Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso degli anni Trenta molte poetiche del cinema europeo si richiamano all’esigenza di rappresentare ciò che, piuttosto genericamente, viene definito la "realtà"; nella diversità dei loro approcci, esse mostrano l’estrema variabilità dei significati a cui il termine "realismo" è stato storicamente associato e il dinamico laboratorio linguistico cui ha dato origine in ambito cinematografico.
L’introduzione del sonoro provoca trasformazioni importanti soprattutto a livello dello stile di ripresa, che appare sempre meno organizzato in funzione del montaggio e sempre più incline a rispettare i tempi della scena e la continuità dell’evento audiovisivo. In un saggio uscito sui "Cahiers du cinéma", André Bazin interpreta l’avvento del sonoro come un impulso tecnologico decisivo per lo sviluppo di un nuovo linguaggio "ontologicamente" realista, capace di tradurre a livello stilistico il realismo immanente alla funzione riproduttiva del mezzo. Si tratta di quella estetica modernista del piano-sequenza e della profondità di campo che prima di trovare i suoi modelli americani in Orson Welles e William Wyler si viene evidenziando in modo particolare nel cinema di Jean Renoir.
Ma se la forma per così dire radicale del realismo di Renoir è quella che meglio corrisponde alla sensibilità di Bazin, gli anni Trenta vedono emergere tutta una serie di altre poetiche che si richiamano all’esigenza di rappresentare ciò che, piuttosto genericamente, viene definito la "realtà" e che mostrano l’estrema variabilità dei significati a cui il termine "realismo" è stato storicamente associato. Per il realismo poetico francese, per esempio, mettere in scena la realtà significa scegliere un tipo particolare di ambientazione, milieu proletari o malavitosi che sembrano produrre spontaneamente le loro narrazioni, ma che di fatto vengono ricostruiti in studio con grande cura dei dettagli. Tra i registi che contribuiscono al filone vi sono il Julien Duvivier di Pépé-le-Moko (1937) e Jean Grémillon dell’Etrange Monsieur Victor (1938) o di Remorques (Tempesta, 1940). Ma i caratteri distintivi di questo realismo emergono soprattutto nei film diretti da Marcel Carné su sceneggiatura di Jacques Prévert, come Quai de brûmes (Il porto delle nebbie, 1938), ambientato in un porto, e Le Jour se lève (Alba tragica, 1939), implacabile resoconto delle ultime ore di un assassino. Ancor più che ai suggestivi dialoghi di Prevert, il successo di questi e altri film di Carné (tra cui va almeno citato il suo capolavoro, Les enfants du paradis, 1945) si deve alle atmosfere ricreate da Alexandre Trauner con le sue magistrali scenografie e all’interpretazione di attori che sono divenuti il simbolo del cinema francese di questo periodo, come Jean Gabin, Arletty, Jules Berry, Louis Jouvet, Jean-Louis Barrault.
Il realismo poetico francese è importante anche per la suggestione che esercita sui giovani autori italiani raccolti intorno alla rivista "Cinema", alcuni dei quali, come Luchino Visconti e Giuseppe de Santis, saranno destinati a svolgere un ruolo di primo piano all’interno del movimento neorealista. Si tratta di un modello fondamentale soprattutto per Visconti, che dopo avere esordito come assistente di Renoir sul set di Toni, nel 1941, firma con Ossessione (1941) l’opera inaugurale della nuova corrente. Ma in effetti, il movimento verso il realismo è alimentato in Italia da opzioni stilistiche che appaiono assai variegate. Blasetti, che esordisce con un dittico populista di ambientazione rurale ispirato al realismo sovietico (Sole, 1929, girato ancora muto, e Terra madre, 1931), dopo essersi affermato come uno dei principali agiografi del regime con film come Vecchia guardia (1935) stupisce realizzando Quattro passi tra le nuvole (1942), sensibile ritratto di una famiglia di campagna dal sapore quasi minimalista. Alla ricerca di un realismo adeguato alle trasformazioni della modernità muove invece il cinema di Mario Camerini, che nelle sue commedie degli anni Trenta offre una vivace rappresentazione della piccola-borghesia italiana al momento del suo incontro con la modernità. Notevole è soprattutto il caso di Gli uomini, che mascalzoni… (1933), ambientato fra la città e lo stand della Fiera Campionaria di Milano. Quasi invariabilmente interpretati da Vittorio De Sica, i film di Camerini possiedono un’arguzia e una leggerezza che in qualche caso possono sostenere il confronto con quelle di Ernst Lubitsch, come gli irresistibili Darò un milione (1935) su sceneggiatura di Cesare Zavattini e Il signor Max (1937).
Una via al realismo ancora differente è quella che fa la sua apparizione in Germania nella seconda metà degli anni Venti. Alimentata dagli esempi letterari della Nuova oggettività, che professa la necessità di una descrizione il più possibile distaccata e impassibile della realtà, questa tendenza comincia ad affiorare nel film di Georg Wilhelm Pabst Die Freudlose Gasse (La via senza gioia, 1925), una cruda descrizione delle conseguenze della crisi economica a Vienna, ed è favorita dalla vittoria delle sinistre al Reichstag nel 1928. Altri film che si inseriscono in questa corrente sono Unser Tagliches Brot (Nostro pane quotidiano, 1928) di Piel Jutzi, Jensens der Strasse (Al di là delle strade , 1929) di Leo Mittler, Asphalt (Asfalto, 1931) di Joe May (1880-1954), che sono altrettante feroci denunce delle condizioni miserabili in cui versa una gran parte della popolazione tedesca. Si assiste all’intervento diretto dei partiti della sinistra nella produzione di film su tematiche sociali: la Casa di produzione Prometheus, legata al Partito Comunista, finanzia la realizzazione di Mutter Krausens Fahrt ins Glück (Il viaggio di mamma Krausens verso la felicità, 1929) di Jutzi e un’analoga iniziativa viene intrapresa da parte socialdemocratica con Brüder (1929) di Werner Hochbaum. In questo contesto si verifica anche l’incontro con il cinema di Bertolt Brecht. Pabst gira un adattamento di Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi, 1931), che pur collocandosi tra i punti più alti della sua produzione riesce solo a provocare l’irritazione di Brecht, che reagisce intentando una causa contro il regista. Ma l’interesse per il cinema spinge lo scrittore a fornire una sua sceneggiatura a Slatan Dudow (1903-1963), che la porta sullo schermo con il titolo di Kuhle Wampe (1932), un’altra produzione Prometheus, che si apre con il suicidio di un adolescente disoccupato. Gli eventi del 1933 mettono definitivamente fine a tutti questi diversi tentativi, costringendo un gran numero di tecnici, registi e autori di origine ebrea a riparare all’estero.
Nel panorama dei realismi che anticipano la grande stagione del cinema moderno, particolare attenzione merita la ricerca documentaristica del britannico John Grierson. Accreditato alla regia di un solo film, Grierson inizia la sua attività al termine di un viaggio negli Stati Uniti (1924-1927), dove frequenta l’ambiente di Hollywood e si appassiona alle teorie di Walter Lippmann, tra i primi studiosi ad assegnare ai mezzi di comunicazione di massa un ruolo centrale nella vita delle democrazie moderne. Tornato a Londra, si impegna con grande energia nella promozione di quello che nel 1926, in una recensione a Moana (L’ultimo eden) dell’americano Robert Flaherty, definisce – per primo – "documentario", dando inizio a un intenso lavoro di teorizzazione teso in primo luogo a dimostrare la funzione sociale del nuovo genere. Nel 1929 realizza il suo primo e unico film, The Drifters (Pescherecci), che descrive il lavoro dei pescatori nei mari del Nord, trovando i finanziamenti presso l’Empire Marketing Board, organismo operante nell’ambito del commercio con le colonie. Sempre in seno a questo istituto crea, nel 1930, una Film Unit dedita unicamente ad attività di documentazione, formata da registi come Basil Wright (1907-1987), Arthur Elton (1906-1973), Edgar Anstey (1907-1987), Paul Rotha (1907-1984), Harry Watt (1906-1987) e, più tardi, Humphrey Jennings. Al gruppo si avvicina lo stesso Flaherty, giunto dagli Stati Uniti per dirigere Industrial Britain (1931), seguito – a partire dal 1933, anno del passaggio della Film Unit sotto il marchio del General Post Office – dal brasiliano Alberto Cavalcanti e dai canadesi Norman McLaren e Len Lye. I loro film sono rivolti a esplorare le condizioni di vita e i problemi dei lavoratori, ma evitano accuratamente di sfiorare questioni di carattere sindacale, puntando a offrire, piuttosto, un ritratto eroico della classe operaia eletta a simbolo della nazione. È il caso di opere come Coalface (1935) di Cavalcanti e Night Mail (1936) di Harry Watt, mentre altri lavori si inseriscono in un programma di utilizzazione del cinema a fini didattici e informativi, dedicandosi all’approfondimento di problemi diffusi nella società con un taglio già pre-televisivo, come Workers and Jobs, 1935) di Elton e Housing Problems (1935) di Anstey e Elton. Nel 1938 la Film Unit del GPO cessa le sue attività, a seguito del trasferimento di Grierson in Canada, dove l’autore si reca per assumere l’incarico di direttore del National Film Board. L’anno successivo esce il primo film importante di Humphrey Jennings, Spare Time (Tempo libero), che dipinge con simpatia le attività dei lavoratori nel tempo libero. È la registrazione degli ultimi momenti di spensieratezza e di leggerezza nella vita del paese, che di qui a poco si vedrà costretto ad affrontare la dura realtà della guerra. E lo farà proprio con i film di Jennings, che per tutto il periodo del conflitto sarà impegnato in un’intensa attività propagandistica, realizzando una serie di opere di grande potenza che sono una partecipe rappresentazione dello spirito di resistenza del popolo britannico di fronte alla guerra.