RECITATIVO
. Il termine stile recitativo si cominciò ad usare in Italia sul principio del Seicento, quasi come sinonimo di monodia. La definizione volle cioè significare un modo di essere della musica vocale, la monodia, differente da un altro già noto e usuale, la polifonia: una forma nuova, o l'intenzionale rinnovamento di una forma antica (greca, ma più per supposizione che per sicura nozione) contrapposta a un'altra preesistente. Poi, o perché rimaneva nelle nuove musiche un tanto delle usuali forme preesistenti che nello stile recitativo non avrebbe potuto esser compreso, o perché v'entrarono altre nuove forme con loro proprî nomi, rimase della definizione primitiva una sola parola, recitativo, con un significato più limitato ma più preciso, in quanto che essa volle essere riferita soltanto alle parti per così dire libere del discorso musicale vocale, cioè a quelle che non avrebbero potuto essere definite come forme per sé compiute secondo altre norme o leggi (aria e forme derivate). Alla parola recitativo si aggiunse in seguito una distinzione speciale quando si volle del discorso musicale definire o quella musicalità sostenuta che, pur non essendo propriamente aria - canto strofico - appariva nondimeno soggetta a esigenze piuttosto musicali che poetiche: e si disse allora recitativo accompagnato, specialmente usato nell'opera seria; o quando si volle riferita la definizione a quelle parti dell'opera vocale-strumentale in cui l'intonazione musicale doveva essere alle parole non più che un filo conduttore per passare da un'aria a un'altra: e si disse allora recitativo secco, specialmente usato nell'opera buffa. Sempre ove si trattasse di questa seconda specie di recitativo (non sempre nell'altro caso) i compositori ponevano la parola recitativo a capo del frammento da eseguirsi con quella libertà che s'è detto. Già però nelle ultime opere di G. Verdi tale indicazione non si trova quasi più, neanche quando si tratti di recitativo per così dire libero; e non l'usano più, non occorrerebbe dirlo, gli operisti della fine dell'Ottocento e del principio del secolo XX. (Qualche compositore d'opere l'ha rimessa recentemente in uso forse per vezzo; o forse per manifestare l'intenzione di un di quei "ritorni all'antico" dai quali però l'arte non ha mai avuto nulla da guadagnare).
Stile recitativo (così il canto di stile rappresentativo di Vincenzo Galilei, il recitar cantando di G. Caccini e di I. Peri, e via dicendo) fu da principio, si diceva, quasi sinonimo di monodia: espressione musicale che sciolta dai vincoli del contrappunto polifonico e non ancora rappresa in forme strofiche, volle essere drammatica: non semplice intonazione musicale di un testo poetico per dare allo stesso un maggiore rilievo in senso oratorio, ma espressione dell'intimità commossa del personaggio drammatico. Tale intenzione è già manifesta nei saggi dei primi monodisti, e tanto più lo è, per maggiore potenza di genio, nelle opere di C. Monteverdi.
Ma ecco appunto che se noi vogliamo chiamare recitativo l'espressione musicale drammatica del Monteverdi, e così le espressioni più propriamente drammatiche di un Bellini o di un Verdi (non si parla qui, ben s'intende, delle arie, dei pezzi strofici) - né d'altra parte potremmo non chiamare recitativo quella intonazione musicale delle parole poste fra un'aria e l'altra delle opere teatrali che cominciò a essere quasi del tutto priva di intenzione e di valore espressivo nelle opere di P. F. Cavalli, e scese giù giù fino al recitativo secco dell'opera buffa - ecco che noi vediamo bene come la parola recitativo sia di significato impreciso, ingannevole, equivoco. Imprecisione che troppo spesso ha fuorviato e tratto in errore gli storici del melodramma nell'interpretare le opere del passato e nel ricercare e dimostrare di esse il valore drammatico: imprecisione ed equivocità nella quale spesso cadono coloro che, trattando di opere moderne non costruite al modo degli antichi melodrammi, usano la parola recitativo in senso poco meno che dispregiativo.
Quel che s'è detto sin qui, s'è detto tenendo presente la musica italiana (principalmente l'opera di teatro, si capisce; ma anche l'oratorio e la cantata), dove il cosiddetto recitativo ha spessissimo tanta intensità d'espressione, tanto vigore drammatico che dovrebbe essere detto non recitativo ma canto drammatico senz'altro. Per ciò che riguarda la musica francese e quella tedesca, si può dire che di recitativo vero e proprio - cioè, come si disse, intonazione del testo poetico considerevole soltanto dal punto di vista dell'eloquenza oratoria - se ne trova moltissimo nella musica francese (comprese le opere di J.-Ph. Rameau), molto meno nella musica tedesca, dove il recitativo, anche quando è dato dai compositori per tale (da J. S. Bach a C. W. Gluck, a L. v. Beethoven e a K. M. v. Weber, per citare solo qualche nome) più spesso nasce da una vera e propria commozione ed ha una reale efficacia e un vero e proprio valore drammatico.
Da parecchi anni i critici hanno messo in uso un'altra parola, declamato, per voler significare un che di mezzo fra il recitativo e il canto melodico. Ma più grave è qui l'equivoco. E la parola ha avuto davvero più fortuna che non meritasse; perché, né c'è bisogno di dimostrarlo, essa non può avere un significato meno convenzionale della parola recitativo, ma non ha poi, di questa, né la ragion d'essere storica né la dignità.