valere come ordinario elemento negativo di produzione del reddito.
In questo quadro generale, va rilevato che la disciplina sulla quantificazione dei compensi in natura nel lavoro dipendente non presenta oggi deroghe rispetto al principio generale per i redditi in natura; in questo senso, la traduzione in termini monetari degli eventuali compensi corrisposti in natura dal datore di lavoro ai dipendenti avviene sulla base del criterio del “valore normale”. Le deroghe introdotte, contenute nell’art. 51, co. 3 e 4, Tuir, riguardano piuttosto la tecnica di determinazione di tale valore normale, con riferimento alle particolari tipologie di compensi in natura rappresentati da: a) beni prodotti dall’azienda stessa (per i quali il valore normale è stato identificato con il prezzo all’ingrosso); b) autoveicoli concessi in uso promiscuo al dipendente (per la cui valutazione si è indicato il riferimento al dato obiettivo delle tariffe ACI); c) fabbricati concessi in locazione sempre ai dipendenti (per i quali occorre fare riferimento alle rendite catastali); d) i cd. “prestiti agevolati” (per i quali il termine di valutazione viene ancorato alla misura del tasso ufficiale di sconto).
Sui compensi in natura nella disciplina dei redditi di lavoro dipendente: Carpentieri, L., Redditi in natura e valore normale, Milano, 1997, 80 ss.; Crovato, F., Il lavoro dipendente, cit., cap. 4.
Disposizioni particolari (su cui Renda, Le indennità di trasferta e di trasferimento, in Ficari, V., a cura di, I redditi di lavoro dipendente, cit., 333 ss.) valgono quando il contribuente è inviato in trasferta in un “comune diverso” da quello dove si trova la abituale sede di lavoro e sostiene spese aggiuntive, che il datore di lavoro rimborsa a parte rispetto alla retribuzione. Di qui l’esclusione senza limiti di importo (art. 51, co. 5, Tuir) per le somme tipicamente riconducibili ad una trasferta, a fronte di spese di viaggio, vitto e alloggio rimborsate in modo analitico, come suole dirsi a piè di lista. Maggior prudenza circonda le spese diverse da quelle usuali e tipiche di una trasferta, per le quali è stabilito un ammontare massimo sottratto ad imposizione, e diversificato a seconda che lo spostamento sia effettuato in Italia o fuori dai confini nazionali. Le modalità di rimborso forfettario “in franchigia” sollevano invece il dipendente dagli inconvenienti della difficile documentabilità ed eliminano il fastidio di compilare note spese e di conservare la documentazione dei costi sostenuti, ma ormai sono sempre meno utilizzate, visto l’importo assai limitato della franchigia prevista (meno di 50 euro al giorno). Una regolamentazione restrittiva riguarda la disciplina delle trasferte all’interno del comune sede di lavoro: indennità e rimborsi spese concorrono a formare il reddito, esclusi solamente i rimborsi di spese di trasporto comprovate da documenti provenienti dal vettore. Si tratta di una previsione che andrebbe rimeditata (le spese sostenute per conto dell’impresa fuori e dentro il territorio comunale hanno identico scopo, soddisfare un interesse del datore di lavoro: Crovato, F., Su alcuni aspetti relativi alla tassazione dell’indennità di trasferta, in Rass. trib., 1989, I, 605 ss.) a maggior ragione alla luce dell’attuale irrilevanza fiscale dei costi di produzione del reddito. Il tema degli spostamenti del dipendente si arricchisce poi di spunti peculiari in relazione alle somme versate in cifra fissa ai lavoratori (cosiddetti trasfertisti) tenuti per contratto a spostarsi continuamente in località diverse: per esse, anziché soglie di non imponibilità, sono previste basi imponibili ridotte alla metà (art. 51, co. 6, Tuir). Infine, per il trasferimento di sede, in cui si verifica la diversa fattispecie del mutamento della sede ordinaria di lavoro, si può intravedere un parziale, ma significativo, tentativo di riequilibrare il regime fiscale degli oneri di produzione del reddito del dipendente (in questa prospettiva, la previsione sarebbe da estendere anche ai neoassunti, cui la disciplina del “trasferimento” non può applicarsi). La legislazione prevede sul punto una quota esente, pari al 50%, per le indennità di trasferimento con un tetto massimo di non imponibilità diversificato per i trasferimenti all’interno del territorio nazionale e per i trasferimenti all’estero (art. 51, co. 7, Tuir), nonché l’esclusione da tassazione per il rimborso di alcune spese (trasloco, viaggio, oneri sostenuti dal dipendente per recesso da contratto di locazione in dipendenza del trasferimento).
Una disciplina speciale è dettata per il lavoro estero (art. 51, co. 8-bis, Tuir), ma in questo caso il regime introdotto ha da subito suscitato motivi di perplessità sia sul piano del criterio sia sul piano dell’impatto in termini di competitività delle imprese italiane all’estero, considerando anche le soluzioni adottate nelle normative dei paesi dei principali concorrenti (Tinelli, G., La nuova disciplina fiscale del reddito di lavoro dipendente prodotto all’estero, in Riv. dir. trib., 2000, 269 ss.; Crovato, F., Il lavoro dipendente transnazionale, in Carpentieri, L.-Lupi, R.–Stevanato, D., Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003, 173; Azzollini, I., Il reddito di lavoro dipendente svolto all’estero, in Il fisco, 2001, 8942). Il dipendente residente che lavora all’estero rimane assoggettato alle imposte nazionali, ma oltre al credito d’imposta è prevista la tassazione su una base convenzionale anziché sul trattamento retributivo estero effettivo. Con l’introduzione del criterio convenzionale, le singole voci retributive non subiscono perciò alcuna tassazione autonoma: il loro ammontare è ricompreso forfettariamente nella retribuzione convenzionale stabilita annualmente con decreto interministeriale. La retribuzione effettiva influenza comunque la retribuzione convenzionale, perché la fascia retributiva raggiunta dal dipendente determina un diverso importo convenzionale (i valori convenzionali sono distinti oltre che per settore di attività anche per fasce di retribuzione). Questa disciplina si colloca peraltro nel quadro di un più complesso sistema che deve tener conto delle disposizioni convenzionali secondo cui il dipendente che soggiorna nello stato estero per meno di 183 giorni nell’arco di dodici mesi può (in presenza di altre condizioni) essere tassato solo nello stato di residenza. In questo modo, se il dipendente residente in Italia lavora nello stato estero per meno di 183 giorni, viene tassato soltanto in Italia sulla retribuzione effettiva; se invece svolge attività nel paese estero per più di 183 giorni, sempre rimanendo residente in Italia, è assoggettato a imposizione in Italia e nello stato estero, ma l’Italia utilizzerà come base imponibile la retribuzione convenzionale. Le eventuali imposte pagate nello stato estero saranno riconosciute in detrazione con il generale sistema del credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero (art. 165, Tuir).
Artt.49 - 51 Tuir.
Crovato, F., Il lavoro dipendente nel sistema delle imposte sui redditi, Padova, 2001; D'Amati, N., La disciplina tributaria del lavoro dipendente, Padova, 2003; Della Valle, E.-Perrone, L.-Sacchetto, C.-Uckmar, V., a cura di, La mobilità transnazionale del lavoratore dipendente: profili tributari, Padova, 2006; Dodero, A.–Ferranti, G.-Zaccaria, L., Il reddito di lavoro dipendente, Milano, 1999; Ficari, V., a cura di, I redditi di lavoro dipendente, Torino 2003; Puoti, G., Il lavoro dipendente nel diritto tributario, Milano, 1975; Tinelli, G., Lavoro nel diritto tributario, VIII ed., Torino, 1992, 391; Uricchio, A., Il reddito dei lavori tra autonomia e dipendenza, Bari, 2006.