RECLUSIONE sacra
Durante l'età ellenistica è documentata l'esistenza d'una categoria di persone obbligate a rimanere chiuse dentro un luogo determinato che è quasi sempre un santuario di Serapide (per la sola eccezione finora conosciuta v. Dittenberger, Or. Graec. Inscr., I, 262). Di questi catochoi o encatochoi (κάτοχοι o ἐγκάτοχοι) si ha notizia a Smirne, a Priene, ad Alessandria, ad Abido, ma in modo particolare a Menfi. Difatti un cospicuo gruppo di papiri tolemaici si riferisce a individui che sono alloggiati nel Serapeo di Menfi ed ivi stanno come prigionieri, veri e proprî reclusi per volere del dio. Non risulta che per alcuno tale reclusione sia stata perpetua, e i periodi appaiono notevolmente diversi: brevissimi, di pochi mesi, per taluni, per altri assai lunghi, di otto e perfino venti anni.
La teoria emessa nel 1913 dal Sethe secondo cui la catochè non aveva alcun carattere religioso ma era una prigionia penale (per debiti o per delitti militari), sebbene da molti accettata, non è sostenibile. Un papiro demotico conosciuto di poi ha riconfermato in modo luminoso la vecchia concezione di reclusione sacra. Del resto ad Abido esistono graffiti in cui il redattore si designa come encatochos, qualifica ch'egli s'asterrebbe dal porre in rilievo se fosse infamante e che si deve, per contro, ritenere onorifica.
I catochoi sono dunque devoti i quali, per particolari condizioni soggettive o per suggestioni divine ricevute in sogno, fanno voto di servire Serapide in volontaria, non necessariamente perpetua, clausura. Si deve peraltro escludere che vivessero claustrati dentro una cella. Se comunicano col mondo esterno διὰ ϑυρίδος, ciò significa che non potevano stare a diretto contatto coi visitatori, sia all'aperto sia in un ambiente chiuso, ma dovevano intrattenersi con essi attraverso una finestrella. Avevano sì l'obbligo di non allontanarsi dal santuario, ma dentro il recinto sacro avevano una certa libertà di movimenti. La clausura non poteva essere fine a sé stessa; era senza dubbio determinata da un legame mistico col dio e nello stesso tempo lo rafforzava. I testi distinguono e separano nettamente i catochoi dai sacerdoti; in essi non dobbiamo vedere, come taluni pretendono, dei novizî, né malati che si ritiravano a vivere nel tempio per implorare la guarigione: erano laici che, pur rimanendo tali, acquistavano un certo carattere e un certo potere religioso. Avevano difatti alcune mansioni nel servizio del tempio (li troviamo alloggiati nel pastophorion dell'Astarteo) ed è naturale ritenere che il loro singolare genere di vita e la particolare devozione li facessero credere e li mettessero in grado di interpretare la volontà divina, di spiegare i sogni, di fare, in qualche modo e misura, i profeti. Ricevevano un modesto emolumento dal santuario, parte in natura e parte in denaro; non di rado erano sussidiati dalle rispettive famiglie ma, per lo più e in gran parte, vivevano di elemosine. Se è certo che la clausura non era perpetua, non conosciamo come e perché prendesse fine. Probabilmente nel momento di fare i voti il candidato dichiarava per quale periodo il dio gli aveva ordinato di rinchiudersi, oppure dopo un certo periodo d'internamento manifestava la volontà di essere liberato. Pure ammettendo questa seconda ipotesi, si deve credere che le condizioni soggettive non mutassero con troppa facilità né sopra tutto che il recluso potesse sciogliersi a capriccio dai voti compiuti. Di regola i liberati tornavano alla vita normale, alle loro precedenti occupazioni, sia in seno alla famiglia sia altrove, anche, per es., nell'esercito.
Se alcune analogie con la clausura dei monaci cristiani sono evidenti, esistono anche grandi differenze, né si deve pensare a una derivazione di questa da quella. Accettando la catochè come una caratteristica del culto ellenistico di Serapide, non si esclude che risalga all'età faraonica e neppure che la sua prima origine sia da ricercare piuttosto che in Egitto in Oriente, nella Fenicia donde sarebbe penetrata nella valle del Nilo, a Menfi, con Astarte.
Bibl.: Le pubblicazioni intorno all'argomento sono segnalate in U. Wilcken, Urkunden der Ptolemärzeit, I, Berlino 1922, pp. 52-77.