RECIDIVA
. Diritto. - Storia. - Nelle fonti del diritto romano tra le circostanze aggravanti del reato è spesso ricordata la recidiva: se anche non costantemente, né per tutti i delitti, essa era però sicuramente un motivo di esasperazione della pena. Talvolta è ricordata la recidiva generica; più spesso la recidiva specifica. Il concetto basilare è sempre lo stesso; ed è quello espresso da Arcadio e Onorio (Cod. Theod., IX, 38, 10): indignum est humanitate qui post damnationem commisit in legem. Una disposizione, che riguarda la recidiva generica, è quella contenuta nella c. 6 del Codice teodosiano (XI, 38) riprodotta nella c. 3 del Codice giustinianeo (I, 4) per cui la remissione delle pene (abolitio generalis) non giova a chi fu già condannato per altri delitti. La recidiva specifica è contemplata in testi più numerosi. In taluni casi, ciò che la prima volta viene punito con pene disciplinari o di polizia, o non è addirittura punito, è punito nelle successive ricadute come un vero delitto (Paolo, Sententiae, 5, 21, 1; Dig., XXXXVIIII, 16, de re mil., 3, 9).
Anche nei diritti dell'età di mezzo la recidiva è contemplata e non raramente colpita con pene assai gravi. Così, grave pena è stabilita nell'editto di Liutprando per il recidivo nel delitto di furto; ma più atroci erano le pene inflitte nel diritto franco dai capitolari di Carlomagno, che punivano la recidiva iterata nel furto con la morte. La Glossa nella sua interpretazione del diritto romano ricava da esso il principio che: consuetudo in delinquendo aggravat poenam; e la recidiva è colpita, dove più dove meno severamente, nel diritto statutario. Nel ducato di Milano il recidivo di furto era condannato per la prima volta all'asportazione dell'occhio e della mano; se commetteva un terzo furto, poteva essere condannato a morte. Prova della recidiva era il marchio impresso sul corpo del colpevole e l'asportazione dell'organo che aveva relazione col delitto commesso. Il marchio, mantenuto ancora dalla legislazione della rivoluzione francese, fu, in seguito, abolito per influenza del movimento riformista iniziato dal Beccaria. La legge italiana del 1810 escludeva i recidivi dalla riabilitazione.
Bibl.: C Ferrini, Diritto penale romano, Milano 1899; A. Pertile, Storia del diritto italiano, 2ª ed., Torino 1892, p. 159 e altrove.
Diritto penale moderno. - L'odierno indirizzo della criminologia, anche quando viene conservato l'instituto della pena e le viene assegnata prevalentemente una finalità retributiva, mira a difendere la società contro i delinquenti più pericolosi. È perciò fortemente organizzata la lotta contro i delinquenti recidivi e contro i delinquenti abituali, e, nei paesi dove non è stato possibile apportare sostanziale modificazione ai codici in vigore, sono state approvate leggi speciali contro i recidivi e gli abituali.
La prima di queste leggi fu pubblicata in Francia il 27 marzo 1885 sui recidivi, poi modificata con le leggi 3 aprile 1903, 31 marzo 1904, 19 luglio 1907 e altre successive. Il sistema francese si concreta nell'aggiungere, per i recidivi che si trovano in determinate condizioni, alle pene prevedute nel codice penale la relegazione, ossia l'internamento perpetuo nel territorio di una colonia o di un possedimento francese. Seguì la legge inglese del 1908, che è tutta dedicata alla detenzione dei delinquenti abituali per eliminarli o per riadattarli, a seconda che siano ritenuti emendabili o incorreggibili. Vi furono poi in molti paesi leggi più o meno analoghe; ma a tutte sovrasta la legge belga del 1930, che adotta un sistema completo per mettere la società in condizione di difendersi contro i delinquenti abituali. Naturalmente i paesi, che hanno potuto darsi un codice nuovo nell'ultimo decennio, hanno preferito inserire in esso i mezzi di difesa contro la recidiva e l'abitualità, e tra questi è l'Italia, che col nuovo codice penale del 1930 ha dato una disciplina veramente completa a questa materia, distinguendo i recidivi, gli abituali, i professionali e i delinquenti per tendenza.
Il dissenso dottrinale sul trattamento di queste categorie di delinquenti, per i quali alcuni affermano la necessità di aggravare la pena, altri sostengono opportuno e doveroso un sistema di rieducazione, è stato dal legislatore italiano risoluto con l'armonica adozione di pene e di misure di sicurezza.
La nozione più semplice della recidiva è data dall'art. 99, secondo il quale chi, dopo essere stato condannato per un reato, ne commette un altro, soggiace a un aumento fino a un sesto della pena da infliggere per il nuovo reato. Ne deriva una fondamentale modificazione all'ordinamento del codice del 1889, perché a costituire la recidiva è ora necessario e sufficiente che vi sia, al momento in cui è commesso il nuovo reato, un'altra sentenza di condanna divenuta irrevocabile; non occorre che la pena sia stata scontata, e perciò la recidiva permane, anche se per la precedente o per le precedenti condanne sia intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena, salvo che si tratti di causa che estigua anche gli effetti penali della condanna, come avviene nella ipotesi di riabilitazione. Non è altresì necessario che il nuovo reato sia dello stesso carattere giuridico del precedente o dei precedenti, e solamente per l'art. 100 è consentita al giudice la facoltà di escludere la recidiva tra delitti e contravvenzioni, ovvero tra delitti dolosi o preterintenzionali e delitti colposi ovvero tra contravvenzioni, purché non siano della stessa indole. Infine non è necessario, per l'ipotesi semplice di recidiva, che il nuovo reato venga commesso entro un tempo determinato.
Si ha recidiva aggravata, per la quale la pena è aumentata fino alla metà: 1. se il nuovo reato è della stessa indole; 2. se il nuovo reato è stato commesso nei cinque anni dalla condanna precedente; 3. se il nuovo reato è stato commesso durante o dopo l'esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all'esecuzione della pena. Qualora concorrano più di tali circostanze, l'aumento di pena è da un terzo alla metà. Se poi il recidivo commette un altro reato, nel caso di recidiva semplice l'aumento della pena è da un terzo alla metà e nel caso di recidiva aggravata è dalla metà a due terzi.
Il legislatore, a evitare questioni e dibattiti, ha stabilito nell'art. 101 che, agli effetti della legge penale, sono considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, pur essendo preveduti da disposizioni diverse del codice, ovvero da leggi diverse, nondimeno, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinano, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni.
La recidiva non produce solo l'aggravamento delle pene, ma anche altri effetti di diverso genere: p. es., in materia di amnistia, d'indulto, di perdono giudiziale, di condanna condizionale, di esclusione della menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziario, non essendo tali istituti applicabili ai recidivi; così ancora in materia di prescrizione della pena, di liberazione condizionale e di riabilitazione, perché tali istituti hanno qualche regola speciale per i recidivi; e infine la recidiva produce effetti in ordine alla custodia preventiva regolata dal codice di procedura penale.
L'abitualità è regolata negli articoli 102, 103 e 104 e va considerata distintamente rispetto ai delitti e rispetto alle contravvenzioni. In tema di delitti il codice distingue tra abitualità Presunta dalla legge e abitualità ritenuta dal giudice: la prima dev'essere dichiarata dal giudice, quando sia accertata l'esistenza delle condizioni prevedute dalla legge, ossia che il delinquente: a) sia stato condannato alla reclusione in misura complessivamente superiore a cinque anni per tre delitti non colposi della stessa indole, commessi entro dieci anni, e non contestualmente; b) che dopo avere riportato le condanne suddette, riporti altra condanna per un delitto non colposo, che sia ugualmente della stessa indole, e sia stato commesso entro i dieci anni successivi all'ultimo dei delitti precedenti. La seconda ipotesi di abitualità richiede condizioni meno gravi, e perciò il legislatore lascia al giudice l'apprezzamento discrezionale sulla sussistenza di una pericolosità tale da far ritenere l'abitualità.
I presupposti della dichiarazione di abitualità ope iudicis sono i seguenti: a) l'essere stato il delinquente condannato per due delitti non colposi con unica sentenza o con due sentenze distinte; b) l'aver riportato dopo la condanna o le condanne suddette altra condanna per delitto non colposo; c) il giudice deve accertare se il colpevole sia dedito al delitto. La dichiarazione di abitualità per le contravvenzioni è sempre facoltativa, secondo le disposizioni dell'art. 104.
Tra i delinquenti abituali il codice ha preveduto una speciale categoria, che chiama delinquenti professionali, i quali non solo commettono varî reati, ma traggono dagli stessi i mezzi di sussistenza, costituendo gravissimo pericolo per la società. La professionalità nel reato è sempre dichiarata dal giudice e non è mai presunta dalla legge. L'art. 103 stabilisce che la dichiarazione è pronunciata contro chi, trovandosi nelle condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità, riporta condanna per un altro reato qualora, avuto riguardo alla natura dei reati, alla condotta e al genere di vita del colpevole e alle altre circostanze indicate nel capoverso dell'art. 133, debba ritenersi che egli viva abitualmente, anche in parte soltanto, dei proventi del reato.
Il codice del 1930 ha infine determinato nell'art. 108 la figura del delinquente per tendenza, dando luogo durante i lavori preparatorî a una vivissima discussione, che ancora non si può dire placata. Le discussioni sorsero appena fu pubblicato il progetto preliminare, nel quale si parlava di istintiva tendenza a delinquere: sembrò che il legislatore volesse fare riferimento al delinquente nato della scuola biologica. Ma questa concezione veniva respinta dal fatto che al delinquente per tendenza veniva aggravata la pena. La disposizione parve un successo della scuola positiva, ma il legislatore nella successiva elaborazione del codice, e più specialmente nel testo definitivo, chiarì bene che il suo concetto era ben diverso da quello positivistico. Nell'art. 108, infatti, e nella relazione che lo illustra, è esaurientemente detto che si tratta di una figura di delinquente, in cui la tendenza a delinquere deriva da una speciale inclinazione a delinquere, che trova la sua causa nell'indole particolarmente malvagia del colpevole. Deficienza, dunque, del carattere e non vizio di mente, tanto che lo stesso codice esclude che possa applicarsi la disposizione riguardante il delinquente per tendenza, quando il soggetto è ritenuto infermo o semi-infermo di mente. La dichiarazione di delinquente per tendenza è possibile solo per i condannati per delitti dolosi e non anche per delitti colposi o per contravvenzioni.
Il trattamento dei delinquenti abituali, professionali o per tendenza, è conforme ai più accreditati principî della scienza, perché per essi è disposta, dopo l'esecuzione della pena, una misura di sicurezza (casa di lavoro o colonia agricola) destinata a riadattarli alla vita sociale. Inoltre è stabilito che tali delinquenti scontano la pena in stabilimenti speciali. La dichiarazione di delinquenza abituale o professionale può essere fatta con la sentenza di condanna e anche con provvedimento successivo del giudice di sorveglianza, mentre la dichiarazione di delinquenza per tendenza può essere fatta solo con la sentenza di condanna. La riabilitazione estingue la dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza.
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