reato
Evento per il quale l’ordinamento giuridico statuisce una sanzione penale. Più precisamente, un fatto costituisce r. ogni qualvolta la legge per esso prevede una sanzione quale l’ergastolo, la reclusione, la multa, l’arresto e l’ammenda, che viene irrogata dall’autorità giudiziaria mediante processo. ● L’art. 39 c.p. distingue espressamente i r. in delitti e contravvenzioni «secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite». I primi sono i r. per i quali sono comminate le pene dell’ergastolo, reclusione e multa; mentre i secondi sono quelli puniti con l’arresto e l’ammenda. La diversa qualità ed entità della sanzione è tendenzialmente indicativa della differente gravità che il legislatore attribuisce al fatto, dal momento che, almeno in linea di principio, sono configurati come delitti quelli più gravi e come contravvenzioni quelli più lievi.
Secondo il principio di stretta legalità, enunciato dall’art. 1 c.p. e accolto dalla stessa Carta costituzionale all’art. 25, 2° co., la definizione di ciò che costituisce r. dev’essere prevista dalla legge in forma tassativa. La portata pratica del principio consiste nel divieto per il giudice di irrogare sanzioni penali al di fuori dei casi espressamente contemplati dal legislatore (divieto di analogia in malam partem).
La legge in forza della quale si punisce deve essere entrata in vigore prima del fatto commesso; nel nostro ordinamento vige infatti il principio di irretroattività della norma penale incriminatrice (art. 25, 2° co., Cost.; art. 2 c.p.) la cui ratio è quella di garantire al cittadino la certezza, di fronte al mutare delle valutazioni del legislatore, di non essere punito o di non essere punito più severamente per fatti che, al momento della loro commissione, non costituivano r. o erano sanzionati in modo meno pesante. In ossequio al favor libertatis, il principio di irretroattività viene accolto però nel nostro ordinamento in termini relativi; l’art. 2 c.p. sancisce infatti, al contempo, la retroattività della legge penale più favorevole al reo, ritenendosi non ragionevole continuare ad applicare un certo trattamento penale a un fatto che – per mutata valutazione sociale – venga successivamente sanzionato in modo più mite o considerato penalmente lecito.
Il r. deve manifestarsi attraverso un fatto materiale, non potendo concretarsi in un mero dato interiore o in un puro stato psicologico (cogitationis poenam nemo patitur). La condotta è il primo elemento indefettibile del fatto di r. e può consistere in un’azione o in un’omissione. Normalmente, la figura criminosa descritta dalla legge prende in considerazione anche un risultato, una modificazione del mondo esterno, come per es. la morte dell’uomo nel delitto di omicidio: tale risultato si dice ‘evento’. Affinché l’evento possa essere riferito al soggetto agente e alla sua condotta è necessario accertare l’esistenza del rapporto di causalità; in altri termini, si tratta di verificare se «l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del r.» sia «conseguenza della sua azione od omissione» (art. 40 c.p.).
Nel nostro ordinamento, perché sussista r. non basta che il soggetto abbia posto in essere un fatto materiale, ma occorre altresì il concorso della volontà, e cioè di un nesso psichico tra l’agente e il fatto. La partecipazione della volontà al fatto di r. viene designata in dottrina con il termine ‘colpevolezza’ e presuppone l’esistenza, come atteggiamento psicologico del soggetto agente, del dolo o quantomeno della colpa. Il dolo, che è la forma più grave di colpevolezza, è rappresentazione e volontà del fatto di r., mentre la colpa sussite se tale fatto – che deve necessariamente essere non voluto – è dovuto a imprudenza, negligenza o imperizia, oppure a inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (art. 43 c.p.).