Reati culturalmente motivati
Quale valore l’ordinamento giuridico penale può, o deve, attribuire al condizionamento esercitato dalla cultura d’origine dell’imputato sulla genesi e sulle modalità esecutive di una condotta penalmente rilevante? Attraverso un’analisi delle più recenti sentenze di legittimità sui reati culturalmente motivati, il contributo si propone di verificare le risposte fornite dalla Cassazione a tale interrogativo, tra rischi di “populismo giudiziario” e ricerca di soluzioni equilibrate, elaborate lungo gli snodi di una sorta di “test” culturale, mentre sullo sfondo rimangono i problemi inerenti la “prova”.
Quale valore l’ordinamento giuridico penale può, o deve, attribuire al condizionamento esercitato dalla cultura1 d’origine dell’imputato sulla genesi e sulle modalità esecutive di una condotta penalmente rilevante? Si tratta di un interrogativo con il quale la dottrina penalistica italiana si confronta ormai da più di un decennio e che, negli ultimi anni, è affiorato, con consapevolezza sempre maggiore della sua complessità, anche nella nostra giurisprudenza. È un interrogativo – è agevole intuirlo – divenuto rilevante e attuale per effetto dei flussi immigratori che negli ultimi decenni hanno portato in Italia (al pari di quanto avvenuto in altri paesi europei) soggetti appartenenti a gruppi sociali che condividono culture più o meno marcatamente “distanti” da quella italiana, in tal modo trasformando anche l’Italia in una società multiculturale di tipo polietnico.
Conviene allora partire, per inquadrare la tematica in oggetto, dalla definizione di reato culturalmente motivato, fornita dalla dottrina: è tale un comportamento tenuto da un soggetto appartenente ad un gruppo culturale di minoranza (nell’esperienza giuridica italiana si tratta, quasi sempre, di un immigrato); questo comportamento, però, mentre è considerato reato dall’ordinamento giuridico del gruppo culturale di maggioranza (nella specie, il gruppo culturale italiano), è valutato con minor rigore, o accettato come normale, o addirittura incoraggiato all’interno del gruppo culturale d’origine del suo autore. Tale definizione, dai contorni in realtà molto ampi, è applicabile a casi tra loro anche profondamente eterogenei, riconducibili grosso modo alle seguenti sotto-categorie:
a) omicidi, lesioni personali e maltrattamenti commessi in contesto familiare dal genitore, dal marito, dal capofamiglia che, in virtù della sua cultura d’origine, si ritiene depositario, nei confronti degli altri membri della famiglia, di poteri e prerogative, da tempo non più riconosciutigli dalla cultura (e dalla legge) italiana;
b) omicidi e lesioni a difesa dell’onore, che scaturiscono da un esasperato concetto dell’onore familiare o di gruppo, il quale può spingere a vendicare “col sangue” l’uccisione di un membro della propria famiglia o del proprio gruppo (cd. “vendette di sangue”); altre volte, invece, viene in rilievo il concetto di onore sessuale, offeso da una relazione adulterina o da altra condotta ritenuta riprovevole; né mancano, infine, ipotesi in cui gravi fatti di sangue sono commessi per ristabilire la propria autostima, offesa da uno “smacco” ritenuto intollerabile in base ai parametri culturali d’origine;
c) reati di riduzione in schiavitù a danno di minori, commessi da soggetti che invocano a propria scusa e/o giustificazione le loro ataviche consuetudini concernenti i rapporti adulti-minori;
d) reati sessuali, le cui vittime sono ragazze minorenni che nella cultura d’origine dell’imputato non godono di una particolare protezione in ragione dell’età nella supposizione di una loro maturità psico-fisica precocemente raggiunta, o che risultano legate all’imputato da un cd. “matrimonio precoce”, celebrato secondo la legge o le consuetudini del gruppo d’origine; altre volte, vittime sono donne adulte alle quali la cultura dell’imputato – per il solo fatto di essere mogli o, tout court, persone di sesso femminile – non riconosce una piena libertà di autodeterminazione in ambito sessuale; altre volte ancora, vittime sono bambini (sia maschi che femmine) in tenerissima età, che ricevono carezze, palpeggiamenti, baci nelle parti intime quali asserite espressioni di affetto genitoriale o manifestazioni di buon augurio e prosperità;
e) mutilazioni o lesioni genitali femminili, circoncisioni maschili rituali e tatuaggi ornamentali “a cicatrici”, suggeriti, ammessi o addirittura imposti dalle convenzioni sociali, dalle regole religiose o dalle tradizioni tribali del gruppo culturale d’origine;
f) reati in materia di stupefacenti aventi per oggetto erbe, bevande, misture il cui consumo è ritenuto assolutamente lecito e, talvolta, addirittura raccomandato, per motivi rituali o sociali, nel gruppo culturale d’origine;
g) violazioni dei diritti dell’infanzia, come nel caso dell’avviamento precoce dei minori al lavoro o all’accattonaggio, o del rifiuto dei genitori di mandare i figli a scuola a causa di riserve di tipo religioso-culturale rispetto alla scuola cui questi sono stati assegnati, o circa la ripartizione dei compiti educativi tra famiglia e collettività;
h) infine, reati concernenti l’abbigliamento rituale, riguardanti casi in cui l’usanza tradizionale di portare un indumento (ad esempio, il burqa delle donne musulmane) o un amuleto simbolico (ad esempio, il kirpan degli indiani sikh) è stata vagliata alla luce della sua possibile rilevanza penale rispetto ad alcune figure di reato poste a tutela della sicurezza pubblica.
Nelle predette “sotto-categorie” possono essere ricondotti anche i casi affrontati dalla giurisprudenza più recente, i quali infatti riguardano maltrattamenti e violenze sessuali commessi in ambito familiare (in un caso ai danni del figlio minore2; in un altro ai danni della moglie3); violenze sessuali a danno di una minore sedicenne consenziente, il cui consenso, tuttavia – in applicazione dell’art. 609 quater, co. 1, n. 2, c.p. – non esonera da responsabilità in quanto la stessa conviveva con l’imputato (di cui era la sposa in virtù di un matrimonio celebrato con rito rom)4; infine, abbigliamento rituale (porto del kirpan)5.
Ebbene, di fronte ad un reato culturalmente motivato commesso dall’immigrato come deve reagire il nostro diritto penale? Deve conferire un qualche rilievo alla sua cultura d’origine? Oppure deve rimanere assolutamente indifferente alla sua motivazione culturale? Nel presente contributo ci proponiamo di verificare le risposte fornite a tali quesiti dalla più recente giurisprudenza di legittimità6, segnalando, invece, subito che, dal fronte legislativo, non vi è alcuna novità.
Alcune delle sotto-categorie di reato culturalmente motivato sopra descritte comportano una grave offesa a beni fondamentali della persona: vita, incolumità, libertà di autodeterminazione in ambito sessuale, libertà morale, ecc. Quando oggetto di giudizio sono reati siffatti, la giurisprudenza più recente, al pari di quella precedente7, richiama la teoria dello “sbarramento invalicabile”, da ultimo formulata nei seguenti termini: «nessun sistema penale potrà mai abdicare, in ragione del rispetto di tradizioni culturali, religiose o sociali del cittadino o dello straniero, alla punizione di fatti che colpiscano o mettano in pericolo beni di maggiore rilevanza (quali i diritti inviolabili dell’uomo garantiti e i beni ad essi collegati tutelati dalle fattispecie penali), che costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione, di diritto e di fatto, nella società civile, di consuetudini, prassi, costumi che tali diritti inviolabili della persona, cittadino o straniero, pongano in pericolo o danneggino»8. In tali casi, la “difesa culturale” viene, pertanto, ritenuta inidonea ad esonerare l’imputato dalla responsabilità.
Si tratta di una opinione assolutamente condivisibile, la quale, tuttavia, presenta alcuni margini di incertezza quando si passi dalla fase della sua enunciazione teorica alla fase della sua applicazione concreta9. In primo luogo, infatti, incertezze potrebbero sorgere in ordine alla riconducibilità di determinati diritti nel catalogo di quelli “inviolabili”, catalogo la cui estensione di certo non è indifferente ad opzioni culturali di fondo: l’onore o la riservatezza privata, ad esempio, vi rientrano? In secondo luogo, ci si potrebbe domandare se tutti i diritti “inviolabili” godano di una tutela assoluta ed incondizionata, o se alcuni di essi possano essere bilanciati con altri interessi che l’imputato, sia pur nella sua prospettiva “culturalmente condizionata”, ha inteso perseguire con la propria condotta: ad esempio, una lieve e transeunte lesione al clitoride della propria figlioletta è bilanciabile con l’interesse dei genitori a compiere un rito purificatorio e identitario?10
Una maggiore apertura, sia pur cauta e circoscritta, ad una valutazione pro reo della motivazione culturale era, invece, emersa, negli anni passati, in relazione a casi implicanti livelli di offensività decisamente inferiori. Tale apertura è stata, invece, platealmente rinnegata da una pronuncia del 2017 che ha condannato un indiano sikh ai sensi dell’art. 4 l. 18.4.1975, n. 110, per aver egli portato in pubblico il coltellino kirpan, simbolo della sua religione, “senza giustificato motivo”, non essendo stato riconosciuto tale il motivo religioso. Ma ciò che colpisce di questa sentenza non è tanto la decisione finale di condanna (in linea con alcuni precedenti di legittimità11), quanto la veemente stigmatizzazione, contenuta in alcuni passaggi motivazionali, della diversità culturale (peraltro rivolta nei confronti di una delle comunità più pacifiche e meglio integrate di stranieri, presente in Italia: quella, appunto, degli indiani di religione sikh). La sentenza in esame, infatti, evoca lo spettro di «arcipelaghi culturali confliggenti», per evitare i quali invoca, a carico degli immigrati, un «obbligo di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale» (dimenticando, forse, che tra tali valori vi è indubbiamente anche quello del pluralismo e della tolleranza): affermazioni, queste, non solo vaghe e ambigue, non solo del tutto ininfluenti ai fini della decisione finale, ma soprattutto idonee a dare maldestramente la stura a quanti agitano lo spauracchio di uno “scontro di culture”, verso il quale l’immigrazione starebbe conducendo la società italiana: il rischio di un “populismo giudiziario” sembra, quindi, essersi davvero concretizzato in questa decisione12.
Un atteggiamento più equilibrato e un approccio più consapevole alla complessa tematica dei reati culturalmente motivati emerge, invece, nell’ultima sentenza, in ordine cronologico, di cui abbiamo notizia13. Il caso affrontato riguarda un padre di origini albanesi che, in più occasioni, compiva atti sessuali sul figlioletto di soli cinque anni (palpeggiamenti nelle parti intime e “succhiotti” al pene). Il Tribunale e la Corte d’appello assolvevano l’imputato accogliendo, senza sottoporla ad alcun serio vaglio critico, la tesi difensiva, secondo la quale tali comportamenti, nella cultura d’origine dell’imputato, non avrebbero alcuna valenza sessuale, non sarebbero manifestazione di concupiscenza, ma esprimerebbero, in forma ludica, solo sentimenti di amore e di orgoglio paterno per il figlio maschio.
La Cassazione, invece, nell’annullare con rinvio, coglie l’occasione per individuare tre snodi fondamentali14, coi quali sarebbe opportuno che si confrontassero tutti i giudici chiamati a giudicare casi di reati culturalmente motivati, così abbozzando una sorta di “test”, vale a dire una procedura standardizzata di accertamento di determinati requisiti, la quale potrebbe aiutare i giudici stessi ad elaborare una motivazione delle sentenze più articolata e meglio argomentata in punto di “motivazione culturale”15:
i) il primo snodo è costituito da un’accurata ponderazione del bene giuridico offeso e del grado di offesa al medesimo, al fine di verificare se davvero, nel caso di specie, possa entrare in gioco la teoria dello “sbarramento invalicabile”: teoria che la sentenza in esame assolutamente ribadisce e fa propria16, senza, tuttavia, elevarla a tabù, o peggio a schermo per sbrigative soluzioni, dal momento che la «tutt’altro che uniforme casistica» dei reati culturalmente motivati «potrà essere valutata dall’interprete solo sulle premesse dell’attento bilanciamento tra il diritto, pure inviolabile, del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose, sociali, ed i valori offesi
o posti in pericolo dalla sua condotta»;
ii) il secondo snodo consiste nella verifica della «natura della norma culturale in adesione della quale è stato commesso il reato, se di matrice religiosa, o giuridica (come accadrebbe se la norma culturale trovasse un riscontro anche in una corrispondente norma di diritto positivo vigente nell’ordinamento giuridico del Paese di provenienza dell’immigrato, dovendosi ritenere tale circostanza rilevante quanto alla consapevolezza della antigiuridicità della condotta e quindi alla colpevolezza del fatto commesso), e del carattere vincolante della norma culturale (se rispettata in modo omogeneo da tutti i membri del gruppo culturale o, piuttosto, desueta e poco diffusa anche in quel contesto)»;
iii) passando poi al terzo snodo, ad avviso della Cassazione «assumerà rilievo ... il grado di inserimento dell’immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del Paese d’arrivo o il suo grado di perdurante adesione alla cultura d’origine, aspetto relativamente indipendente dal tempo di permanenza nel nuovo Paese»: è evidente, infatti, che la credibilità di una “difesa culturale” risulta inversamente proporzionale al grado di integrazione dell’imputato nella cultura del Paese, di fronte ai cui giudici è chiamato a rispondere del fatto commesso. Infine la Cassazione, nella sentenza in esame, tocca, sia pur fugacemente, anche il profilo “probatorio” dei reati culturalmente motivati, sottolineando l’esigenza che la tradizione, la prassi, la consuetudine culturale invocata dall’imputato a sua difesa vada adeguatamente dimostrata: cosa che, nel caso di specie, non era affatto avvenuta.
Le concrete capacità di rendimento del “test” culturale sopra solo abbozzato dipenderanno molto, in primo luogo, dalla sensibilità della classe giudiziaria (e degli avvocati), dalla formazione che essi riceveranno in materia, nonché dal loro grado di resistenza alla tentazione di un populismo giudiziario. Sul piano pratico, invece, un profilo altamente problematico dei reati in esame resta quello della “prova”: tenuto conto che non esistono e mai potranno esistere gli “atlanti delle culture” (le culture sono in continua evoluzione e contaminazione, e non costituiscono affatto dei sistemi monolitici e immutabili), come può il giudice acquisire la corretta conoscenza della tradizione, della prassi, della norma culturale invocata a propria difesa dall’imputato? E come si può dimostrare che costui abbia agito davvero in adesione a tale norma culturale, e non piuttosto seguendo la propria indole?17
1 Nella presente indagine col termine “cultura” – in adesione agli insegnamenti dell’antropologia culturale – intendiamo un sistema complesso ed organizzato di modi di vivere e di pensare, concezioni del giusto, del buono e del bello, radicati e diffusi in modo pervasivo all’interno di un gruppo sociale (quasi sempre identificabile con un gruppo etnico) e che, in tale gruppo, si trasmettono, pur evolvendosi e modificandosi, di generazione in generazione, risultando capaci di coinvolgere ‘a tutto tondo’ (non singoli, determinati aspetti, ma) i principali aspetti dell’esperienza personale degli appartenenti a tale gruppo: sul punto, anche per i doverosi rinvii, v. Basile, F., Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Milano, 2010, 15.
2 Cass. pen., 2.7.2018, n. 29613.
3 Cass. pen., 31.5.2018, n. 24594.
4 Cass. pen., 22.11.2017, n. 53135.
5 Cass. pen., 15.5.2017, n. 24084.
6 Sentenze cit. supra, note 25.
7 V., ad es., Cass. pen., 30.3.2012, n. 12089, nonché Cass. pen., 13.5.2014, n. 19674, cui si rimanda per la citazione di ulteriori precedenti conformi.
8 Cass. pen. n. 29613/2018; in termini analoghi, Cass. pen. n. 24594/2018.
9 Così Grandi, C., A proposito di reati culturalmente motivati, in Dir. pen. cont., 2012, 7.
10 Ha fornito risposta positiva a tale quesito App. Venezia, 23.11.2012, n. 1485, con nota di F. Basile, in Stato e chiese – Rivista online, 2012, riconoscendo che i genitori non avevano agito «allo scopo di menomare le funzioni sessuali» della figlia (come, invece, richiesto dall’art. 583 bis, co. 2, c.p.), bensì per compiere, in conformità con la propria cultura d’origine, un rito insieme purificatorio e identitario.
11 Cass. pen., 14.6.2016, n. 24739; Cass. pen., 16.6.2016, n. 25163.
12 Bernardi, A., Populismo giudiziario? L’evoluzione della giurisprudenza penale sul kirpan, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 671, del quale v. pure Id., Il fattore culturale nel sistema penale, Torino, 2010.
13 Cass. pen. n. 29613/2018.
14 Su tali tre snodi, e su una loro rilevanza, almeno implicita, in precedenti decisioni giudiziarie, v. già Basile, F., I reati cd. culturalmente motivati commessi dagli immigrati: (possibili) soluzioni giurisprudenziali, in Quest. giust., 1/2017, 126.
15 Il concetto di “test culturale” è stato di recente ben illustrato, prendendo spunto dalla prassi giudiziaria nordamericana, da Ruggiu, I., Il giudice antropologo, Milano, 2012, 85.
16 V. supra, nota 8.
17 In argomento, v. De Maglie, C., I reati culturalmente motivati, Pisa, 2010, 157, nonché, più di recente, Bigiarini, A., La prova culturale nel processo penale, in Cass. pen., 2018, 411.